ISS~ 1120-7930 BIA mensilt> di dibattito politicoSped. in abb. postale - Gr. 111/70% Anno II sommario ottobre-novembre 1991 1 EDITORIALE: Cattolici e politica italiana: unità di impegno, non di voto, di P. Camiti 3 ReS: No, non umiliamo la fede. 5 ATTUALITÀ: E se Psi e Pds ... Un dinamico progetto di unità della sinistra, di G. Di Donato 6 Verso l'unità, senza liquidazioni e con primi passi concreti, di G. Chiaromonte 8 Pensioni: Marini così così. A quando la vera riforma? di M. Paci 1O Progetto Marini? Con qualche dubbio, di G. Cazzola 11 Pensioni: questa riforma è urgente, di F .P. Conte 14 Un impopolarismo necessario, di M. Bertin 16 Cgil: un grande cambiamento per un futuro più pieno, di F. Vigevani 17 Disciplina legislativadelle Cooperative sociali, di N. Sgaramella INTERVENTI 18 DOSSIER: «Centesimus Annus»: una discussione 23 necessaria, Interviste a P. Doni e G.C. Lombardi. Interventi di R. Formigoni, A. Ossicini, L. Vertemati, G. Gherardi, F. Monaco, L. Bobba, D. Veneruso, M. Cangiotti, A. Luciani, M.I. Macioti, G.P. Cella, R. Morese, M. Polverari, G. Italia, L. Caselli, A. Carli, P.Merli Brandini, F. Domeneghini, R. Bonanni, S. Antoniazzi, L. Loporcaro, L. Cocilovo, R. De Paolis, C. Stelluti, G. D'Agostino L'EUROPA E IL MONDO: l'Est postcomunista e 73 il mercato del lavoro, di L. Frey DOCUMENTO: Fede e politica: la lezione di don 76 Primo Mazzo/ari SCAFFALE: P. Scoppola. La repubblica dei parti- 81 ti, di S. Vento Libri ricevuti 83 VITA DELL'ASSOCIAZIONE: Assemblea nazio- 84 nale degli iscritti di ReS: Documento programmatico Cattolici e politica italiana: unità di impegno, non di voto di Pierre Camiti P uò darsi che l'intervento del cardinal Ruini alla Cei vada interpretato come un invito all' «unità nell'impegno» dei cattolici, più che all' «unità del voto». Può darsi che le sue parole vadano lette più che come sostegno alla Democrazia Cristiana, come un esorcismo contro i pericoli di una irrefrenabile diaspora a vantaggio delle Leghe. Può darsi che ci siano stati
,P.lL BIANCO lXILROSSO ll•i ■ kHAlili dei fraintendimenti che hanno alimentato allarmi ingiustificati. Tuttavia credo che la perplessità e lo sconcerto che si sono manifestati, anche nel mondo cattolico, siano non solo il prodotto di un malinteso, ma anche di una ambiguità. Cosa ha detto, in sostanza, il .cardinal Ruini? Nella prima parte del suo intervento, quella più propriamente pastorale, ha sottolineato che gli italiani mantengono un diffuso sentimento di religiosità (che sarebbe, tra l'altro, confermato dall'ampiezza delle adesioni all'insegnamento religioso nelle scuole ed anche al sostegno economico alla Chiesa) ma sono però poco praticanti. Si tratta quindi di una «religione distante dal concetto di verità». Un problema serio al quale, però, non sono stati prospettati rimedi. Nella seconda parte (quella che può essere definita più politica) dopo aver analizzato le conseguenze mondiali ed europee del crollo del comunismo nei paesi dell'Est, si passa improvvisamente al tema dell'unità politica dei cattolici per contestare la tesi di coloro che avevano sostenuto che essa era stata definitivamente messa in crisi dalla fine del comunismo. La confutazione di questa tesi è fondata sostanzialmente su tre argomenti. Primo: «la difesa della democrazia e della libertà politica è certamente un obiettivo dei cattolici, ma non è affatto il solo». Secondo: la fine dell'unità politica dei cattolici comporterebbe la «privatizzazione della fede» e la sua «irrilevanza per la vita sociale». Terzo: anche dopo la fine del comunismo permangono «tendenze culturali e politiche che appellandosi ad un falso concetto di libertà, tendono ad emarginare