Il Bianco & il rosso - anno II - n. 23 - dicembre 1991

ISSN 1120-7930 BIA 111t·11~il1·di dil,attito poli-ti<'o Anno II sommario dicembre 1991 J EDITORIALE: Italia politica ed Europa. Oltre la retorica, poco, di P. Camiti 4 ATTUALITÀ: Due o tre referendum contro l'alternanza, di E. Rotelli E se Psi e Pds... 7 Riforme vere e programma unitario. Altrimenti ... , di G. Tamburrano 9 Per l'unità a sinistra un «nuovo inizio» per tutti, di G. Rodano I O Congresso Cgil:molti diritti, poco sindacato, di G.P. Cella 14 Peppone non c'è più. E Don Camillo non cambia? «Unità politica» nella Dc?, di G. Gennari 21 «Centesimus annus» e frontiere della solidarietà, di L. Di Liegro 23 Quando la solidarietà è una calda «pantofola», intervista a E. Cannavera, di G. Gennari Dalla correzione alla prevenzione, di A. Quaglia 32 «Parità» come risorsadell'autopromozione, L. Saba 33 DOSSIER: A proposito di referendum, interventi di 37 L. Ruggiu, S. Andò, G. Cazzola, A. Barbera, C. Salvi, M.S. Giannini, S. Lombarbini, G. Rossi, P. Leon, M. D'Antonio, Gruppo Abele, P. Gelmini, V. Spini ReS: sui referendum eronomici ed elettorali 59 L'EUROPA E IL MONDO: Inglesi a Maastricht. fl 6] peso del «dopo Thatcher», di M. Pellegrino Sutcliffe INTERVENTI: La Rai matrigna per i nostri emigra- 63 ti, di M. Miano DOCUMENTO: L'occhio dell'intelligenza politica: 64 De Tocqueville SCAFFALE: Libri ricevuti 67 VITA DELL'ASSOCIAZIONE: Per l'alternanza: 69 laicità, solidarietà, giustizia. Risoluzione del Direttivo di ReS 30 Cooperativa «Kadossene» Linee di politica sociale IMMAGINI: Incisioni, di Duilio Cambellotti Italia politica ed Europa Oltre la retorica, poco di Pierre Camiti I n Italia siamo tutti europeisti. La retorica europeista dilaga. In compenso non sappiamo nulla e comunque ci disinteressiamo del tipo di Europa che si va costruendo. Il governo invoca il riferimento all'Europa sperando che costituisca un fattore di disciplina per la politica economica e comunque di pressione ad un - - - --- - - - - -- I rientro dall'inflazione e dal disavanzo. All'insegna dell'Europa si sta varando una legge finanziaria che, però, di europeo non ha proprio nulla. Nessun altro paese europeo penserebbe infatti di affidare le proprie politiche di risanamento al condono fiscale, che non è una misura europea, ma soltanto immorale. Di liquida-

.{)JL BIANCO lXILROSSO ll•HkiUJliNI re il patrimonio pubblico, non per ridurre il debito, ma per finanziare la spesa corrente. Di diminuire l'assistenza sanitaria aggravando uno sfascio che allontana ulteriormente dagli standards europei. Ma le cose vanno così. Tra le forze politiche italiane il dibattito sull'Europa è pressoché inesistente e le differenze di opinioni sono insignificanti. L'Europa costituisce, al più, l'oggetto di inchini retorici. È un pennacchio, non una politica. Si spiega così, a pochi giorni dal vertice di Maastricht dove i capi di Stato e di governo dovrebbero varare l'unione economica e monetaria ed un nuovo Trattato, la sostanziale noncuranza della politica italiana per questi problemi. Colpisce questa indifferenza se confrontata all'asprezza della discussione che si svolge altrove. In particolare in Inghilterra il dibattito politico è letteralmente dominato dalla questione europea. Fino al punto che la signora Thatcher è stata deposta proprio a causa della sua politica verso l'Europa. L'imperturbabilità del ceto politico italiano deriva probabilmente dalla mancanza di informazioni, da un diffuso provincialismo e dalla deplorevole tendenza a concepire l'Europa semplicemente come una fuga dai problemi dell'Italia. Il risultato è, comunque, che l'opinione pubblica non sa e non capisce quali saranno gli effetti concreti del progetto di nuova Europa l , ' - che si discuterà al vertice di Maastricht sulla vita quotidiana di ciascuno di noi, sul funzionamento delle istituzioni democratiche, sul lavoro, sulle condizioni di vita, sulla situazione sociale. L'idea di Europa piace. Pensiamo, non immotivatamente, che l'Europa costituisca il «futuro» ed un antidoto contro le tentazioni nazionalistiche, contro i pericoli di balcanizzazione che esse comportano. Insomma una garanzia di pace in un continente che, solo in questo secolo, ha conosciuto le indicibili sofferenze, le atrocità di due guerre distruttive. E questo sembra ci basti. Eppure, quanto più l'integrazione europea si avvicina, sarebbe indispensabile un dibattito pubblico sulle sue caratteristiche. Anche per evitare che decisioni cruciali per il nostro futuro vengano prese a «porte chiuse», con aggravamento del «deficit democratico» che produce a sua volta un «deficit sociale». Il pericolo c'è ed è serio. Non c'è dubbio infatti che l'assunto in base al quale si è messo in moto l'integrazione economica europea, la creazione del «grande mercato», debba essere riconsiderato criticamente perché rischia di produrre effetti tutt'altro che desiderabili. Infatti la convinzione che possa essere il mercato a «parificare nel progresso» le condizioni sociali nelle diverse aree comunitarie è senza fondamento. Testimonia soltanto una ingiustificata fiducia

