Il bianco & il Rosso - anno II - n. 21/22 - ott./nov. 1991

~.l)~BIANCO l.XILROSSO liti@i001 Dopo le rivoluzioni fallite: il riformismo e l'etica. L a recente Enciclica sociale di Giovanni Paolo II «Centesimus Annus» (1 ° maggio 1991)è stata accompagnata da consensi forse superiori a quelli che a suo tempo accompagnarono la Rerum Novarum, ma anche da dissensi di fondo che riguardano non tanto i contenuti quanto il ruolo che la Chiesa esercita nel mondo contemporaneo. Per quanto riguarda i contenuti, non c'è dubbio che il magistero della Chiesa, a partire dalla Rerum Novarum, si è dimostrato più lungimirante e più aderente alla realtà che non le soluzioni suggerite sia dal veterocapitalismo (e dal liberalismo che lo ispirava) sia dal marxismo non ancora corretto in socialdemocrazia dal revisionismo. D'altro canto, tale magistero si colloca pienamente nella linea ormai secolare di rapporti positivi con il mondo che è stata resapiù esplicita e consapevole dal Concilio Vaticano II, che ha presentato in modo definitivo e senza più le incertezzeprecedenti la Chiesa in cammino con il mondo e per il mondo, compagna e solidaledegli sforzi e dei dolori dell'uomo, la Chiesa «esperta in umanità», per usare un'espressione di Paolo VI. In modo particolare, non può suscitare meraviglia alcuna l'insistenza con la quale presta la sua attenzione alle questioni sociali Giovanni Paolo II, che ha già dedicato all'argomento ben due encicliche,la Laborem exercens e la Sollicitudo rei socialis e gli interventi che le occasioni consentivano, nella ferma convinzione di esercitare, attraverso questeiniziative, non solo un diritto, ma soprattutto uno stretto dovere per un'evangelizzazioneche non voglia essere insignificante,esangue, angelistica ed opportunistica. Tutte queste considerazioni, che discendono direttamente da un'analisi anche sommaria della storia della Chiesa nell'età contemporanea, nonhanno però impedito che alcune cridi Danilo Veneruso tiche rivolte all'ultimo intervento pontificio rivestissero accenti talora decisamente allarmati, per non dire allarmistici. Proprio su questi accenti, solo apparentemente anacronistici, credo sia necessario fermare l'attenzione. La preoccupazione esplicita o latente di queste critiche sorge dal «sospetto» con il quale sono stati accolti l'insistenza e il taglio con cui Giovanni Paolo II ha trattato la caduta del comunismo. La preoccupazione nasce, paradossalmente, dal fatto che il Papa ha colto i termini storici e culturali del significato di questa caduta. Se ciò non fosse accaduto, i segnali di allarme sarebbero stati minori o forse non sarebbero neppure comparsi. Sarebbe presuntuoso e altamente riduttivo riferire questa caduta ad un solo e prevalente fattore, non fosse altro perché in questa caduta molti elementi vi concorrono, tra i quali quelli di natura economica hanno importanza non minore di quelli di natura culturale. Ma non c'è dubbio che per il Papa la caduta del comunismo ha un'importanza soprattutto per quanto esso ha rappresentato rispetto al cristianesimo, ai suoi valori, al modo di interpretarli, alla funzione della Chiesa. Per chiarire meglio questa considerazione, sarà opportuno a questo punto ripercorrere la linea culturale del marxismo rispetto alla sfera religiosa. È noto che il marxismo nasce all'interno della filosofia hegeliana. Bisogna allora partire dall'origine di questa filosofia. È stato abbastanza dimenticato che l'esigenza dalla quale parte Hegel è quella di riscoprire e diffondere il cristianesimo come «religione dell'umanità». Egli però sviluppa questa esigenza in modo del tutto immanentistico, come una tavola di valori da realizzare su questa terra, l'unico modo del resto possibile dopo la critica razionalistica alla prospettiva ultraterrena delle religioni «rivelate» in generale e del cristianesimo in particolare. Da questa impostazione derivano alcune importanti, decisive conseguenze. In primo luogo, il marxismo, che deriva dall'hegelismo in modo più coerente che non il nazionalimperialismo perché mantiene le sue originarie esigenze universali, si presenta, in una sua innegabile tradizione culturale come «eresia del cristianesimo», allo stesso modo che si presenta come tale anche l'ideologia democratica e nazionalitaria del Mazzini. Come tale, il marxismo, al pari dello stessomazzinianesimo, fa parte integrante e legittima del mondo culturale e civileespressodal cristianesimo. Come dimostrano le sue difficoltà di penetrazione incontrate nel mondo islamico, induista e shintoista, esso non è pensabile se non in un mondo dotato del seme cristiano: le apparenti eccezioni della Cina e dell'Indocina sono più apparenti che reali, perché si sa l'importanza del ruolo esercitato su quei territori delle missioni cristiane da una parte e dalla cultura occidentale dall'altra. È anche noto che il marxismo sia stato sentito come una vera e propria religione sostitutiva del cristianesimo rivelatosi insufficiente a eliminare le ingiustiziedi questo mondo da centinaia di milioni di umili e di oppressi. Senonché diverse contraddizioni, vieppiù allargatesi e approfondite, hanno impedito che la prospettiva, sottolineata con particolare vigore da Gramsci, dell'affe"rmazionemondiale di una concezione del mondo collettiva con relativa morale conseguente abbia avuto pratica realizzazione. Citeremo solo quelle che paiono più funzionali al nostro argomento. Al pari di Mazzini, Hegel deriva da Saint-Simon la persuasione che il cristianesimo non solo possa realizzarsi, ma addirittura abbia tutto da guadagnare dall'abbandono di tutta la parte ultraterrena. Senonché, per motivi che

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