dalla realtà sociale e dalle istituzioni ogni riferimento all'etica cristiana ed alle genuine tradizioni del nostro popolo». Le affermazioni del cardinale hanno suscitato numerose reazioni. Poco convincente, almeno per chi scrive, la contestazione di una indebita ingerenza del cardinale nella vita politica. L'argomentazione è debole. In democrazia tutti parlano di tutto e non si capisce perché questo diritto dovrebbe essere negato ai vescovi. Scarsamente fondata anche la preoccupazione che le considerazioni dei vescovi possano costituire una coartazione della libertà di voto dei cattolici. Che l'unità politica dei cattolici non sia un dogma e neanche un principio dottrinario è sempre stato chiaro per chiunque, credente o no, disponesse di una pur elementare cultura teologica. Del resto il richiamo all'unità politica non è mai stato presentato (e nemmeno lo ha fatto ora il cardinal Ruini) come un problema di dottrina, ma semmai come una questione legata a determinate situazioni storiche. Sotto questo profilo si può prendere atto senza difficoltà dell'affermazione del presidente della Cei che l'appello all'unità politica non aveva come unico movente l'anticomunismo, anche se così è sempre stato interpretato da tutti. Non si capisce, però, perché la fine dell'unità politica dovrebbe comportare necessariamente la «privatizzazione della fede». Perché mai, infatti, la fede _dovrebbe essere visibile soltanto se porta ad una presenza politica in un solo partito? Perché mai senza il partito cristiano non dovrebbe essere possibile una testimonianza di fede cristiana? Se i timori del cardinal Ruini fossero fondati si dovrebbe concludere che in quei paesi a maggioranza cattolica dove non esiste e dove nessuno pensa di costituire un partito cristiano, la testimonianza della fede sia preclusa. L'esperienza di quei paesi conferma, al contrario, che i cattolici possono sostenere, in partiti e gruppi diversi, i propri valori e le proprie convinzioni etiche. Naturalmente questo dipende dalla loro capacità o dalla loro volontà. Ma tornando all'Italia, se è vera la perdita di valori della· quale tutti, credenti e non credenti, soffriamo; se è vero che esistono sintomi allarmanti di degi:ado sociale e morale, è difficile pensare che non esistano responsabilità della Dc, ininterro,ttamente al governo da quasi cinquantanni. L'assenza nel discorso del cardinale Ruini di ogni cenno critico in tal senso (che invece non era mancato al suo predecessore e ad altri autorevolissimi vescovi) ha indotto, non pochi a vedervi una inaccettabile Jdentificazione tra Chiesa e Democrazia Cristiana, che probabilmente mette in imbarazzo anche parecchi democristiani, ma che sicuramente è inaccettabile per i cattolici. Si deve infine aggiungere che l'intervento del cardinale sarebbe risultato più credibile se qualche cenno critico fosse stato rivolto alla Chiesa stessa (tanto al clero che ai laici) il cui impegno di testimonianza ha certamente bisogno di essere riconsiderato se dà risultati così scarsi in termini di solidarietà, di impegno comunitario, di valori. C'è in ogni caso un rischio per la stessa Chiesa, che credo non debba essere oscurato. Quanti, compresi molti giovani, avvertono il bisogno di accogliere l'annuncio evangelico (e magari anche di ascoltarlo a fondo), ma se ne restano sulla soglia, o se ne· allontanano proprio per quella commistione tra Chiesa e Dc, che lungi