i.J.lL BIANCO lXILROS.SO lliHkUiJli•I nel liberismo. Certo il mercato è essenziale. L'esperienza fallimentare det paesi dell'Est è lì a ricordarci che le economie senza mercato non funzionano perché distruggono, anziché produrre, ricchezza. Ma ci sono problemi che il mercato da solo non sa e non può risolvere. Si pensi soltanto all'istruzione per tutti, all'occupazione, alla povertà, al diritto alla salute. Nessuno può perciò ragionevolmente ritenere che per accrescere benessere, occupazione e migliorare le condizioni sociali basti abbattere le frontiere e favorire la libera circolazione. È un'idea del tutto contraddetta dall'esperienza. Sarebbe, infatti, come credere che tra Stati Uniti e Messico basti abbattere la frontiera economica, realizzare un unico mercato, lasciando inalterato il resto, per espandere al Messico, le capacità produttive il benessere e le opportunità di occupazione degli Stati Uniti. Sarebbe troppo semplice. Ma senza andare così lontano è sufficiente rifarci alla situazione italiana. Da oltre un secolo abbiamo formalmente eliminato le barriere tra Nord e Sud e consentito la libera circolazione tra le due aree. Ma non siamo certo arrivati all'unificazione del paese. Se guardiamo alla dotazione di reti infrastrutturali, alla vivibilità dei grandi centri urbani, al funzionamento dei servizi, ai livelli di occupazione, al reddito pro-capite, l'Italia re- -- ---- - --- -- 3 sta divisa in due. Anzi, per certi versi, lo è più di prima. La realizzazione di un unico grande mercato, da solo, non basta quindi ad unificare l'Europa. Per altro, se continuasse a dominare la convinzione, presente in non pochi governi europei, che la convergenza economica e monetaria (necessaria per la costruzione del mercato interno) debba comportare una inevitabile competizione sociale, c'è il pericolo concreto che passi indietro siamo compiuti. Perché il costo dell'aggiustamento verrebbe posto a carico delle aree e dei gruppi più deboli. Poiché la politica è il solo mezzo che abbiamo per conciliare le ragioni dell'economia, che sono quelle dell'efficienza, con le ragioni della società, che sono quelle dell'equità e della giustizia, il meno che si possa dire è che la mancanza di un serio e visibile dibattito sulle scelte che si stanno compiendo per realizzare l'Europa, conferma in modo preoccupante il grado di ossidazione delle nostre istituzioni politiche. Si deve perciò convenire che se non mettiamo ordine nella nostra economia è probabile che finiamo nell'Europa di serie B. Ma se non rinnoviamo le nostre istituzioni politiche è certo che non conteremo nulla nelle decisioni che riguardano il futuro dell'Europa. Che è poi il futuro di tutti noi.

.P.IL BIANCO lXILR~ ■l•li••d Due o tre referendum contro l'alternanza di Ettore Rotelli I referendum elettorali, per i quali si raccolgono le firme, servirebbero - come si sostiene - per l'alternanza al potere delle forze politiche? Servirebbero per l'alternativa, se alternativa è, almeno per cominciare, sinistra al governo e Dc fuori del governo? Vediamo. Per la introduzione del collegio uninominale in parlamento (invero, per ora, solo al Senato e forse non tutto) e il sistema maggioritario in ogni Comune (4/5 dei consiglieri alla lista piu votata) di fatto si collocano: fra i partiti la stessa Dc; fra gli interessi organizzati la Confindustria; fra i sindacati la Cisl; nell'associazionismo cattolico le Acli. Per apprezzare la volontà di ben figurare di queste ultime bastava scorrere il primo giorno, su quell'organo dell'alternativa che è «Il Giornale», l'elenco delle sedi, sparse per l'Italia, dove si poteva firmare: appunto, quasi tutte delle Acli. Quanto alla Cisl, per la riforma elettorale si è pronunciato incontrastato, anticipando, sopravanzando e sollecitando le altre confederazioni, il segretario generale, sulla scia, del resto, del suo predecessore, attuale ministro Dc. Quanto alla Confindustria, il pronunciamento ufficiale è stato del vertice formale, il presidente dell'associazione, e del vertice per cosi dire sostanziale, il presidente della Fiat: anzi, nel corso di una trasmissione di Rai 3 si è convenuto seduta stante che gli industriali consentano e favoriscano la raccolta delle firme nelle fabbriche. E veniamo alla Dc, partito che, notoriamente, non tende ad altro che all'alternanza, cioè alla successione a se stesso. Ebbene, non solo presidente e leader del comitato promotore è tuttora e sempre di piu il deputato Dc Mario Segni, che è della medesima corrente del segretario del partito. Non solo egli non è stato mai censurato, né criticato, benché la sua proposta sia antitetica a quella del partito (premio al maggior partito, qualunque sia la percentuale dei voti ottenuti). Non solo, appena il Presidente del Consiglio Andreotti ha accennato a qualche battuta delle sue, è stato zittito. Non solo il presidente del consiglio nazionale del partito ha firmato pubblicamente. Ma gli organi periferici, con il silenzio apparente e l'adesione sottesa della segreteria nazionale, presentati come concessione della libertà di coscienza, sono passati rapidamente dalla parte giusta. Non piu tardi di metà di novembre la direzione provinciale Dc di Milano (sì, di Milano), sulla base di una specifica relazione del segretario provinciale, ha deciso di appoggiare i referendum elettorali (si noti bene: esclusivamente quelli di M. Segni) e mettere a disposizione tutte le proprie strutture. Una settimana dopo, con una conferenza stampa, è la volta della Dc regionale lombarda: firmando e invitando a firmare, impegna la struttura del partito a «dare tutti i supporti politici e organizzativi necessari». Se gli si chiedeva «cosa ne pensa Forlani», il segretario regionale rispondeva sicuro: «apprezzerà questa iniziativa» (la quale, anche qui, non riguarda deliberatamente gli altri referendum, definiti qualunquistici e antimeridionalistici). Infatti, mentre le Acli si dichiarano «compiaciute», «II Popolo» pubblica con rilievo la notizia nelle pagine nazionali, senza battere ciglio. Insomma, quel lunedì sera del 1993, in cui sapremo del nuovo grande successo dei referendum elettorali, ammireremo al tavolo dei vincitori tutta la dirigenza del partito. Come nel giugno scorso, quando a celebrare la vittoria della preferenza unica c'era, in prima fila, chi, senza turbamento, fino al giorno prima, aveva venduto pacchetti di diecimila preferenze per sessanta milioni (bei tempi, quelli!). Tutti questi protagonisti, della Dc, della Cisl, della Confindustria, hanno sentito il bisogno di spiegarci come egualmente essi siano disposti a discutere la loro proposta (oltre tutto perché sono divisi fra loro su un aspetto essenziale: se

