necessitate da un certo atteggiamento di «autosufficienza» sul piano sociale che una parte almeno del movimento cattolico ha rivendicato (e forse ancora rivendica) a partire dalla insistita citazione e quasi dalla ritualizzazione del filone magisteriale originato dalla Rerum Novarum. Ma anche sul piano di merito l'insegnamento di Giovanni Paolo II in materia politico-sociale ha, come si suol dire, «rimescolato le carte». L'attuale pontefice ha assunto infatti un diverso angolo prospettico rispetto ai suoi più recenti predecessori: meno italocentrico e meno eurocentrico nel rapporto fra la Chiesa e il mondo. (La stessa tematica, pur molto insistita, della «Europa cristiana» ci appare, a ben guardare, riferita più a Cirillo e Metodio che a Carlo Magno; più intesa, in sostanza, al recupero del cristianesimo come fede che alla riproposizione della cristianità come ordinamento statuale). Inoltre papa Giovanni Paolo II ha assunto, in relazione al lavoro (con la Laborem exercens) o ad altre «questioni disputate» della società contemporanea (come con la Mulieris dignitatem), un atteggiamento più disponibile ad un coinvolgimento ed alla ricerca di un comune linguaggio, in ordine a nuove riflessioni sui valori da parte del mondo contemporaneo o almeno della sua parte riflessiva. Una riflessione sui valori è importante per tutti, cattolici e laici. Cattolici e laici si rendono tutti conto, o dovrebbero, che il superamento delle ideologie, che è un fatto positivo, comporta però il rischio di perdere l'ancoraggio ad alcuni punti di riferimento fondamentali nella scala valoriale, sul riconoscimento dei quali si può per un lungo tratto almeno lavorare insieme. Proporrei, in particolare ai laici, un tentativo di leggere così questo documento papale. Sia la parte relativa al fallimento dei sistemi comunisti (che può apparire ovvia, a bocce ferme, sul piano storico, ma che va valutata nelle radici etiche che il Papa individua fra le ragioni e le motivazioni di questo fallimento); sia quella che giudica in positivo il lungo e fruttuoso lavoro riformista del movimento operaio (più importante di quello che può sembrare, proprio perché è anch'essa non solo un giudizio storico, ma più un giudizio morale); sia infine la parte di denuncia .P!LBIANCO lXltROSSO l 111#0itl e di rifiuto del capitalismo e dell'edonismo consumistico (che non è una scelta di campo, ma il richiamo a valori e a disvalori la cui considerazione appare fondamentale per tutti e in particolare per la sinistra riformista). Proprio da questo punto di vista, vorrei fare alcune considerazioni sul papismo (come si è tornati a chiamarlo riesumando ed adattando una definizione antica) e sull'antipapismo. Su una polemica cioè che proprio per iniziativa dei socialisti riformisti si è sviluppata nei mesi precedenti e seguenti all'Enciclica, culminando nel fastidioso boato anticlericale con cui il congresso di Bari ha accolto le affermazioni di Martelli. Pur essendo fra quelli che hanno accolto con profondo disagio e con razionale dissenso sia quelle affermazioni sia quell'applauso, debbo dire che ho compreso (sul piano psicologico) l'applauso di molti delegati: e proprio per questo si è rafforzato il mio dissenso dalle affermazioni che l'hanno provocato. Credo che quell'applauso (a parte i pochi casi di residui laicisti rigurgitanti) fosse giustificato dal vedersi proposto un «nemico esterno» nel quale poter spensieratamente identificare le cause di qualche nostra difficoltà. E proprio per questo ho trovato l'attacco di Martelli incoerente con tutta la prima parte del suo discorso, che era una critica lucida e vigorosa a un certo modo di intendere e di fare la politica come pragmatismo spregiudicato, come prassi senza ideali. Craxi ci ricordava invece giustamente, nella relazione e nelle conclusioni, quanto noi possiamo riscontrare di convergenze sostanziali fra gli ideali del socialismo riformista ed i valori dell' «immortale cristianesimo». Egli rivendicava anche, e questo è un punto fondamentale, la libertà politica dei cattolici italiani. La Chiesa deve riconoscerla; ed essi stessi debbono continuare a conquistarla. È quella libertà politica che consegue, lo dicevo all'inizio, alla collocazione dell'insegnamento sociale della Chiesa fra le fonti (e per i cattolici se si vuole come fonte privilegiata) per la formazione di una coscienza responsabile con la quale assumere le proprie responsabilità nel1'operare politico. Ma non consegue certamente alla obliterazione di questo insegnamento da parte dei cattolici o alla sua invalidazione da parte dei laici. Certo, fra questo insegnamento e gli ideali del socialismo e le proposte politiche del socialismo non vi è totale coincidenza. Ma perché il socialismo (che non è né una religione né un'ideologia) dovrebbe rinunciare ad alimentarsi anche a queste fonti di insegnamento morale? Perché i socialisti, cattolici e non, dovrebbero ritirarsi di fronte al compito di realizzare in politica quanto e come è possibile di valori universali e di valori cristiani? Certo, l'insegnamento della Chiesa è da alcuni (cattolici e non) assunto come nobile ed ideale schermo per l'assai meno nobile tutela di interessi partitici, e per la conservazione acritica dell'esistente. Ma perché i socialisti, anziché contestare questa strumentalizzazione e questa deformazione, dovrebbero contestarne semplicisticamente il riferimento ideale? Perché dovrebbero rinunciare a dimostrare come nel loro corretto impegno politico (di credenti e non credenti) le parole del Papa possono trovare più di un'eco e di un conseguente impegno? È importante però che la cultura autenticamente laica comprenda che, rivendicata la libertà degli uomini (credenti e non credenti) di applicarsi alla politica come ad una precipua sede di mediazione e di consenso, non può negare alla Chiesa cattolica la libertà di indicare specifici e propri traguardi morali. Nel momento in cui la cultura laica sente, giustamente, una fede religiosa come qualche cosa di «diverso da sé», non può non riconoscerle però pieno diritto di cittadinanza: proprio in ossequio a quella distinzione e separazione di piani che, rivendicata in una direzione, poi vale per tutti. L'integralismo, che dobbiamo contestare, non consiste nell'integralità dell'insegnamento religioso, ma nell'eventuale pretesa di un suo integrale trasferimento nell'ordinamento civile degli stati. Per non dire, in conclusione, che la laicità dello stato, della politica, dei partiti, quella che tutti vogliamo difendere, non consiste certo in una sorta di «a-moralità»; ma nel riconoscimento e nella pratica di un'etica laica a cui nessuna fonte può essere estranea o, peggio, fastidiosa. Ci insegnerà anche tutto questo una serena riflessione sulla Enciclica Centesimus Annus?
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