-"JL BIAI\CO l.XILROSSO IIU•Ci)Ali•M dall'essere una traduzione pratica dell'annuncio, appare piuttosto una sua deformazione? di voto dei cattolici, come ben sa il cardinal Ruini, non è mai esistita). Ancor meno lo fanno per tentazione ribellistica verso l'autorità ecclesiastica. Lo fanno semplicemente perché è stato loro insegnato che la fede non costituisce un partito tra i partiti, ma anzitutto un dovere di testimonianza delle proprie convinzioni. Lo fanno quindi anche per amore della Chiesa. Si deve dire perciò che i cattolici che riaffermano la laicità e quindi la loro responsabilità nella politica, i cattolici che hanno rifiutato e continuano a rifiutare una improbabile unità elettorale, non lo fanno per smania di cambiamento (anche per la buona ragione che l'unità No, non umiliamo la fede! In relazione alle dichiarazioni recenti del cardinale Camillo Ruini, che hanno suscitato dibattito e sconcerto, ReS ha diffuso il seguente documento, che pubblichiamo con le prime adesioni ricevute. Roma 24 settembre 1991 Il cardinale Camillo Ruini, neopresidente della Cci, ha in sostanza ribadito, a nome dei vescovi italiani, il dovere dei cattolici di votare Dc. Eppure da più di venti anni la dottrina ufficiale della Chiesa afferma il pluralismo delle scelte politiche dei cattolici. Come credenti e cattolici noi desidereremmo che fosse rispettata, finalmente anche in Italia, una autentica laicità della politica, e insieme che la nostra unità ecclesiale di fede non fosse umiliata al rango di strumento improprio di consenso elettorale. Potrebbero, i nostri vescovi, rispettare questo desiderio che ci permettiamo di esprimere in spirito di comunione ecclesiale, contribuendo così a creare un clima più autentico, in tutti, di ascolto e di disponibilità allo stesso messaggio della fede? Pierre Camiti, Rino Caviglioli, Ettore Rotelli, Luigi Ruggiu, Gianni Gennari, Tiziano Treu, Gianprimo Cella, Gianni Baget Bozzo, Luigi Covatta, Franco Iacono, Giuseppe Alberigo, Gianni Mattioli, P. Davide Maria Turoldo, Don Vittorio Morero, Luigi De Paoli, Giovanni Benzoni, Mario Bertin, Deputato Europeo Segretario Confederale Cis/ Ordinario di Storia delle Istituzioni Politiche - Università di Bologna Preside Facoltà di Filosofia - Università di Venezia Giornalista Ordinario di Diritto del Lavoro - Università Cattolica di Milano Prorettore Università di Brescia - Ordinario Sociologia Economica Deputato Europeo Sottosegretario Beni Culturali Deputato Europeo Ordinario di Storia della Chiesa - Università di Bologna Deputato al Parlamento Monaco, poeta, teologo Direttore del settimanale diocesano di Pinerolo, "L'Eco del Chisone" Medico, psicanalista Insegnante Operatore sindacale Cisl
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icl-P- BIANCO lXILROSSO ililiikii•d E se Psi e Pds... Nel numero scorso abbiamo pubblicato la «provocazione» di Piero Borghini, presidente del Consiglio regionale lombardo e deputato del Pds, circa lapossibile, e per Borghini necessaria unità della sinistra, e in pratica di Psi e Pds, allo scopo di uscire dall'anomalia, tutta italiana, di un governo egemonizzato per mezzo secolo dalla Dc, con la conseguente paralisi istituzionale e politica in cui il paese è venuto a trovarsi. Era l'apertura di un dibattito, cui in questo numero replicano, diversamente, il vicesegretario del Psi, Giulio Di Donato, e il senatore Pds Gerardo Chiaromonte. Il dibattito resta, naturalmente, aperto a tutti. Un dinamico progetto di unità della sinistra di Giulio Di Donato ' E lecito chiedersi perché oggi dovrebbe essere possibile costruire una grande forza riformista in Italia, se ciò non è avvenuto in più di quarant'anni. Ed è altrettanto lecito rispondere che, per il nostro Paese ciò dipende in larghissima misura della dissoluzione ideologica e politica del comunismo e quindi dalla necessaria obbligata trasformazione del Pci. Quest'ultima, in corso ormai da tempo, ha subito