i.)-lL BIANCO lXILROSSO Mil•lii•d il collegio uninominale debba essere a doppio turno o unico turno, come sostengono, non senza buoni motivi, i radicali). Su un punto, però, hanno idee chiare: non vogliono il regime presidenziale e, con questo, l'elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica. Come mai? Non temono, per caso, che - come già in Francia - dal presidenzialismo possa derivare una maggiore possibilità o minore improbabilità di effettiva alternanza? Al Pds, che sino a poco fa si chiamava comunista e tiene ancora scritto «Pci» davanti e ai piedi della quercia, ben in vista ad altezza d'uomo nelle interviste televisive dalle Botteghe Oscure, magari non sarà lecito chiedere se la sua tradizione ideologica e culturale sia proprio la più idonea a spiegare come si deve arrivare all'alternanza in una democrazia europea occidentale. Né se davvero sia il fronte politico-economico-sindacale-sociale, da quasi mezzo secolo al potere, a commettere oggi un errore storico clamoroso nel favorire, coi referendum, l'alternanza. Né, infine, se l'alternativa possa consistere nel capolavoro di mandare all'opposizione la sinistra che è già nel governo. Dovrebbe smetterla, però, di pensare che alla gente si possa raccontare impunemente ancora a lungo tutto quello che, per la propria conservazione e sopravvivenza, conviene, gabellandolo per alternanza o alternativa che sia. Nelle sezioni del Pds, per esempio, la raccolta delle firme viene sollecitata sostenendo che col referendum di giugno l'elettorato si è pronunciato definitivamente ed ha inteso pronunciarsi contro il presidenzialismo. È vero, notoriamente, che i sentimenti popolari sono di segno opposto, cioè per l'elezione popolare diretta del Capo dello Stato. Tutta l'ostilità del fronte conservatore, Dc in testa, a una determinata modifica del procedimento di revisione costituzionale (art. 138 Cost.) non ha altro obiettivo se non impedire che al popolo sia proposta in prima battuta la facoltà di scelta della elezione diretta del Presidente della Repubblica, per la quale (come per l'analoga del sindaco) si pronuncerebbe sicuramente. Nonché via italiana all'alternanza, i referendum elettorali proposti sono alternativa all'alternanza, sono via italiana alla perdurante esclusione dell'alternanza. A parte le intenzioni dichiarate dei promotori che contano, ciò risulta dalla logica interna delle istituzioni. Mentre il regime presidenziale come tale porta diritti verso l'alternanza perché impone al secondo turno una scelta ristretta ai primi due candidati del primo (vedi Francia), dunque due fronti, il collegio uninominale da solo, cioè come elemento separato da un regime presidenziale, non produce automaticamente il medesimo effetto per la semplice ragione che non in

.P-lL BIANCO l.XltROSSO Mii•liiid tutti i 630 collegi uninominali (Camera) i primi due partiti e i relativi candidati sono e sarebbero gli stessi (vedi ora esemplarmente Brescia). È superfluo aggiungere che al collegio uninominale non consegue di per sé la stabilità governativa perché il giorno dopo l'elezione ciascun eletto (e partito) può andare per la sua strada (non a caso, nel progetto Dc e in altri si ricorre alla «sfiducia costruttiva», peraltro vanamente, come già si osserva negli enti locali un anno dopo la 140/1990: vedi ancora Brescia). Una cinquantina di parlamentari di Pds e Psi, accanto a una riforma elettorale, avrebbero convenuto per «l'elezione diretta del vertice dell'esecutivo»: formula, invero, alquanto ambigua che sottende l'incapacità di una adesione chiara e netta - e, dunque, la preclusione - per qualcuno dei regimi presidenziali felicemente funzionante nelle democrazie occidentali. Ma per quale profondo motivo quelli del Pds non hanno chiesto o comunque ottenuto che l'intero comitato promotore si pronunciasse, anche solo simbolicamente, nel medesimo senso? Tanto più che lo stesso comitato non ha esitato a pronunciarsi per l'elezione diretta del sindaco, benché sapesse bene che col suo referendum abrogativo non si poteva certo conseguirla. In proposito, anzi, ha fatto di peggio, contrabbandando l'estensione del sistema maggioritario a tutti i Comuni come elezione diretta del sindaco, che, invece, è tutt'altro e confligge istituzionalmente con la ricerca di una grande maggioranza consiliare di cui non avrebbe alcun bisogno: con la elezione diretta del sindaco la stabilità dell'esecutivo non dipenderebbe certo dalla maggioranza consiliare. Il sistema maggioritario nei Comuni non solo non è un passo verso l'elezione diretta del sindaco, ma si muove nella direzione di marcia opposta e nella presunzione (errata) di renderla superflua. In ogni caso, l'esaltazione (esatta) dell'elezione diretta del sindaco, nel contestuale silenzio sull'elezione diretta del Capo dello Stato e sul regime presidenziale, non può non significare e significa esclusione di questa. Finora l'adesione del Pds a qualunque iniziativa di riforma elettorale è stata soprattutto in funzione di se stesso (rimediare in seggi alla perdita inesorabile di voti), con buona pace dell'alternanza. Non ha senso dolersi che il Psi non abbia specificato la riforma elettorale con cui accompagnare il regime presidenziale, che è ciò che piu serve per un'alternanza non rinviata al prossimo secolo. Semmai doveva essere proprio il Pds, specie nel 1989 - quando Giuliano Amato (congresso Psi) si schierò per il sistema americano, oggettivamente il più favorevole per l'alternanza -, a subordinare la sua accettazione del regime presidenziale a una riforma elettorale precisa (uninominale). Ma, con le prossime elezioni del 1992, il Pds perderà anche elettoralmente l'egemonia sull'intera sinistra, che, oltre tutto, consta anche di verdi e radicali, nonché socialdemocratici e repubblicani. Inoltre, a quel punto, che viene prima del referendum del 1993, con l'aumento in parlamento dei presidenzialisti (oggi Psi, Pii, nonché Lega e Msi), si troverà nella posizione di poterne determinare la prevalenza o di stare ancora dalla parte degli anti-presidenzialisti. Cioè di dover scegliere fra la conservazione del sistema politico, storicamente fondato sulla complementarietà necessaria di ruoli e reciproco ausilio fra Dc e Pds, e la strada nuova, europea, occidentale, dell'alternanza. Che i referendum elettorali chiudono, anziché aprire.

