Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 24 - gennaio 1992

.PJLBIANCO 0.11,ROS.SO l 111@hMil Perunaridefinizione dellademocraziaeconomica no dei problemi sempre U collegati al concetto di democrazia economica è quello di una sua definizione più precisa che ne eviti il carattere di contenitore di oggetti molto diversi. Per molti la democrazia economica coincide con il «governo democratico dell'economia», per altri è una variante dei meccanismi di partecipazione nelle imprese. Appare preferibile utilizzare un concetto intermedio che sia identificabile tanto rispetto alle politiche di programmazione che alla democrazia industriale: la democrazia economica riguarda gli strumenti che consentono di allargare i soggetti che partecipano alle decisioni nella sfera economica, ad un livello più ampio rispetto a quello delle singole aziende. Riprendendo ed adattando la tipologia proposta da Baglioni si può ritenere che la democraziaeconomica non corrisponda né alla partecipazione collaborativa, né a quella antagonistica. Nelle tesi più famose in questa materia (come quelle di Meidner, Meade, o Dahl) non si riscontra una volontà anticapitalistica o il rifiuto del mercato: piuttosto l'idea dell'accesso al processo decisionaledi altrigruppi(espressi) dal mondodel lavoro,manonsolo)diversi da quelli managerialiclassici. La stessa elaborazione di Meidnerche pure conteneva molti aspettidi radicalitàsi collocava lungo una lineadi sviluppodelle politicheriformiste, attraversola loroestensioneallasfera economica(che eraunodei postulati centrali della socialdemocraziasvedese). È quindi opportunoascriverela democraziaeconomicaalla variantedella partecipazione paritaria, di cui costituisce il momentomacro:mentre il momentomicro è rappresentatodallaregolazionecongiuntadelle relazionindustrialid'impresa(per BibliotecaGino Bianco di Mimmo Carrieri dirla nel linguaggio della Cgil: la codeterminazione). Lo scenario europeo si è dunque ravvivato di recente in virtù dell'esigenza di trovare contrappesi alle ricette neo-liberiste, che hanno prevalso o condizionato gli anni ottanta. Ma per lungo tempo questo scenario è stato dominato dall'esperimento svedese di democrazia economica. Proprio a partire da questo e dai risultati che ha conseguito, è utile impostare un ragionamento sui problemi teorici e pratici aperti oltre che sui dilemmi da sciogliere. Il piano Meidner (che fu presentato nel 1975) diede vita a grandi discussioni ed opposizioni. Fu più volte rielaborato da commissioni miste del partito socialdemocratico e del sindacato. Infine, dopo il ritorno al governo dei socialdemocratici (che erano stati estromessi dal 1976 al 1982), fu preparato un progetto definitivo che venne approvato e andò in vigore nel 1984 sotto veste di legge sperimentale dalla durata di sette anni. Alla fine del 1990 la legge ha cessato i suoi effetti ed è stato deciso di non rinnovarla. Questo consente di tirare un bilancio e di ragionare sulle implicazioni che ne conseguono. La legge sui «fondi dei salariati» ha attenuato la portata e la radicalità del piano Meidner. Mentre questo prevedeva un sistema di fondi accentrato e a base settoriale, la legge ha previsto cinque fondi a base regionale. Nel disegno originario i fondi ricevevano dalle imprese pagamenti in azioni fuori del mercato mobiliare che gestivano come socio collettivo, attraverso rappresentanti nominati dai lavoratori (che e ano il soggetto titolare). Invece la legge, oltre a prevedere anche una modesta tassa sui salari, ha conferito ai fondi capitali da gestire nell'ambito del mercato mobiliare, con l'obbligo di assicurare un rendimento 32 minimo al sistema dei fondi pensione nazionali Atp. Inoltre i fondi sono stati affidati a rappresentanti di nomina governativa (e non elettivi) e hanno avuto come vincolo da non oltrepassare la soglia dell'8% di azioni di ogni singola azienda (per cui anche messi insieme i cinque fondi non avrebbero potuto controllare la maggioranza del capitale azionario). Questo vincolo serviva esplicitamente a ridimensionare l'obiettivo enunciato da Meidner della socializzazione del capitale di controllo delle aziende. Ma non ha tranquillizzato gli imprenditori, che per tutto il decennio hanno ingaggiato una battaglia furibonda contro i fondi. Alla fine del 1990 è stato deciso dal governo - d'intesa con il sindacato, antico promotore dei fondi - di non rifinanziare più la legge, e di far confluire il capitale accumulato in un quinto fondo pensionistico (accanto agli altri di dimensioni maggiori, che si erano sviluppati a partire dagli anni cinquanta). Di diventare esplicitamente un pezzo del risparmio nazionale, rinunciando cosi alla funzione di democratizzazione dell'economia. La fine di questo esperimento ha coinciso con un momento di difficoltà dell'economia svedese, e di grave crisi del partito socialdemocratico, che alle elezioni del 1991 è stato sconfitto con il più basso risultato elettorale degli ultimi sessanta anni. Ma i fondi sono piuttosto una delle cause, che non uno degli effetti di queste difficoltà. Il loro esaurimento è dovuto a problemi di natura specifica e alla loro inadeguatezza a risultare un'innovazioneconvincente ed efficace. Già da qualche annotra gli studiosi e nella sinistra svedese era forte e prevalente la delusione rispettoal loro funzionamento e ai loro esiti. Le ragioni di questa inadeguatezza sono di diverso tipo e rinviano a nodi strut-

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