qui non possono per brevità trovar spazio, il cristianesimo, come ha dimostrato la storia, non può realizzarsi non solo senza la prospettiva «completante» del Regno dei cieli, ma anche senza la presenza della Chiesa che in modo incarnativo, cioè con i limiti derivante dalla presenza dell'umano in tale rapporto, lo realizzi storicamente. La controprova mazziniana è, da questo punto di vista, illuminante. L'apostolo genovese ha caricato il suo alto insegnamento di un contenuto austeramente cristiano, fondato però solo su questo mondo. In virtù di questa prospettiva un partito, quello repubblicano, con i suoi dogmi e con la sua organizzazione, e non la Chiesa, ormai superata, avrebbe dovuto realizzare il cristianesimo. Il fallimento non poteva essere più completo. Il «partito repubblicano» ha potuto realizzare meritoriamente altri obiettivi, ma non certo quello di realizzare il cristianesimo su questa terra. In modo ancora più esplicito e consapevole, ciò accade anche per Marx, che fin dall'inizio giudica votato al fallimento il tentativo di «Teopompo», come egli impietosamente definisce Mazzini. In ambedue i «partiti» che sono in realtà grandi schieramenti culturali, resta però l'esigenza di riempire uno spazio che aveva un tempo ricoperto la religione, destinata alla scomparsa: e questa esigenza è stata recepita anche dai grandi movimenti collettivi che trovano nel pensiero ottocentesco la loro radice: il fascismo, il nazionalsocialismo e così via. L'iter culturale di questi movimenti dimostra però che questa pretesa sostitutiva non può fare a meno di toccare anche i contenuti: la originaria «laicità», che aveva pure affinità con il cristianesimo, si trasforma in «laicismo», cioè in allontanamento polemico dai valori stessi del cristianesimo. Ciò comporta l'urto dialettico, che ne esige la liquidazione, contro il cristianesimo. Senonché, ed è questo il dramma delle culture «laiciste» contemporanee, il cristianesimo, con la sua valenza teologica dell'incarnazione e con il suo valore morale del discorso della montagna non può essere superato se non con un ritorno all'indietro, cioè al paganesimo. L'opposizione dialettica al cristianesimo comporta anche l'anacronistica adozione della forza invece che dell'amore, e ha come prospettiva l'indivii.>.lL BIANCO '-XltROS.SO i•ii«iiltw dualismo, non la formazione di comunità. Ora forza e individualismo sono fattori di disgregazione, della fraternità, della solidarietà, dell'uguaglianza, dell'unità del genere umano. Per questo il socialismo reale si è autodistrutto attraverso lo svolgimento di fattori sociali non positivi. È chiaro quindi che ad una sola condizione avrebbe potuto (e potrebbe) raggiungere i suoi scopi: rientrare nell'area del cristianesimo rappresentando la sua coscienza critica nel momento stesso di realizzarenel tempora/e, con tutte leforze presenti nella società, i moduli culturali e operativi che incarnano la «civiltà dell'amore». La caduta del progetto storico marxista-leninista rappresenta però anche la caduta di ogni pretesa di assolutizzazione della sfera del temporale. Ciò vale sia per gli altri partiti sia per la Chiesa stessa quando intenda dedicarsi direttamente alla sfera temporale elaborando e presentando modelli. Giovanni Paolo Il, in un passo della «Centesimus Annus» che sarà certamente destinato a costituire anche nel futuro un punto preciso di riferimento per il delicato problema nei rapporti tra fede, morale e politica, lo ha esplicitamente escluso, mantenendosi sulla linea che parte dello stesso Leone XIII. Del resto, prima ancora del Concilio Vaticano Il, Pio XII, in un'udienza riservata ai partecipanti al X Congresso internazionale delle scienze storiche il 6 settembre 1955, aveva già esplicitamente ripudiata l'enciclica Unam Sanctam di Bonifacio VIII che rappresentava il punto di riferimento per tutte le tentazioni teocratiche ed integralistiche. La continuità tra la Rerum Novarum e la Centesimus Annus si rivela non soltanto nella ripresa formale, nel collegameo.to con la tradizione leoniana, ma anche in un punto molto importante, nell'applicazione del concetto e della pratica della riforma invece che del concetto e della pratica della rivoluzione. Nella Rerum Novarum Leone XIII rimproverava al socialismo, tra l'altro, proprio la rivoluzione liquidatrice dell'ordine religioso, culturale, sociale ed economico esistente; per questo, pur condannando quei modelli capitalistici che gli consentivano di mantenere gli operai in una condizione «poco men che servile», salvava il capitalismo, purché si fosse emendato dai gravi difetti d'impostazione e di prassi. Non per questo però andava liquidato, perché vi erano degli elementi fecondi, che andavano salvati ed anzi sviluppati. A cento anni di distanza, Giovanni Paolo II riprende questo metodo criticando gli elementi pericolosi e inaccettabili di certe politiche economiche attuali come fonte di nuove ingiustizie, di pericolose illusioni e di modi antisociali di vita, ma nello stesso tempo salvando il principio dell'esistenza di un qualche rapporto pur necessario tra produzione e mercato e del diritto agli investimenti dei risparmi che derivino dal lavoro socialmente inteso. È questa una forma di rapporto di accettazione del mondo più concreto e realistico possibile. Si ha quindi un parallelismo tra la ratio con cui è considerato il mondo e la ratio con la quale procede la Chiesa, come la Chiesa est semper reformanda, così anche il mundus est semper reformandus. La Chiesa crede al metodo della riforma, a cominciare da se stessa, non in quello della sovversione totale. Il mondo ha da essere convertito, non da essere liquidato. Il metodo dell'amore non deve essere mai tralasciato. È a questo punto che scatta l'allarme. La Chiesa suscita allarme perché ha dimostrato di veder giusto in una questione così importante come quella sociale. E chi impedisce di credere che non possa vedere giusto anche nel resto? Nella sfiducia verso il consumismo, per esempio. Nella protesta contro la disgregazione della famiglia, le comunità sociali, contro l'individualismo, ecco un altro caso. E se avesse ragione la Chiesa nel ritenere impossibile la proclamazione dell'eccellenza dell'uomo che non passi per qualche cosa che è altro rispetto all'uomo stesso? Già ora, infatti, proprio in seno alla cultura che fino a poco tempo fa ha esaltato l'eccellenza e l'autonomia assoluta dell'uomo senza Dio, si stanno affermando correnti radicali che, dialetticamente, dichiarano l'impossibilità di ogni distinzione reale e di qualità tra l'uomo, la vita e la stessa natura. Non dimentichiamo però che la Chiesa combatte le manifestazioni, o meglio le radicalizzazioni di quelle affermazioni scientiste e di quella fiducia illimitata «nelle magnifiche sorti e progressive» che formano il patrimonio più alto che l'umanità ha raggiunto nella sua tormentata storia. E se la Chiesa avesseragione anche in questo allo stesso modo che ha avuto ragione contro il materia-
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