,i)JL BIANCO lXILROSSO Kilili••il E se Psi e Pds... Nel numero scorso abbiamo pubblicato la «provocazione» di Piero Borghini, presidente del Consiglio regionale lombardo e deputato del Pds, circa la possibile, e per Borghini necessaria unità della sinistra, e in pratica di Psi e Pds, allo scopo di uscire dall'anomalia, tutta italiana, di un governo egemonizzato per mezzo secolo dalla Dc, con la conseguente paralisi istituzionale e politica in cui il paese è venuto a trovarsi. Nel numero scorso sono intervenuti il vicesegretario del Psi, Giulio Di Donato, e il senatore Pds Gerardo Chiaromonte. Stavolta pubblichiamo gli interventi del prof Giuseppe Tamburrano e di Giulia Rodano. Riformevere e programma unitario.Altriment.i.. di Giuseppe Tamburrano I 1disgelo nella sinistra è cominciato. Craxi e Occhetto si sono incontrati e hanno parlato di politica. È finita o quasi la rissa. È stata avviata qualche iniziativa comune come per il centenario della nascita del Partito socialista italiano. Tutto qui. Forse io sono impaziente. Dopo tanto tempo sprecato nelle polemiche, questi inizi sono se non miracolosi certo importanti e promettenti. Invece, comincio ad avere qualche dubbio che le cose stiano in questo modo, e più che impazienza, è scetticismo. Non sono le polemiche sulla finanziaria che mi preoccupano: esse sono inevitabili tra due partiti.di cui uno è al governo e l'altro è all'opposizione. Mi preoccupa di più il clima elettorale che, se i due partiti non avranno i nervi a posto, potrà rinfocolare la litigiosità, pregiudicando le intese post-elettorali. Tuttavia ammetto che dopo trentacinque anni di polemiche i segnali del disgelo sono incoraggianti. Mettendo quindi da parte lo scetticismo, vorrei rispondere alla domanda: incoraggianti verso quale prospettiva? Sono convinto che l'unità tra Psi e Pds conviene ai due partiti che uniti possono crescere, associare altre forze e far maturare l'alternativa. E con ciò, facendo maturare l'alternativa, l'unità della sinistra I 7 L_ ---- - --- -- costituisce la via maestra lungo la quale la nostra democrazia esce dalla crisi che la consuma. Detto in breve, la sinistra può porsi grandi obiettivi: ridare ossigeno alla nostra democrazia esangue. Con questo non voglio dire che vedo una catastrofe imminente. Da alcune decine di anni sentiamo annunciare il crollo: prima La Malfa, poi Berlinguer. E l'Italia, invece, ha galleggiato. Ora però il mare sta diventando molto agitato e la navigazione sempre più difficile. Non vi è il naufragio in vista, ma la nave imbarca acqua e non riesce a tenere una rotta. Fuor di metafora, il processo di erosione per non dire di disgregazione delle nostre istituzioni è in stadio assai avanzato: la democrazia dei partiti che hanno fondato la Repubblica ha margini sempre più ristretti del consenso popolare. Il prossimo Parlamento probabilmente non sarà solo più frammentato dell'attuale, ma anche meno legittimato dell'attuale dal suffragio dei cittadini: tra gruppi antisistema come le leghe, e non voto, non è da escludere che più della metà degli elettori esprimerà il suo distacco dalle attuali istituzioni. Per fermare questo processo è necessario, è urgente che sorga una forza nuova capace di incarnare il ricambio, di proporsi come fattore di rigenerazione, insomma di essere una

,{)li~ BIANCO lXltROSSO Miikliiid speranza di cambiamento. E chi può dar vita ad una forza nuova se non i partiti della sinistra, unendosi? Si muovono in questa direzione i due partiti della sinistra? La domanda va divisa in due parti. La prima: vanno verso l'intesa i due partiti? E se sì, con quale finalità? Per ora noi possiamo parlare solo di una sospensione delle ostilità. È qualcosa di più della tregua, è un cessate il fuoco, ma, come la cronaca quotidiana rivela, è un cessate il fuoco con le armi al piede. Oltre al centenario della costituzione del Partito socialista per il quale sono in programma manifestazioni comuni limitate a poche regioni, finora non c'è niente altro. È poco per superare una rottura durata decenni. È niente per costruire una nuova forza politica, «una grande forza socialista e democratica» per usare le parole di Craxi, una «sinistra di alternativa al sistema di potere democristiano» secondo l'espressione di Occhetto. E siamo alla seconda domanda. Gli scopi del riavvicinamento tra i due partiti qualificano l'obiettivo della unità. Se si vuole dare vita ad una forza nuova che mobiliti la pubblica opinione, richiami al voto e all'impegno i lavoratori, i cittadini che credono sempre di meno, non basta che Craxi e Occhetto si incontrino e che promettano di operare in unità di intenti; debbono anche far capire che cosa vogliono fare. Il programma è un elemento essenziale per poter dire che sta nascendo una «grande forza democratica e socialista», una «sinistra di alternativa al sistema di potere democristiano». Il programma è un elemento indispensabile per poter espandere l'influenza della sinistra oltre i confini dei ceti tradizionalmente di sinistra, coinvolgere tutti gli italiani che vogliono maggioranze e governi capaci di risolvere problemi che sono ormai di pura e semplice sopravvivenza: la finanza pubbli- ■ X - - - ~ -- - . . - - - ' - - ca, la criminalità organizzata, la efficienza dei servizi. La fiducia nei partiti e prima di tutto nei partiti di sinistra può venire solo da una forza nuova che sia credibile come forza idonea a risolvere quei problemi. Dunque un programma: ma per elaborarlo, proporlo, convincere gli italiani che i proponenti sono credibili ci vuole ben altro del «cessate il fuoco» tra i due partiti. In testa a questo programma va posta la riforma elettorale ed istituzionale, poiché i risultati, - imprevedibili-, del referendum sulla preferenza unica, le indicazioni dei sondaggi che si moltiplicano, l'osservazione della vita quotidiana, dimostrano in modo irrefutabile che gli italiani vogliono cambiare le regole, vogliono togliere l'esorbitante potere ai partiti e riappropriarsi la sovranità usurpata scegliendo direttamente i rappresentanti ed i governanti. La riforma istituzionale ed elettorale non è importante solo perché risponde ad una domanda pressante della pubblica opinione, è decisiva per le sorti della sinistra perché senza un mutamento delle regole la sinistra non sarà indotta ad unirsi, non potrà vincere il confronto elettorale, non potrà realizzare l'alternativa. Perciò questa riforma è prioritaria: e non una qualunque riforma, ma quella che risponde a tutte le condizioni menzionate. Fanno qualcosa in questa direzione i due partiti? Non mi risulta. Ma questo non vuol dire che non ci sarà l'unità. Può voler dire che l'unità che si riuscirà a costruire avrà un'altra prospettiva: far entrare il Pds nel governo, dare vita ad un esapartito che sarà, rispetto al penta o al quadripartito, diverso solo perché il Pds sarà imbarcato. E così tutti insieme i partiti del Cln difenderanno l'ultimo lembo della terra conquistata con la Resistenza, diventato feudo lottizzato di partiti, eroso da onde sempre più violente di discredito, di sfiducia, di protesta.