una prima forte accelerazione con la nascita del Pds ed una seconda dopo gli avvenimenti che in rapida successione, (quasi unaripetizione rovesciata della storia se si pensa al titolo di un famoso libro e altrettanto famoso film «I dieci giorni che sconvolsero il mondo»), hanno scosso l'Urss nell'agosto scorso. Le vicende sovietiche hanno dimostrato che il comunismo non era storicamente evolutivo (anzi, come i fatti hanno inconfutabilmente detto, tendeva piuttosto ad una involuzioneprogressiva), né che conteneva in se la capacità di autoriformarsi, cioè di espellere dal proprio corpo politico quelli che con un eufemismo Berlinguer indicava come «tratti illiberali». I comunisti italiani, che sono stati tali a tutti gli effetti ed ai quali non era bastato Budapest nel '56, Praga nel ,.68e neppure Tien an Men I - I - - :"I nel '90 per convincersi della irreversibilità del comunismo e della sua totale impenetrabilità alla libertà ed alla democrazia, hanno invece dovuto prendere atto definitivamente che così era dinanzi allo shock del golpe dell'agosto scorso a Mosca contro la perestroika di Gorbaciov ed alla rivoluzione democratica del popolo di Mosca e Leningrado. Per questo, dopo una fase di disorientamento (culminata con le posizioni assunte sulla guerra contro Saddam Hussein, e poi corrette anche in quel caso con una dichiarazione congiunta con Craxi), Occhetto e la maggioranza del Pds hanno definitivamente passato il Rubicone e, con il documento firmato con Craxi il 20 agosto sul golpe di Mosca hanno creato le condizioni affinché il dialogo a sinistra, per la costituzione di un polo o area riformista, prendesse corpo. Naturalmente tutto ciò è stato reso possibile dalla posizione di apertura assunta più di un anno. e mezzo fa dal Psi di Craxi con la proposta del progetto politico della Unità Socialista. Oggi sul piano interno la situazione politica appare in una fase di accentuata involuzione e si potrebbe aprire uno spazio reale per una possibilità di ricambio politico finora, ed ancora ora, del tutto insperato. Un polo riformista for-
.P.lLBIANCO l.XILROSSO Milkliild mato da tutte le forze di ispirazione socialista, saldamente ancorato alla tradizione del socialismo liberale ed alla esperienza del socialismo democratico europeo, potrebbe diventare una forte opzione politica per il cambiamento e l'alternativa. In ogni caso la sua esistenza reale, effettiva, visibile, a prescindere dal conseguimento o meno dalla maggioranza dei voti, varrebbe a creare condizioni dialettiche del tutto nuove nel quadro politico italiano, sottraendo alla Dc quella funzione di perno o fulcro degli equilibri pur nella sua congenita instabilità che rappresenta la più potente prerogativa politica di Il Iauismo ,i mandballaguerrae alladisfatta De Gasperi ,1 ricompensa conlamiseriae la fame VOTATE CONTRO I fflPONSABI.I DELDISONORE NAZIONALE PfR LAPACELARINASCITA DELMEUOGIORNO Le foto di questo numero riproducono i manifesti elettorali che la Dc e il Fronte popolare, Psi-Pci, produssero nei primi anni della Repubblica, all'incirca 1946-1953.Come si può vedere già da questa prima riproduzione il clima politico, dall'una e dall'altra parte, era piuttosto «forte», e primitivo, comunque non da rimpiangere. Ringraziamo in particolare, per il materia/e che abbiamo potuto reperire, la dottoressa Susanna Loi, dell'Archivio fotografico del Pds. quel partito. Com'è evidente, già questo sarebbe una svolta radicale. Cosa occorre per realizzare tutto questo? Quali i prossimi passi dopo quelli compiuti? Provo a rispondere. Primo: valori comuni di riferimento. Valori che non vanno ricercati in una sorta di imprecisato limbo che alcuni