le, l'Enciclica parla del «ruolo decisivo dei sindacati, che contrattano i minimi salariali e le condizioni di lavoro ... ma (sono) anche luoghi di espressione della personalità dei lavoratori: essi servono allo sviluppo ed aiutano i lavoratori a partecipare in modo pienamente urna- .P..lLBIANCO lXILll()S&) l•ii@Oltl no alla vita dell'azienda» (n. 15); per questo «è ancora necessario un grande movimento associato dei lavoratori, il cui obiettivo è la liberazione e la promozione integrale della persona» (n. 43). Non credo che occorra collezionare altre citazioni per cogliere l'altissimo profilo che l'Enciclica assegna al sindacato, che rischia continuamente di essere vanificato dalla banalizzazione del lavoro quotidiano, come pure da un qualche imbarazzo, vergogna e senso di colpa di sindacalisti parzialmente permeati da una cultura utilitaristica. La fine dell'era ideologica L a Centesimus Annus segna la fine dell'era ideologica. Ritengo che il Papa con questa Enciclica abbia inteso - anche - sancire, almeno da parte della Chiesa, la fine della concezione della politica quale visione universale, metastorica, onnicomprensiva di tutte le risposte alle possibili domande dell'uomo riguardanti il suo rapporto con la comunità sociale. Il fallimento della politica, come prodotto della filosofia della storia del secolo XVIII e XIX, riapre l'intelligenza e il sentimento degli uomini, alla concretezza e all'urgenza delle risposte da dare alle proprie profonde e varie esigenze. La Chiesa, in tal senso, si premura di elencare secondo l'intensità del loro bisogno sociale i soggetti destinatari di un'azione politica, autenticamente democratica, e i valori e gli interessi che realizzano nella società la centralità dell'uomo. La Centesimus Annus può considerarsi come una porta: essa separa due epoche storiche. Ci restituisce i termini di riferimento più espliciti ed intrinseci al nostro essere in un contesto politicoculturale comunque diverso da quello dell'era pre-ideologica. La Centesimus Annus in ogni sua parola sottende l'offerta di Dio, ricorrendo alla comprensibilitàdel proprio linguaggio, agli orecchi ed al cuore di ciascun uomo: ricco o povero, del Nord o del Sud, credente o agnostico. Chi in questi mesi ha parlato di papismo, utilizzando una parola intenzionalmente datata, e spregiativa, reagisce e confessa, seppure involontariamente, di Renato De Paolis la propria percezione del fallimento dello spirito del nostro tempo secolarizzato, laicizzato, con ogni mezzo volto alla modernizzazione, anticlericale e protestatario. Emerge nella polemica un sentire fattuale che precede per antitesi, mostrando di aver bisogno di un interlocutore che resiste, piuttosto che in forza della autonomia e del valore dei propri schemi ed idee. La delusione, di chi mal sopporta ora il rilancio dell'influenza politico-morale della Chiesa sulla scena mondiale s'esprime appunto con il termine di «papismo». Esso rileva quel fondo di integralismo che, opposto a quello confessionale, tradisce la qualità laicista di chi lo pronuncia. Si vorrebbero riproporre steccati che il Pontefice mostra di ignorare nello slancio della sua missione offerta a tutta l'Umanità. Il Papa scrive che occorre «uno straordinario sforzo per mobilitare le risorse di cui il mondo nel suo insieme non è privo verso fini di crescita economica e di sviluppo comune, ridefinendo le priorità e le scale di valori, in base alle quali si decidono le scelte economiche e politiche». Ed ancora, recentemente, ha riaffermato che la guerra non porta «l'uomo verso le cose nuove» verso cioè una «morale nuova». Sono queste due affermazioni - tra le molte - che non possono non mobilitare l'attenzione e l'interesse dell'uomo moderno. Il consenso delle coscienze è naturale e, piuttosto che il timore - integristico - di un'egemonia cattolica o papale, esso sollecita il bisogno di collegare l'ondivaga evoluzione della «modernità» ai riferimenti espressi nella Lettera pontificia. Scriveva Pierre Camiti che «l'insegnamento sociale cristiano ... fa appello ad uno sforzo di creazione che sia sempre più in grado di migliorare la condizione umana». E Gianni Baget Bozzo «la Chiesa oggi intende stabilire un impegno morale ed umano ... fondato non tanto su posizioni dottrinali e ideologiche quanto su orientamenti e scelte morali». Si potrebbe affermare che la Chiesa, esperta in umanità, coglie meglio e prima dei laici i bisogni del tempo del popolo. Diviene dunque davvero difficile negare l'ascolto a queste parole! Il problema non è dunque di temere la concorrenza della Chiesa, o peggio di esorcizzare il suo messaggio, ma di prendere atto che è l'idea di modernità proposta da certi settori laici che si rileva ormai miope ai bisogni dell'uomo e sorda all'esperienza della storia. Oggi nè il socialismo reale, nè il capitalismo reaganiano, nè la cultura laica si sono rilevati in grado di gestire i problemi umani del Terzo e Quarto mondo, nè quelli del crescente sbando morale interno agli stessi paesi occidentali. Oggi nell'epoca della post-ideologia l'idealità cristiana conferma e recupera il senso e la forza di una proposta unitaria e globale. L'insegnamento pontificio coglie un nuovo rapporto tra etica e libertà. È comprensibile che una società più libera, come quella di oggi, sia anche più consapevole della propria autonomia e consistenza nei confronti delle
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