_i)JL BIA!\CO lXltROS.SO Kii•li•iil Per l'unità a sinistra • • • un <<nuovo1n1z10>> per tutti di Giulia Rodano e 'è qualcosa di diverso nel dibatto in corso in questi mesi tra il Psi e Pds, rispetto al confronto all'interno della sinistra, quale si è espresso, e anche consumato, tante volte nel passato? Di Donato risponde, nell'articolo pubblicato nel precedente fascicolo di questa rivista, che tale novità sarebbe costituita dalla dissoluzione del comunismo e quindi dalla «obbligata trasformazione del Pci». Certamente gli sconvolgimenti di questi ultimi due anni hanno cambiato le carte in tavola. Anche in Italia, trincea avanzata della guerra fredda, cade ogni giustificazione o pretesto alla sopravvivenza di un sistema politico, che per la mancanza del correttivo dell'alternanza, si è sempre più trasformato in regime. Non mi sembra cioè che, alla luce dei mutamenti del mondo, la necessità di ridefinire la propria collocazione e il proprio ruolo sia soltanto del Pci. Nella grande commedia degli equivoci, nella confusione trasformistica in cui sembra essere precipitata la politica italiana, credo si possa tuttavia ancora cogliere uno spartiacque: quello tra chi si interroga sui prezzi che la nostra democrazia, e con essa tutte le forze politiche, ha pagato alla guerra fredda, e sulla necessità di una battaglia per uscire dal progressivo degradare della democrazia zoppa e bloccata in occupazione dello stato, in sistema corrotto e corruttore di conquista del consenso; e chi, invece,pensa di poter gestire la crisi della guerra fredda e dell'equilibrio bipolare senza cambiare nulla, magari risolvendo tutto chiedendo abiure o innalzando lo stendardo della vittoria sul comunismo. Non penso insomma che la costruzione di una sinistra unita in Italia possa prescindere dalla definizione delle nuove regole della democrazia dell'alternanza, dalla modificazione dei meccanismi (la proporzionale, il voto di preferenza) attraverso i quali i partiti oggi conquistano il consenso, dalla messa in discussione di tutte le rendite di posizione di cui il sistema politico si è giovato. Altrimenti sento forte il rischio che il dialogo a sinistra finisca per consumarsi dentro la paralisi e lo stallo del vecchio sistema politico e appaia ai cittadini stanchi e delusi solo una variante del gioco che si svolge all'interno di un vecchio personale politico, sempre uguale a se stesso. Non credo che sia un caso che sul dialogo e sul rapporto unitario a sinistra aleggi sempre lo spettro della questione morale, del coinvolgimento nel sistema di potere, del condizionamento di tante scelte da parte di grandi e piccoli interessi. Perché un'alternativa possa affermarsi non può che essere anche alternativa al regime che oggi soffoca il paese, impedisce alla macchina pubblica di essere efficace, all'economia di svilupparsi. Oggi dunque rimanere legati all'assetto politico degli anni '80, alla maggioranza di quadripartito, guardare con sospetto a quanti nel Paese, a partire dal movimento referendario, cercano di sbloccare il sistema politico, non è più compiere una scelta di «governabilità» o di cosidetto «cambiamento possibile»; significa al contrario scegliere l'immobilismo, rischiare la decomposizione della democrazia italiana. Non è stata forse questa la preoccupazione espressa anche da autorevoli dirigenti del Psi al recente congresso di Bari? È più convincente ed è più realistico dunque cercare di costruire un «nuovo inizio» per la sinistra italiana, costruire le condizioni istituzionali e politiche per offrire al paese una sinistra è una alternativa che ancora in realtà non esistono. La storia che abbiamo alle spalle, le vicende italiane del periodo della guerra fredda ci fanno capire che è illusorio, o forse consolatorio, pensare che sia sufficiente ricondurre una sinistra pluralista e articolata ad una sola tradizio-

.i).IL BIA!\CO lXILROS&) Kil•lil•d ne storica. E questo non per rivendicare astrattamente la dignità e il valore di una bandiera, ma perché in realtà tutta la sinistra è di fronte a drammatiche questioni, per affrontare le quali è costretta a rivedere le proprie concezioni, a sviluppare nuove elaborazioni. Siamo certi che agli occhi di coloro che hanno oggi diciotto anni il riferimento alla tradizione socialista appaia immediatamente di sinistra e, per esempio, quello all'ispirazione cristiana immediatamente conservatore? Questa è la partita di fronte alla sinistra italiana. Semplificare non serve. CongressoCgil: molti diritti, poco sindacato di Gian Primo Cella A bbiamo deciso, abbiamo cominciato. Oramai siamo la nuova Cgil». Con il piglio dell'innovatore, e con l'orgoglio di una grande tradizione, così Bruno Trentin chiudeva il XII congresso della Confederazione. Un congresso per molti aspetti sorprendente, non solo per le decisioni assunte (prima fra tutte lo scioglimento delle correnti di origine politica), ma anche per il cambiamento introdotto nella tradizione culturale della Cgil, con modalità e tratti per i quali non sono però assenti imprevedili elementi di continuità. Le sorprese erano già state preannunciate dalla lettura di quel ponderoso, e talvolta pedante, documento contenente il «programma fondamentale» e le tesi sottoposte al dibattito congressuale, che aveva cominciato a circolare nella scorsa primavera. Tali sorprese possono essere meglio apprezzate, e forse non più considerate tali, se si leggono programma, tesi, relazioni congressuali, ovvero i principali documenti scritti della nuova cultura della Cgil, sullo sfondo delle continuità nella tradizione più che quarantennale della Confederazione. La mia impressione a questo proposito, è meglio esplicitarla subito, è che la rilevante dose di cambiamento introdotta non è estranea ad alcuni caratteri costanti della tradizione culturale della Cgil, proprio quei caratteri che l'avevano resa una esperienza sindacale atipica nel panorama del sindacalismo europeo unionista e riformista. Quali sono questi caratteri costanti, o meglio, alcuni di questi caratteri? Sono innanzitutto due preoccupazioni, o due timori, spesso in contrasto fra loro, nel senso che l'eccessivo rispetto della prima può non impedire il verificarsi degli effetti previsti dalla seconda. Il primo timore potremmo definirlo il timore dei particolarismi, ovvero la preoccupazione di evitare l'espressione di interessi di piccoli gruppi o «corporativi», in qualche modo vulneranti l'unità e l'unicità della classe, del lavoro, del popolo, del popolo lavoratore (come amava dire Di Vittorio). Il secondo richiama una sorta di timore del distacco, ovvero la preoccupazione di evitare fratture, o anche solo incomprensioni, con la propria base di classe o con il mondo del lavoro, ed anche la tendenza ad evitare scelte di rappresentanza o di politiche rivendicative che possano in qualche modo creare problemi con la propria base di riferimento. Una base, è bene ricordarlo, che nella storia della Cgil non sarà mai costituita dai semplici iscritti, o «associati» al sindacato. Sono evidenti i margini potenziali di contrasto fra questi due timori. Margini che si sono puntualmente presentati nella storia della Cgil, e che, attraverso l'operato delle dirigenze, non sono stati sempre superati con efficacia. Il primo timore prevale, ovviamente, negli anni del dopoguerra, nel periodo della Ricostruzione, e si traduce, da una parte, in quel significativo