già definiscono «post-comunismo», bensì valori che già esistono e che affondano le loro radici nella tradizione socialista italiana, democratica e liberale. Un socialismo che non è stato mai dogmaticamente marxista e che ha resistito alle suggestioni prima, ed alle violenze poi, che venivano dall'universo comunista. Su questi valori, che in questi anni di divisione della sinistra, abbiamo avuto cura di preservare, aggiornare, integrare, si può oggi fondare una moderna cultura riformista. Con il contributo di tutte le esperienze e con il recupero del grande patrimonio comune di lotte accumulato in questi anni. Dunque: diritti e responsabilità, la tutela dei deboli, insieme alla capacità di rappresentare gli interessi generali del Paese senza scivolare nel corporativismo. Efficienza ed equità, garantendo le condizioni di libero mercato ed efficaci politiche redistributive. Insomma un solido impianto di moderna cultura di governo, condizione imprescindibile per elaborare un programma credibile e realizzabile di rinnovamento del Paese. Secondo: un programma di governo. Le questioni sono tutte lì dinnanzi a noi. Dalla riforma istituzionale ed elettorale, rispetto alla quale occorre mettere da parte le reciproche pregiudiziali per ricercare convergenze anche parziali, ai grandi problemi del risanamento del debito pubblico, della riforma fiscale, del sistema previdenziale, dei servizi pubblici, della lotta alla criminalità e alla corruzione, allo sviluppo del Mezzogiorno. Senza contare le scelte di politica estera per un ruolo attivo dell'Italia nel favorire la graduale integrazione dell'Europa orientale nel contesto comunitario o la soluzione del problema palestinese ed in generale a favore di un crescente effettivo rafforzamento delle Nazioni Unite come centro di governo dei conflitti regionali e come efficace propulsore di politiche redistributive a favore dei paesi poveri. Certo c'è un gran lavoro da fare, il tempo è poco e gli ostacoli ancora molti. Sarebbe un errore pensare che un disegno strategico di questa portata possa realizzarsi d'incanto. Occorrerà un forte spirito unitario, una convinzione profonda che non vi sono alternative a questa
.{)!L BIANCO l.XILllOSSO Mil•lii•II direzione di marcia, che questa occasione politica, sostenuta sul piano storico per altro dalla ricorrenza del centenario della nascita del Psi, cioè del movimento socialista, non si ripeterà, e che se andasse sprecata ciò segnerebbe la sconfitta definitiva di una prospettiva di cambiamento, per molti anni ancora. Concludo. Abbiamo pochi mesi fino alle elezioni. Li dobbiamo utilizzare per consolidare il clima buono che si è instaurato tra Psi e Pds, magari rendendo «visibile» questa prospettiva nuova dalla quale, anche col sostegno degli elettori, potrebbe discendere un forte cambiamento nel governo del Paese nel prossimo futuro. Versol'unità, senza liquidazioni e con primipassi concreti di Gerardo Chiaromonte D ico subito che la proposta di Piero Borghini (per la costituzione di un gruppo unico Pds-Psi-Psdi al Consiglio comunale di Milano) non mi convince. Ho già avuto modo di esprimere, nei mesi scorsi, la mia opinione favorevole alla prospettiva dell'unità socialista. Tale prospettiva significa essenzialmente due cose: il riconoscimento di valori e ideali comuni (quelli del socialismo democratico occidentale) e la ricerca paziente e costante di punti di incontro sul terreno programmatico e politico. Ma essa non significa fusione fra i due partiti fondamentali della sinistra, anche se è evidente che l'obiettivo della ricomposizione delle forze riformistiche resta nello sfondo e va perseguito. All'unità e per il momento alla