lismo dialettico? Ed ecco il punto: l'attuale allarme della cultura «laica» contro il «papismo» nasconde in realtà una condizione di debolezza e di timore, la debolezza di coloro che, dopo assistito al crollo del fascismo e poi del comunismo, temono ora per le sorti di quel mondo razionalistico, scientistico ed illuministico che resta ora il più esposto. E allora, di caduta in caduta, si riaffaccia il timore di un ritorno della teocrazia medioevale. Questo timore è aggravato dalle prospettive di uno scontro tra l'aggressività islamica e l'aggressività della Chiesa che potrebbe riportare il mondo alla situazione del VII secolo. Questi timori non hanno ragione di essere. Da parte della Chiesa, si è già notato come la rinuncia all'integralismo è di data ormai antica e consolidata. Ma anche da parte laica c'è un'esigenza profonda che sta imponendosi sempre di più. È il rifiuto generalizzato dell' «autonomia della politica», concetto costruito gradatamente a partire dal Machiavelli proprio in funzione antiecclesiale e che ha creato danni immensi privando la politica di ogni significato morale e universale e togliendole la possibilità di ogni sua legittimazione. Oggi sono gli stessi partiti della sinistra che tuonano contro l'insufficienza dell' «autonomia della politica» e reclamano espressamente l'aggancio della politica alla morale. In realtà, essi sottolineano molto bene il Iato strutturale della questione. Come ogni dimensione umana e mondana, soggetta perciò alla relatività, anche la politica ha bisogno di una legittimazione, che comprovi la sua validità all'infuori di se stessa. Essendo la politica la gestione del mondo da parte dell'uomo «per» l'uomo, essa trova la sua legittimazione nella morale. Ma non ci si può fermare a questo punto, perché, come si vede anche troppo bene, la moralemischiata in tal modo alla politicadiventa moralismo, cioè un qualche cosa di puramente strumentale. È chiaro quindi che la morale non è a sua volta l'ultima istanza di legittimazione,ma deve riferirsi a quell' Assoluto che è, come è noto, la condizione delle condizioni, il fattore mediante il quale ogni realtà si tiene, si congiunge con le altre e acquista un significato, cioè una intelligibilità. Si capisce quindi come si possa fare riferimento alla morale senza poi comit)Jt BIA!\CO l.XltROS.SO iii•@hMtl piere l'ultimo passo, che è altrettanto decisivo del primo, quello della rinuncia ali' «autonomia della politica». Questo ulteriore riconoscimento implica infatti anche la rinuncia dei partiti a considerare se stessi come religioni sostitutive e alternative, con la conseguenza che essi siano non più competitori, bensì collaboratri della Chiesa nel campo che è loro proprio. Ciò è ancora sentito come un pericolo, una perdita d'identità, una minaccia. Ma anche in questo caso il timore di un ritorno all'integralismo si rivela infondato, per diverse motivazioni. In primo luogo, infatti, il rapporto tra fede e politica e fede è indiretto, per di più mediato dalla morale. In secondo luogo, appunto per questo, le necessarie distinzioni sono assicurate molto bene da questo riconoscimento. Il ricollegamento indiretto dell'area politica con l'area religiosa renderebbe infine in prospettiva superflua l'esistenza di un «partito cattolico» che attualmente esiste soprattutto in quanto i cattolici, per scelta necessaria e non obbligata come pensano ancora alcuni, sentono il bisogno di una forza politica che abbia la massima forza ed estensione possibile per difendere la libertà religiosa. A sua volta sarebbe resa definitivamente perpetua l'immagine della Chiesa, quindi anche la politica, come «luce del mondo», «sale della terra» e «lievito della farina» che eserciterebbe la sua missione in «spirito e verità» il «partito cristiano» non avrebbe evidentemente ragione di essere perché non ci sarebbe più partito o forza politica che non potrebbe non dirsi cristiano, usando la celebre espressione che il Croce ha coniato senza vederne tutte le conseguenze. In questo rapporto sarebbe anche definitivamente chiarito che il compito di elaborare modelli e di applicarli spetterebbe non alla Chiesa, o neppure al popolo di Dio in quanto tale, ma a tutti gli uomini di buona volontà persuasi attraverso tante prove e sofferenze che l'umanità può essere unita solo all'amore. Ciò che dà infine disturbo ad alcuni è proprio il «papismo» in quanto tale. Ma si dimentica troppo facilmente che se il riferimento alla figura e alla funzione del Papa si è rafforzato pur dopo il riconoscimento conciliare dall'autorità e della responsabilità dei vescovi, della collegialità episcopale del governo della Chiesa, e della presenza attiva del laicato come «popolo di Dio», allora non si può fare a meno di condurre questo fenomeno a radici ben più profonde delle circostanze occasionali o propagandistiche cui spesso si associa: è la personificazione di un'esigenza sempre più insopprimibile verso quell'unità dell'umanità che la politica, la scienza, la tecnica, non possono dare rivelando, in questo appunto, la loro irrimediabile parzialità. Si può concludere il discorso affermando che il messaggio papale chiede non tanto eliminazione di contraddizioni, quanto, piuttosto, chiarimenti, affinché tutti i passaggi ideali, e quindi le relative responsabilità concrete siano meglioprecisate talché veramente, secondo il dettame evangelico, «sia reso all'imperatore ciò che è dell'imperatore e sia reso a Dio ciò che è in Dio».
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