.{)JLBIANCO l.XILROSSO Kiiiliiid sforzo propositivo che fu il Piano del Lavoro, dall'altra, nel rifiuto di ogni decentramento della contrattazione, ed in particolare delle ipotesi di contrattazione articolata avanzate dalla Cisl nei primi anni cinquanta. L'eccesso di timori in questa direzione contribuì però al distacco della Confederazione e delle sue politiche dalla base operaia delle grandi fabbriche nel Nord. Un contrasto che venne coraggiosamente interpretato e risolto da Di Vittorio (e da Novella), con cambiamenti drastici nei gruppi dirigenti e con svolte nelle politiche rivendicative, a partire dalla famosa seduta del Comitato Direttivo dell'aprile 1955, dopo la sconfitta nelle elezioni di Commissioni Interne alla Fiat. Il secondo timore prevale nel corso del passato decennio in occasione delle incertezze e poi dell'opposizione della Confederazione (nella sua componente comunista di maggioranza) nei confronti degli accordi trilaterali di concertazione. Continuo a ritenere che, specie nel 1984, furono prevalenti nell'indirizzare la decisione della Cgil, delle motivazioni di carattere politico. Tuttavia, almeno nella legittimazione delle scelte e nella formazione di una cultura anticoncertativa, fu rilevante il timore di fratture e di «incomprensioni» con i settori forti della rivendicazione, fra i quali non pochi ambienti operai. La sconfitta al referendum del 1985, tuttavia non spinse i gruppi dirigenti ad una pronta : 11 considerazione delle necessità di cambiamento. Da questo punto di vista essi si mostrarono più incerti, meno «coraggiosi», dei loro predecessori di un trentennio addietro. Questo atteggiamento e queste linee di politica sindacali, questi timori furono fra le ragioni della insorgenza di particolarismi rivendicativi, spesso di netta impronta anti-confederale, all'interno di molti settori dell'impiego pubblico (ferrovie ed insegnanti, ad esempio). Particolarismi che trovano buon gioco ed ampi spazi nel nostro sistema di relazioni industriali, specie in assenza di un efficace ruolo coordinatore e di controllo delle confederazioni. Il contrasto fra le due preoccupazioni, si ripresentava, ma questa volta sull'altro versante. I gruppi dirigenti progressivamente accettano poi di tener maggiormente conto del timore dei particolarismi e, sia pure con dissidenze interne di rilievo, si giunge al XII congresso. Un altro carattere costante riguarda più che un timore, una ambizione o, se si vuole, una pretesa. Una ambizione di voler essere sempre qualcosa di più di un sindacato, di una associazione sindacale. La pretesa di rappresentare un tramite irrinunciabile fra classe e sviluppo capitalistico od almeno, in termini meno impegnativi, fra lavoro e sistema economico. Qualcosa di più vicino alle necessità della storia, che ad una semplice forma di organizzazione del-

,{)JL BIA!\CO lXttHOSSO Kiiklilill l'azione collettiva. Da questo carattere sono derivati una sottovalutazione del tema dei diritti e delle prerogative sindacali, quasi una allergia per le regole e le procedure della democrazia diretta, una incomprensione o una diffidenza per le forme di presenza sindacale nel sistema economico o politico istituzionale costruite a partire dal riconoscimento, o dal potenziamento, di una logica associativa autonoma (in parole più semplici, più sensibilità al potere del lavoro che al potere del sindacato). È questo carattere a differenziare maggiormente l'esperienza della Cgil nel contesto del grande sindacalismo europeo. Nella cultura che possiamo trarre dai materiali preparatori del XII Congresso e dal dibattito in esso avvenuto, ritroviamo segni sensibili di questa continuità e di queste particolarità. E questo a dimostrare le capacità non comuni di una dirigenza nel rendere accettabili ad una tradizione consolidata, mutamenti clamorosi con le necessarie prese di coscienza: dalla fine non solo della centralità operaia ma anche della classe stessa, al fallimento di una speranza ed un riferimento di fondo (la possibilità della trasformazione socialista), all'abbandono, almeno per la componente comunista maggioritaria, del primato della lealtà verso il partito. La sorpresa, di cui parlavo all'inizio, riguarda i tratti ed i contenuti culturali con i quali è stata costruita la svolta. Chi avrebbe immaginato una così completa adesione alla cultura dei diritti individuali? Una così totale adesione alla via delle politiche dei redditi? Un così esplicito rifiuto di trasformazioni sociali costruite sulla base di valori collettivi? Un così convinto rifiuto di ogni «separatezza» di classe? Ma anche chi avrebbe potuto immaginare un congresso della Cgil che, nel momento della sua svolta più radicale e nella sua più decisa affermazione di autonomia dai partiti, si trasforma in una poderosa passerella per i dirigenti dei partiti della sinistra socialista ed ex-comunista, e non solo di questa? La sorpresa, comunque sia, si riduce se si rileva al di là di tutto il contingente, il sensibile legame con i tratti sopra esposti della cultura tradizionale della Confederazione. Un legame un poco paradossale, quasi stravolgente, eppure percepibile ad un osservatore che non resti solo interessato alle scelte di più spiccato effetto politico generale (lo sciogimento delle correnti, soprattutto). E non casualmente la svolta, anche in questo seguendo una tradizione ben collaudata, è stata interpretata e portata fino , 12 in fondo dalla più prestigiosa figura del vecchio gruppo dirigente. Forse la svolta sarebbe stata diversa se a guidarla fossero stati dirigenti della vecchia corrente socialista riformista, ma anche questo non è senza significato. Sullo scorso numero di questa rivista Fausto Vigevani ha scritto che per la Cgil si è trattato non tanto di «cambiare pagina», quanto di «cambiare libro». Può essere così, ma continuando la metafora si potrebbe aggiungere, che non è stato scelto il libro contiguo nella stessa collana (quello che portava scritto sul dorso «sindacalismo unionista-riformista europeo»). Un libro sul quale la grande esperienza della Cgil aveva pur scritto pagine significative. Si è preferito, o almeno così sembra, scegliere un libro o dei libri più lontani, quasi di un'altra collana, che portano scritto sul dorso «sindacalismo radicale di massa», con prestiti improvvisi dal liberalesimo progressista e fin dal solidarismo cristiano e personalista. Qualcosa di simile è capitato all'ex-Partito Comunista Italiano. E lo noto qui senza alcuna malizia, semplicemente per rilevare come le affinità culturali agiscano ben più profondamente dei legami o delle direttive politiche. I due timori, quello dei particolarismi e del distacco, e la ambizione-pretesa di non essere solo sindacato, possiamo ritrovarli all'interno della nuova cultura della svolta. In ispecie il secondo e la terza. Dei particolarismi e degli egoismi dei pochi, si ha sempre timore, ed il loro rifiuto permea una buona parte dei documenti, con accorati richiami alla solidarietà. Tuttavia, si prende atto in modo implicito che ad essi non sono più contrapponibili facilmente interessi e grandi mete collettivi. La strada scoperta è quella della grande valorizzazione dei diritti individuali. E questo, per un sindacato, è quanto meno singolare. Singolare ma comprensibile sulla base del timore del distacco, e dell'ambizione oltre il sindacato. La scelta, nella frammentazione degli interessi e nella perdita delle identità di classe, non è quella di rappresentare delle nuove e faticose, e mediate, identità collettive magari di natura associativa. È piuttosto quella di perseguire direttamente la strada della difesa dei diritti individuali, quasi una strada per minimizzare i costi del distacco legato a qualsiasi attività di rappresentanza. Lo stesso processo si verifica sul tema della concertazione e della politica dei redditi: piena accettazione come obiettivi ecome strumenti, ma nessuna considerazione del-