convergenza delle forze che si ispirano al socialismo ognuno non può che arrivarvi con il proprio bagàglio e·con la propria storia. Stabilire la discontinuità, proclamare anzi la rottura con una parte di questa storia non può significare; in alcun modo, mettere ·da parte la tradizione migliore, democratica e nazionale, del Pci, anche se inquinata da doppiezze di vario tipo. Non si può cancellare una parte importante della storia d'Italia. In ogni caso, a un'operazione di questo tipo io non ci starei. Anche perché qualche ragione deve pur esserci per il fatto che il Pci raccolse, nel 1976, il 34% dei voti degli italiani. Detto questo, la proposta di Piero Borghini contiene un elemento di verità su cui io credo sia necessario lavorare. Negli ultimi tempi, i rapI ì -·- - --- -- - --- -- porti fra Pds e Psi sono migliorati. E questo è molto positivo. Ma non bastano un mutamento di clima, pur importante, fra i due partiti e nemmeno accordi (da ricercare) su questioni attualmente in discussione su scala nazionale. Occorrono, a mio parere, due altre cose. La prima potrebbe essere un accordo per una consultazione permanente fra i gruppi del Pds, del Psi e del Psdi in tutti i consigli regionali, nei consigli provinciali e in quelli comunali delle città più importanti. Se fosse possibile concertare una decisione di questo tipo prima delle elezioni sarebbe una cosa assai positiva. La seconda, più politica e più importante, sarebbe una discussione seria fra Pds e Psi per giungere a un orientamento comune sui rapporti con la Dc. A ben riflettere, questo è stato fra i temi principali di divisione fra i due partiti: all'epoca del centro-sinistra, durante il periodo della solidarietà democratica, con il pentapartito. La Dc deve trattare con una sinistra unita: questo mi sembra un problema essenziale. Non escludo la possibilità di governi transitori di grande coalizione, che potrebbero essere necessari se (come è probabile) Pds, Psi, Psdi e altre forze di sinistra non raggiungessero la maggioranza assoluta dei voti. Ma di fronte a questa eventualità, la sinistra deve presentarsi unita. Tutto questo ragionamento mi porta a una conclusione, anzi a un augurio: mi sembra necessario lavorare perché la somma dei voti Pds-Psi superi, nelle prossime elezioni, quelli della Dc.
.i).tJ, BIANCO l.X.ILR~ •ilkliilll Pensioni: Marini così così. A quando la vera riforma? di Massimo Paci D irò subito che nei confronti del Progetto Marini ho sentimenti opposti. Da un lato, mi sono chiari alcuni suoi aspetti positivi non trascurabili. Dall'altro mi è chiara anche la distanza che separa questo progetto da una effettiva riforma del sistema e ritengo che si potrebbe e si dovrebbe fare di più, soprattutto a proposito dei rapporti tra Previdenza e Assistenza. Sugli aspetti positivi dirò poche cose, perché forse - in questo momento - è più interessante concentrarsi su ciò che ci divide e «fa dibattito». Positiva è anzitutto l'intenzione di raggiungere la parificazione normativa tra i vari regimi previdenziali e in particolare tra dipendenti privati e dipendenti pubblici; poi la difesa dei diritti acquisiti e la promessa di non andare ad una riduzione delle prestazioni; per quanto riguarda in particolare le conseguenze dell'ampliamento del periodo base per il calcolo della pensione da 5 a 10anni, mi sembra positiva la promessa del Ministro di mettere a punto un meccanismo efficiente di rivalutazione delle retribuzioni pregresse; più in generale, mi sembra che sia da apprezzare la presa di distanza che il Ministro ha operato rispetto alle posizioni di Carli e della Confindustria e il rifiuto di un'ottica «ragionieristica», secondo cui la