Il bianco & il Rosso - anno II - n. 21/22 - ott./nov. 1991

_{).tl, BIAI\CO l.XltR~ ■ 11h@iiil Un'enciclica soltanto euro-occidentale? H a avuto un'eco di consensi singolarmente vasta la recente enciclica sociale «Centesimus Annus». Anche da fronti tradizionalmente critici e diffidenti in tema di insegnamento sociale della Chiesa (penso a certa elite d'opinione di matrice laico-liberale, che talvolta sembra rivendicare una sorta di monopolio nella comprensione del portato della modernità). Qualche isolata voce critica (è il caso di Sergio Quinzio e di Massimo Cacciari) ha creduto di riscontrare una venatura eurooccidentale, quasi l'appiattimento della Chiesa sui moduli della modernizzazione, l'appannamento di quell'alto registro profetico, escatologico, universalistico risuonato nelle parole del Pontefice in occasione della guerra del Golfo. Che dire? Si può anche convenire sulla tesi secondo la quale gli elementi più innovativi dell'enciclica (raccolti soprattutto nei suoi capitoli IV e V) si manifestano nell'approccio non pregiudizialmente polemico verso le forme del capitalismo e della democrazia storicamente sperimentate in occidente. Ma, a ben riflettere, questa circostanza si configura non già come il limite ma all'opposto come il merito precipuo all'enciclica. Che non recede di una virgola nel denunciare con vigore le intollerabili condizioni di miseria e di oppressione in cui versa il Sud del mondo; che non pratica sconti - anzi, è più esigente che mai - nel sostenere che non si dà risposta alla «questione sociale» se non si ripristinano i giusti presupposti antropologici, quelli che interpretano la persona umana come soggetto autonomo, libero, responsabile, che si realizza nel- !' obbedienza al Creatore e nell'esperienza di una libertà che si fa dono e condivisione coi fratelli; che il fallimento dell'ideologia e dei regimi comunisti ci lasciano in eredità tutti interi quei problemi (nel loro doppio profilo di alienaziodi Franco Monaco ne e di ingiustizie) sui quali fece perno quella tragica esperienza storica e ideologica. Non è un caso che tante improvvisate voci di consenso abbiano glissato su questi essenziali passaggi. «Euro-occidentale, dunque, non in quanto compiacente e corriva nel giudizio di valore con i punti di vista (e l'ipocrisia) del Nord opulento e insensibile alle clamorose contraddizioni del pianeta. Ma - questo sì - perché si è provata a mettere a tema le dinamiche, tradizionalmente ostiche per la cultura cristiana, connesse alla modernizzazione capitalistica. Nella consapevolezza che essa porta in sè, insieme a vistose contraddizioni da sciogliere, ricche virtualità per la «vita buona» del mondo intero. Lo si enuncia in forma esplicita nel par. 42, dove accuratamente si distingue un profilo «buono» del capitalismo - in quanto promuove lo spirito d'iniziativa, il principio di responsabilità, nonché l'efficienza nell'organizzazione dei fattori produttivi - dal suo profilo problematico, allorquando esso avanza la pretesa di assurgere a nuova e più insidiosa ideologia («radicale») condensata entro stili di vita e modelli di comportamento inavvertitamente assimilati più che consapevolmente elaborata a partire da un valore-guida o un'idea regolativa dello sviluppo storico-civile. Ripeto: è semmai merito della «Centesimus Annus» l'impegno a una comprensione dall'interno dell'economia di mercato, intesa quale formula storicamente rivelatasi più efficiente e insieme correlata con i regimi democratici. È il definitivo abbandono dell'illusione di poter ideare e praticare una mitica «terza via» al riparo dalle contraddizioni dei processi storici reali, per accedere - più umilmente, ma anche più proficuamente - alla «via delle giuste riforme» possibili (n. 15), a un «riformismo processuale» che procede per tentativi ed erJ<, rori, per correzioni e integrazioni, operando all'interno di assetti economici e politici sempre perfettibili che tuttavia hanno il merito di prestarsi - in quanto aperti e flessibili - a una tale azione di autoriforma. Verso le dinamiche dell'occidente democratico e sviluppato, dunque, l'enciclica opera quella che un vecchio amico e grande filosofo scomparso lo scorso anno - Gustavo Bontadini - chiamava la «ricomprensione apologetica». Ossia l'assimilazione dell'anima di verità inscritta dentro idee, esperienze e istituti originariamente germinati fuori o addirittura contro il cristianesimo; la loro reinterpretazione entro un orizzonte di senso coerente con la Rivelazione cristiana. Nel nostro caso: i diritti civili e gli istituti fioriti nell'alveo della tradizione liberal-democratica; l'economia di mercato maturata dentro e a seguito del processo di industrializzazione; le istanze di riscatto sociale espresse dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni; lo stesso Welfare State con l'estensione della sfera d'intervento dei poteri pubblici in campo economicosociale. Tutto un portato della civiltà moderna, caratteristicamente eurooccidentale, che, sulle prime, ha fatto problema alla Chiesa. E che, anche oggi, non è acriticamente «benedetto», ma oggetto di lucido discernimento e di creativo impegno riformatore. Qui stanno, dunque, l'originalità e il merito della «Centesimus Annus». Proprio laddove taluni osservatori critici vi hanno riscontrato un limite. Con il che si conferma una mia vecchia opinione: che, relativamente al magistero di un'autorità alta (in questo caso il Pontefice), ci aiutano di più le critiche sincere che non i sospetti cori elevati da chi vuol tirare quella autorevole parola dalla propria parte. Magari - come ci siamo provati a fare qui - per rovesciare tali rilievi critici, dopo averli presi in seria considerazione.

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