Il Bianco & il rosso - anno II - n. 23 - dicembre 1991

.P-lL BIANCO l.XltROSSO Mii•liiid tutti i 630 collegi uninominali (Camera) i primi due partiti e i relativi candidati sono e sarebbero gli stessi (vedi ora esemplarmente Brescia). È superfluo aggiungere che al collegio uninominale non consegue di per sé la stabilità governativa perché il giorno dopo l'elezione ciascun eletto (e partito) può andare per la sua strada (non a caso, nel progetto Dc e in altri si ricorre alla «sfiducia costruttiva», peraltro vanamente, come già si osserva negli enti locali un anno dopo la 140/1990: vedi ancora Brescia). Una cinquantina di parlamentari di Pds e Psi, accanto a una riforma elettorale, avrebbero convenuto per «l'elezione diretta del vertice dell'esecutivo»: formula, invero, alquanto ambigua che sottende l'incapacità di una adesione chiara e netta - e, dunque, la preclusione - per qualcuno dei regimi presidenziali felicemente funzionante nelle democrazie occidentali. Ma per quale profondo motivo quelli del Pds non hanno chiesto o comunque ottenuto che l'intero comitato promotore si pronunciasse, anche solo simbolicamente, nel medesimo senso? Tanto più che lo stesso comitato non ha esitato a pronunciarsi per l'elezione diretta del sindaco, benché sapesse bene che col suo referendum abrogativo non si poteva certo conseguirla. In proposito, anzi, ha fatto di peggio, contrabbandando l'estensione del sistema maggioritario a tutti i Comuni come elezione diretta del sindaco, che, invece, è tutt'altro e confligge istituzionalmente con la ricerca di una grande maggioranza consiliare di cui non avrebbe alcun bisogno: con la elezione diretta del sindaco la stabilità dell'esecutivo non dipenderebbe certo dalla maggioranza consiliare. Il sistema maggioritario nei Comuni non solo non è un passo verso l'elezione diretta del sindaco, ma si muove nella direzione di marcia opposta e nella presunzione (errata) di renderla superflua. In ogni caso, l'esaltazione (esatta) dell'elezione diretta del sindaco, nel contestuale silenzio sull'elezione diretta del Capo dello Stato e sul regime presidenziale, non può non significare e significa esclusione di questa. Finora l'adesione del Pds a qualunque iniziativa di riforma elettorale è stata soprattutto in funzione di se stesso (rimediare in seggi alla perdita inesorabile di voti), con buona pace dell'alternanza. Non ha senso dolersi che il Psi non abbia specificato la riforma elettorale con cui accompagnare il regime presidenziale, che è ciò che piu serve per un'alternanza non rinviata al prossimo secolo. Semmai doveva essere proprio il Pds, specie nel 1989 - quando Giuliano Amato (congresso Psi) si schierò per il sistema americano, oggettivamente il più favorevole per l'alternanza -, a subordinare la sua accettazione del regime presidenziale a una riforma elettorale precisa (uninominale). Ma, con le prossime elezioni del 1992, il Pds perderà anche elettoralmente l'egemonia sull'intera sinistra, che, oltre tutto, consta anche di verdi e radicali, nonché socialdemocratici e repubblicani. Inoltre, a quel punto, che viene prima del referendum del 1993, con l'aumento in parlamento dei presidenzialisti (oggi Psi, Pii, nonché Lega e Msi), si troverà nella posizione di poterne determinare la prevalenza o di stare ancora dalla parte degli anti-presidenzialisti. Cioè di dover scegliere fra la conservazione del sistema politico, storicamente fondato sulla complementarietà necessaria di ruoli e reciproco ausilio fra Dc e Pds, e la strada nuova, europea, occidentale, dell'alternanza. Che i referendum elettorali chiudono, anziché aprire.

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