riforma diventa solo un mezzo per risanare i conti dello Stato. Ci sono poi due aspetti del progetto che condivido solo parzialmente: l'ampliamento del periodo di riferimento per il calcolo della pensione e l'innalzamento dell'età di pensionamento. Sono d'accordo infatti che si debba agire su questi due fronti, perché si devono aumentare le entrate e non ridurre le uscite del sistema pensionistico. Non sono d'accordo però sulle modalità con cui il Ministro propone di intervenire. Anch'io - come molti - penso che l'innalzamento dell'età di pensionamento debba essere incentivata, lasciando al lavoratore (o alla lavoratrice) di decidere quando andare in pensione. Per quanto riguarda poi l'ampliamento del periodo di riferimento per il calcolo della pensione, ritengo che, se questo deve servire a lottare contro l'evasione contributiva, allora sarebbe meglio ampliarlo a tutta la vita lavorativa (come hanno proposto la Spi-Cgil e il Cnel). Questi due punti sono legati tra loro. Vogliamo veramente convincere i lavoratori a ritardare l'età di pensionamento e contemporaneamente vogliamo eliminare l'evasione contributiva? Ebbene, allora bisogna recuperare un effettivo collegamento tra la contribuzione versata dal lavoratore nel corso della sua vita lavorativa e il livello finale della sua pensione. Oggi questo collegamento è del tutto casuale. Oggi ci sono lavoratori che ottengono più di quello che dovrebbero in base alla loro contribuzione ed altri che ottengono meno. Il lavoratore invece deve poter vedere con chiarezza che c'è un rapporto tra contribuzione e pensione e che questo rapporto è lo stesso per tutte le categorie. Solo ampliando il periodo di riferimento a tutta la vita lavorativa e introducendo un minimo di incentivi per favorire le lunghe carriere contributive, noi possiamo ottenere entrambe le cose: e cioè, da un lato combattere l'evasione e dall'altro incentivare l'innalzamento spontaneo della età di pensionamento. Ma la colpa principale che mi sento di addossare al progetto del Ministro è una colpa di omissione. Mi sembra, cioè, un grave errore la rinuncia ad ogni intervento di riforma sui due terreni più scottanti e forse decisivi: la questione della previdenza integrativa e quella dei rapporti tra previdenza e assistenza (o meglio della revisione del sistema attuale di garanzia del reddito minimo pensionistico per i lavoratori e i cittadini). Su questi due terreni si gioca forse il futuro finanziario del nostro sistema pensionistico. Perché dico questo? Perché è ormai evidente che il finanziamento contributivo, per quanto lo si possa «strizzare», non è più sufficiente. All'in-
~-l.tBIANCO lXILROS.SO Miiiliild terno della ricchezza nazionale - che pure è in crescita - la base contributiva rappresenta una grandezza in diminuzione. È chiaro cioè che in prospettiva sarà decisivo l'apporto finanziario che potrà venire dal risparmio delle famiglie, tramite la previdenza integrativa, e soprattutto dal finanziamento diretto dello Stato a un sistema moderno di garanzia del reddito pensionistico minimo. Rinunciando a questi due punti, il Ministro ha voluto evitare forse uno scontro parlamentare in più, ma ha rinunciato ad una riforma complessiva per accontentarsi di un'opera di semplice riordino e razionalizzazione. A me sembra grave, in particolare, perdere l'occasione di mettere ordine finalmente nei rapporti tra previdenza e ass·stenza. Oggi si è presa consapevolezza, in Italia, come all'estero, della natura strutturale e irrinunciabile del finanziamento dello Stato al sistema pensionistico. Si tratta però di ricondurre questo finanziamento entro un quadro di razionalità ed equità complessiva, mentre