L'obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli sufficienti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale» (n. 43). Lavoro, proprietà, ricchezza sono i.)JL BIANCO l.XILROS-5() iit•#ihill tre elementi che innervano il processo dello sviluppo al quale ha diritto di partecipare ogni uomo. Su questo punto l'Enciclica contiene affermazioni molto forti, fino a dichiarare che i paesi creditori non possono esigere il pagamento del debito estero quando questo dovesse imporre scelte tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. L'affermazione dell'accesso universale ai beni e ai mezzi di produzione diventa, in questo caso, forte e inaspettata indicazione politica che si pone nettamente in contrasto con la tradizionale etica liberale. L'Enciclica, dunque, esprime fiducia nella proprietà, nella scienza e nella tematica se esse servono allo svilupo, esprime fiducia nello sviluppo se ad esso vengono chiamati a partecipare tutti gli uomini, senza esclusioni. • • Ciò che chiede 1 veri consensi: l'annuncio G li spunti offerti per assemblare questo dossier sono molti. lroppi, forse (e taluni francamente eccentrici alla natura della Centesimus Annus), perché alla fine si possa costruire un qualche asse di serio approfondimento. In assoluta libertà - come suggerito - e rischiando accostamenti singolari, mi permetterò qualche considerazione su un solo punto: l'accoglienza ricevuta dall'Enciclica, le ragioni del coro di consensi che l'ha accompagnata. Bisognerà essere severi. E intanto, limitarsi alle parole, considerando che la fecondità di documenti come questo sembra appartenere a cadenze di lungo periodo e, certo, non bastano a misurarla i tre mesi che ci hanno condotto dal 1° maggio alle calure d'estate. Le parole dei primi commenti (salvoqualche iniziale ed incauto giudizio su aspetti particolari, azzardato evidentemente in piena ignoranza del testo) sono effettivamente favorevoli, da ogni direzione, anche impensabile, e con tonalità raramente toccate in occasione di analoghe «lettere» pontificie. L'applauso universale, tuttavia, inquieta e genera dubbi e sospetti. Provo a spiegare perché. Ho sommariamente classificato tre generi di reazioni favorevoli. Trascurerei i consensi superficiali e rituali. Essi non sono affatto segno di accoglienza di Maurizio Polverari dell'Enciclica quanto, al contrario, l'inconfessata ed esatta presa di distanza dall'ospite e dal suo messaggio, degni di ogni complimento purché non pretendano di comunicare davvero o di invadere, come una presenza ingombrante, categorie concettuali, ritmi e sicurezze ben collaudati. Trascurerei anche i consensi strumentali, ad occhio e croce particolarmente frequenti in bocca ad esponenti rappresentativi, pure di parte cattolica. Si tratta di consensi simili a quelli della prima specie, ma con l'aggravante che dell'ospite e delle sue parole ci si impossessa per esaltare o ratificare se stessi o la propria parte. Si sarà notato che (come in occasione di altre Encicliche) molti commenti si sono subito dispersi su affermazioni isolate, su singoli argomenti, su particolari dei quali è parso bene impadronirsi soprattutto in funzione polemica (magari per polemiche interne, provinciali e risibilmente sproporzionate agli orizzonti e alle intenzionalità della Centesimus Annus). Un terzo genere di consensi, che ha almeno il pregio della buona fede, è sembrato poi derivare da una diffusa invocazione di saldi ancoraggi a principi e valori forti, sicuri, riconoscibili, dall'urgenza di simboli e significati universali che forse solo la Chiesa di Roma riesce a lanciare in un mondo impoverito di pensiero e di speranze, in un mondo nel quale pochi riescono a gettare lo sguardo un poco più in là del proprio naso e a progettare sorti personali e collettive, nel quale, infine, la fame di buone «lezioni» - possibilmente sintetiche - cresce a dismisura. Ecco, anche questa Enciclica è stata accolta da molti come una buona lezione di un buon maestro, lezione sul mondo odierno e le sue contraddizioni, sul lavoro umano e il suo senso, sugli eventi del 1989, sui doveri degli Stati, sulla solidarietà e così via. L'attesa e la ricerca di categorie interpretative cui appigliarsi per capire ciò che accade denotano un clima diffuso sul quale, ovviamente, occorrerebbe ragionare a lungo nonostante la sua evidenza. Comprensibile e insidioso. A questo punto, il quesito che a mia volta pongo riguarda allora il modo stesso di leggere ed interagire con l'ospite e le sue parole. Perché parlare di «consenso» ad una Enciclica? E perché parlarne, soprattutto, trascurando il «sì» fondamentale per il quale essa è scritta, eliminando di fatto quel nucleo di annuncio che solo la giustifica e che esigedavvero accoglienza? Nel «coro dei consensi», infatti, a mepare si sia generalmente perduta la chiave di volta, il «paradigma permanente» (CA.5) dell'insegnamento della Chiesa
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