.P.lL BIANCO l.XILROS.SO Mi•ilii•d le necessità e delle coerenze rivendicative ad esse connesse. Si proclama, invece, di perseguire sempre il decentramento della contrattazione. La ambizione-pretesa di non essere rinchiusi nella logica sindacale la ritroviamo non solo nella scarsa attenzione concessa al tema delle implicazioni organizzative ed associative della codeterminazione (una delle parole nuove del Congresso), e nello spazio limitato attribuito alla gestione collettiva dei diritti, ma anche nell'esplicito rifiuto se non della logica riformista, dell'identificarsi con essa. Tale rifiuto è stato esplicito nella relazione di Trentin, ed ha francamente colpito. Il tema merita una citazione: «confesso di non appassionarmi, tuttora, e soprattutto se trasferita nell'esperienza sindacale italiana, nella Cgil, alla contesa sulla rivalsa, o meno, del riformismo storico nei confronti della rivoluzione, o addirittura nei confronti della conflittualità sociale». Queste parole potrebbero essere forse considerate come un vezzo comprensibile in un prestigioso dirigenteintellettuale marxista, e forse lo sono. Ma resta comunque da scoprire quali immagini esse hanno il potere di evocare nella cultura del sindacato, nella formazione di nuove identità culturali. Le parole di Trentin possono chiudere queste brevi impressioni, un poco sconcertate, sulla svolta della Cgil. Certo di cultura e di concezioni abbiamo parlato. La dura realtà sindacale, qualcuno potrà dire, metterà alla prova tutto questo. Ma le parole nella tradizione della Cgil, contano eccome. Lo avevo capito già quando con ammirazione e passione, con altri amici, quasi venticinque anni addietro, mi ero accinto a leggere i volumi rosso paglierini degli atti dei congressi della Cgil, con l'obiettivo di ricostruire la concezione della Confederazione in un librino giovanile, a cui sono particolarmente affezionato. E questa tradizione non è molto cambiata.

,i)JL BIAI\CO l.XILll~ •ii•li•ill Peppone non e' è più'. E Don Camillo non cambia? Da giugno ad oggi la dialettica mondo politico italiano - mondo cattolico, e quella cattolici - politica, è stata particolarmente vivace. Pesano, evidentemente, le elezioni in arrivo. Ha pesato la sortita polemica del vicepresidente del Consiglio, al Congresso socialista di Bari, di cui ci siamo occupati ampiamente, con consensi e dissensi, nel n. 20. Ha pesato anche, all'interno dell'universo cattolico, la ripetuta affermazione del presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che l'unità politica dei cattolici nella Dc non ha più senso. Sono molti i cattolici, di vertice e di base, che ritengono che questa Dc non siapiù «affidabile», e che lo dicono apertamente e si comportano di conseguenza. Nascono «Reti» e «Leghe», che crescono anche su terreni tradizionalmente Dc. Eppure, contemporaneamente, tra la gente, cresce il bisogno di valori, l'esigenza di risposte concrete ai problemi anche più profondi. Anche noi di «ReS» siamo segno di questa realtà, e su queste pagine, abbiamo già dato il nostro contributo al dibattito politico e a quello dottrinale, affrontando non solo, come detto, lapolemica sul neo-temporalismo, ma anche, e criticamente, da punti di vista diversi, i grandi temi dell'Enciclica «Centesimus Annus» (n.18/19, e Dossier dei numeri 20 e 21/22). In questo numero riteniamo opportuno fare il punto della questione specifica dell'unità politica dei cattolici, ripercorrendo le tappe storiche che la hanno accompagnata nel suo farsi e, possiamo dirlo, nel suo disfarsi. Nel prossimo numero riprenderemo l'argomento in chiave di attualità e di futuro. Già da ora, tuttavia, i nostri lettori sono stimolati ad intervenire con loro contributi. (G.G.) «Unità politica» nella Dc? Chiesa, cattolici e politica dalla storia alla cronaca (1°) di Giovanni Gennari «I vescovi a tutto campo. Ribadita l'unità politica dei cattolici»: così con enfasi la prima pagina di «Avvenire», su sei colonne, il 24 settembre scorso. 1. Un appello al voto pro-Dc Al di là di ogni diatriba interpretativa, il discorso del cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei, in apertura dei lavori del Consiglio permanente, pur in mezzo a tante analisi e a tante osservazioni generali, era un appello all'unità politica, e non poteva intendersi se non anche come un appello al voto per la Dc. 14 Qualcuno, nella ormai consueta bagarre interpretativa che pare sia obbligatoria dopo ogni intervento ecclesiale, e che contraddice già da sola il «sì, sì, no, no» di evangelica memoria, ha voluto far notare, come attenuante, che nelle parole di Ruini era anche esplicito il fatto che «l'indicazione per l'impegno unitario dei cattolici», costantemente proposta dai vescovi italiani, doveva realizzarsi «nella liberamaturazione delle coscienze cristiane», come avevagià detto Giovanni Paolo II al Convegno di Loreto ... Già. Per fortuna sono finiti i tempi di ogni braccio secolare.

