~..IL BIANCO l.XILROSSO ■ ,u@o 111 Per i diritti del lavoro in una società <<solidale>> L ' Enciclica «Centesimus Annus» con la quale Giovanni Paolo Il, amplia e attualizza l'orizzonte storico sociale e dottrinario della «Rerum Novarum» di Leone XIII, offre suggestioni, provocazioni, indirizzi, orientamenti che è difficile eludere per chiunque, cattolico o laico che sia. Il documento pur nella sua vastità e complessità che abbraccia il cumulo dei problemi planetari e riassume la condizione dell'uomo contemporaneo, offre non pochi elementi e spunti di riflessione validi e attuali in ogni contesto e in ogni realtà. Anche la realtà meridionale può essere scrutata e interpretata alla luce della lezione che ci viene dalla Chiesa e in questo siamo confortati da diversi segnali che la Chiesa ha lanciato di recente in direzione del Mezzogiorno, non ultimo il documento dei Vescovi italiani sul Mezzogiorno di un anno fa che per molti aspetti anticipava le tesi e le linee interpretative della Centesimus Annus. Come allora quella importante lezione richiamava noi tutti e le forze democratiche meridionali ad una maggiore intelligenza del presente e ad un rinnovato impegno che correggesse le distorsioni implicite in un modello di sviluppo senza «qualità sociale», così oggi la più vasta lettura dello sviluppo presente, delle sue luci e delle sue ombre, dei valori che porta e dei diritti che nega, sembra si attagli perfettamente ad una realtà come quella del Mezzogiorno ed autorizza il Sindacato ad invocarlo a testimone etico-sociale delle battaglie, e della sua azione quotidiana per la giustizia e la difesa dell'uomo e del lavoratore. Di fronte al prevalere del particolarismo e dell'individualismo «protetto» che sembrerebbero liquidare il sindacalismo e la sua funzione di garanzia sociale relegandolo nel museo della storia di un movimento operaio sconfitto, la di Giuseppe D'Agostino «Centesimus Annus» riafferma per intero, attraverso la riproposizione della «Rerum Novarum», la legittimità del Sindacato, e della sua azione di difesa e tutela sociale quando dichiara che «la Chiesa difende e approva la creazione di quelli che comunemente si chiamano sindacati e quando afferma la necessità che il sindacato «contratti i minimi salariali e le condizioni di lavoro» al fine di «stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento, soprattutto a danno dei lavoratori più deboli»; e più avanti e più in generale, quando richiama il grande e fecondo campo di impegno e di lotta, nel nome della giustizia, per i sindacati e per le altre organizzazioni dei lavoratori». Queste parole, che possono persino apparire anacronistiche e in ritardo in un contesto di consolidata democrazia industriale come quello italiano, sono pesanti come pietre nella realtà Meridionale. Da sempre, infatti, e negli ultimi anni in particolare, in questo nostro mondo imprenditoriale, il Sindacato fatica a legittimarsi, a forzare il muro della diffidenza e del rifiuto che gli viene opposto, da parte di alcuni settori del mondo imprenditoriale, del sommerso, del mondo agricolo dominato dal capolarato contiguo e spesso colluso con la criminalità. Un rifiuto che si esprime nelle mille forme del ricatto dell'operaio sindacalizzato, della persecuzione, del licenziamento o della blandizia, dell'allettamento, della dissuasione sottile. Purtroppo è doloroso dover rilevare come in vaste aree del Mezzogiorno la lotta sociale sia ancora questa battaglia di retroguardia per l'affermazione elementare di questo diritto. La parola del Papa, netta e chiara in proposito forse non susciterà mutamenti radicali e immediati in un costume che ha radici varie e profonde; ci auguriamo però che il Sindacato non resti più solo in questa rivendicazione e che tutte le forze locali, compresa la Chiesa, alzino la loro voce di giustizia con coraggio e coerenza. Ma dall'affermazione del diritto sindacale, l'Enciclica si muove su una vasta scala di temi di forte pregnanza e attualità sociale, a cominciare dal diritto al «giusto salario» che deve essere contrattato in forme oggettive, pubbliche e collettive al fine di evitare il rischio di «pragmatismo individualistico» implicito nella pattuizione privata che molto spesso espone l'operaio «costretto dalla necessità, e per timore del peggio» ad accettare patti più duri perché imposti dal proprietario o dall'imprenditore e che volenti o nolenti debbono essere accettati». Chi conosce dall'interno e nel profondo la realtà meridionale può comprendere la straordinaria pregnanza di queste parole. Negli anni ottanta un intero universo economico e produttivo, retoricamente enfatizzato come un vero miracolo localistico dalla moda liberista dominante in quegli anni, ha fatto della «deregulation» la sua parola d'ordine contrapponendo surrettiziamente alla logica della relazione sociale e delle garanzie democratiche, quella esclusiva del mercato e del profitto. Nel Meridione tutto questo si è spesso tradotto nella sistematicità del lavoro nero, del sottosalario, nell'assalto al territorio e all'ambiente, nella corsa al pubblico denaro e alla clientela politica. Abbiamo visto persino gli operai, individualmente e collettivamente, costretti a manifestare contro altri operai, a praticare la delazione e la minaccia, a rimettere la delega sindacale. Il tutto in un contesto di marginalità e di povertà sociale, di emigrazione di ritorno e di disoccupazione patologica che ha esposto la forza lavoro al ricatto di una possibilità di lavoro senza condizioni. Un sistema che in forme diverse si perpetua ancora oggi e coinvolge l'intricato mon-
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