i.l-lt RIAI\CO l.Xll,ROS.SO •h•IIUM•• La successiva «correzione», operata dal segretario della Cei nella conferenza stampa che ha presentato il comunicato finale della riunione, in cui si è detto che quelle parole erano un appello «alla coerenza», «all'unità sui valori e sugli ideali», ma senza mai dire direttamente che non erano un appello all'unità di voto pro-Dc, non ha cambiato la natura di quell'intervento: la Dc ha incassato, grata, e gli altri partiti, tutti, hanno protestato, invocando la laicità dello Stato, il nuovo Concordato, la libertà di coscienza e simili ... Ma i fatti sono fatti, e resta il dato che i cattolici italiani hanno una condizione pressoché unica al mondo: essi sono esortati pressantemente, e costantemente, nel nome stesso della loro appartenenza alla Chiesa cattolica, a stringersi in una sola formazione politico-partitica. 2. Qualche insegnamento della storia a) L'origine problematica. Questione chiara e definita, dunque, quella del voto dei cattolici italiani? Tuttaltro. I fatti dimostrano che i cattolici, che anagraficamente sono più del 900Jodegli italiani, non hanno mai preso troppo sul serio questa indicazione di voto. I dati elettorali sono lì a dimostrarlo. E anche la storia ha qualche lezione sorprendente. Il «partito dei cattolici», o anche solo «il partito di cattolici», come la tendenza meno integralistica ha sempre voluto che si dicesse, ha avuto vita difficile, in Italia. Il primo fondatore della Dc, don Romolo Murri, fu osteggiato e scomunicato, ai tempi di Leone XIII e Pio X, e il suo partito fu sconfessato e sciolto per volontà ecclesiastica. Il rifondatore, don Luigi Sturzo, ebbe parecchi problemi con l'autorità della Chiesa, e dopo la nascita del Partito Popolare fu sconfessato, all'inizio del fascismo, e allontanato dall'Italia fino a tempi propizi, che arrivarono solo nel 1947, dopo il referendum istituzionale su monarchia e repubblica, perché in Vaticano si temeva il suo ardore pro-repubblica, e si faceva il tifo per la monarchia. b) La parentesi «fascistofila» Era già il tempo, quello, della «benedizione» ufficiale ecclesiastica alla Dc di De Gasperi, che impedì l'instaurarsi, in Italia, di una democrazia alla cecoslovacca o all'ungherese, e di fatto salvò la giovane democrazia italiana uscita dal fascismo e dalla guerra. In mezzo c'era stato il fascismo, appunto, e la Chiesa cattolica lo aveva accettato; più o meno entusiasta, ma lo aveva accettato, come rimedio, forse, all'anarchia del primo dopoguerra, e aveva sacrificato, decisamente, e con tempestività sopraffina, la stessa realtà rappresentativa del Partito Popolare. C'è un documento, a questo proposito, che letto oggi appare anche troppo lucido e machiavellico. Si tratta di una «Lettera» che la Santa Sede inviò a tutti i vescovi italiani nel 1922. Ha il numero di Protocollo 8920 ed è datata 2 ottobre. Essa fu resa pubblica dai giornali, per esempio da «Il Giornale d'Italia» in data 20 ottobre, e fu usata subito dalla propaganda fascista per mettere in silenzio gli oppositori cattolici. Il testo è un po' lungo, ma vale la pena di riportarne i passi principali: «È noto alla Signoria Vostra illustrissimae reverendissima come negli ultimi tempi la Santa Sede sia stata fatta bersaglio di accuse e di attacchi da parte della stampa liberale sotto pretesto di accordi col Partito Popolare, quasi fosse un'emanazione della Santa Sede e l'esponente dei cattolici nel Parlamento e nel Paese. Contro tali insinuazioni assolutamente fa/se e calunniose la Santa Sede non ha mancato mai di protestare energicamente, dichiarando a più riprese che, fedele alprincipio di non lasciarsi trascinare nel gioco delle competizioni politiche, essa era rimasta sempre e intendeva rimanere totalmente estranea al Partito Popolare come ad ogni altro partito politico. pur riservandosi di assumere verso di esso, come verso altri partiti, un atteggiamento di riprovazione e di biasimo ove fosse venuto a mettersi in contrasto con i principi della religione e della morale cristiana... Certo non si può negare al vescovo e al parroco il diritto di avere come privati cittadini, le proprie opinioni e preferenze politiche, purché siano conformi ai dettami della retta coscienza ed agli interessi religiosi. Ma è del pari evidente che in quanto vescovi e parroci essi dovranno tenersi tutti alieni dalle lotte dei partiti al di sopra di ogni competizione meramente politica. È ben vero che nellapratica non è sempre agevole segnare con precisione il limite della distinzione accennata, né può quindi riuscire facile nella varietà dei casi particolari ... In questi casi dubbi, come tutti quelli in cui l'azione del vescovo e del parroco potrebbe nuocere agli interessi religiosi affidati alle loro cure e zelo illuminato del buon pastore di anime, non esiteràpunto ad astenersene. La Santa Sede è certa che i vescovi ed i parroci conformeranno sempre la loro condotta a tali direttive subordinando, se è del caso, anche le loro personali preferenze agli alti doveri e alle delicate esigenze del sublime loro mi-

B .PJLBIANCO l.XILROSSO •'11MIDPii nistero». Indubbiamente è una grossa presa di distanza dal Partito Popolare di Don Sturzo, che ancora resisteva al fascismo in arrivo: una vera sconfessione e un atto che mette chiaramente la Santa Sede, in pratica, dalla parte dei nuovi padroni. Né va dimenticato che meno di un mese dopo la stesura di quella lettera, e meno di dieci giorni dopo la sua pubblicazione sui giornali, si verificò la «Marcia su Roma», che segnò la presa violenta di potere da parte dei fascisti. Forse per questo, e certo anche per questo, e per tante cose successe dopo, uno storico come Pietro Scoppola ha potuto scrivereche in Italia non c'è stato solo un regime fascista, ma certamente, salvo periodi di contrasti brevi, almeno fino al tempo delle leggi razziali, un regime clerico-fascista. E tuttavia può essere ammirata la preveggenza lucida di quel testo. Non era un documento dottrinale, certo, ma tracciava le linee di una dottrina pratica che sarebbe venuta comoda. La «prudenza» secolare di certi uomini di Chiesa e di mondo, - di allora-, pensò bene di non dichiararsi ostile ai nuovi padroni, e di non appoggiare quel partito dei «liberi eforti» che qualche anno prima un prete siciliano, don Luigi Sturzo, aveva risuscitato dalle ceneri della De mocrazia Cristiana di don Romolo Murri. Fu l'inizio dell'abbandono di Sturzo da parte della Chiesa, sebbene egli non avessemai preteso che il suo partito fosse l'unico rappresentante dei cattolici italiani, né che ci fosse un legame privilegiato con la Chiesa cattolica. Anzi, l'anno dopo, al Congresso Popolare di Torino, lo stesso Sturzo ebbe amaramente a dichiarare: «Come non abbiamo mai fatto credere, né affermato che solamente il Partito popolare rappresenti la coscienza cattolica degli italiani, nè abbiamo mai parlato in nome della Chiesa, anzi ci siamo afferma ti perciò aconf essionali, così non intendiamo che altri in Italia, nemmeno i fascisti, possano assumere tale caratteristica politica e tale rappresentanza diretta. Ciascuno partito deve assumere quella posizione che meglio rispecchi la coscienza nazionale, la quale è nella sua enorme maggioranza religiosae cattolica. Quindi noi auspichiamo che al riguardo tutti i partiti sentano il problema religioso come lo sentono i popolari». c) La scelta «obbligata» per la Dc di De Gasperi. In ogni caso sulla aconfessionalità del suo partito Sturzo fu sempre fermissimo, anche quando questo gli venne rimproverata da vescovi e

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