oggi esso segue mille rivoli, secondo una logica particolaristica e incrementale. La mia proposta, a questo proposito, è quella della introduzione di una «pensione di base», che potrebbe essere erogata a favore dei cittadini al di sotto di un certo reddito, oppure potrebbe essere data a tutti i cittadini,salvo a rivalersi in sede fiscale su quelli sopra un certo reddito. Questa seconda ipotesi - che configurerebbe una vera e propria «pensione di cittadinanza» - è largamente preferibile. Qui non posso entrare nei dettagli di questa proposta: dirò solo che il suo costo a mio avviso è largamente sopportabile perché si tratterebbe, per una parte importante, di razionalizzare una spesa già esistente. Essa infatti potrebbe assorbire: l'integrazione al minimo, la pensione sociale, quella di invalidità, le relative maggiorazioni e indennità oggi esistenti, ma anche gli sgravi contributivi esistenti per molte categorie, nonché l'assegno al nucleo familiare e la detrazione per il coniuge a carico, per i soggetti al di sopra dei 64 anni. Naturalmente, al di sopra di questo «zoccolo» garantito a tutti, resterebbe la pensione «lavorativa» o «contributiva» attuale, che però secondo quanto ho detto prima - dovrebbe essere fondata su un più stretto rapporto tra contributi versati e livello della pensione. Ciò che salterebbe è il minimo di 15 anni di contribuzione, richiesto oggi per aver diritto alla· pensione, (limite questo assai alto, rispetto a quello c.m.... T...... dte1cwae..•!PeNttllilll QUallriflt!Hel ..... -- .... ,.......- ....... cano che peffiM Mu11..,, ..._ IN.-0 • ""'9 COttll tal.- ne,t, ardlM dll'C).V.U! Non I.> ~ ctw il tote eu•ore. Vwttho Seatlallfli. - ecriao un ...,._ ,l'IMOla ..L'arte d'lfflbrQlliat'e I ....... , E tu,...-. hai .... publalece,o .,_; Mrau....- ... ,_,._ • ... ~Unll.,I ForwPMMlftcllil ..... ., • .....,. ....... ..... peto quel ....... _....., .a YIIHP'I ........ fiB ■III *"• flllia....... , a. ........... ,, ..... • .,.... ........ ,-cca:mew...- ........ n•lderta a .,..._ ,_. fflUlallo, .... Il· 1' .... non Il ...._,, Non lii • t ,..... .. Il e~ -.. t nata le ,.._, ._ et NI .....,._ ... , Sei ,... del CMII ...... '!lzl•J- .... • ParW -"'i ..,,cct11.... ...... .._ ...................... lnll.::al~ . ..-......--- ... -...... , . .... ~~---llmlllllN•ftetllctft•lr I .. flduc:ta ...................... ,., ..... .. OanNldl. ti c. ........... - --- .., ... ... loNlico. Ml ,........ ... lii Mli d ...... .... ......................... .............. , che è dato osservare in altri paesi, come ad esempio la Francia o la Germania). Io sono contrario, dunque, all'idea (che trovo invece nelle stesse tesi congressuali della Cgil) di avere due minimi pensionistici garantiti dallo Stato, uno - più basso - per i cittadini ed uno - più elevato - per i lavoratori. Il mini-. mo finanziato dallo Stato deve essereuguale per tutti. I lavoratori potranno poi aggiungere ad esso la loro pensione contributiva. In definitiva, si tratta di dare maggiore certezza al diritto pensionistico: il lavoratore deve sapere cosa può avere dallo Stato e cosa può ricavare dalla sua vita contributiva. Si deveuscire dalla attuale situazione di dipendenza delle decisioni politico-sindacali prese di volta in volta, dalle concessioni ad hoc, dai minimi oggi aumentati e domani resi più selettivi, dal meccanismo infernale delle pensioni d'annata ... Questo dalla certezza del diritto pensionistico è un obbiettivo fondamentale, soprattutto per una Sinistra moderna e riformista, che non a caso di autodefinisce oggi una Sinistra «dei diritti», una Sinistra, cioè, che fa dei diritti di cittadinanza democratica e sociale la sua bandiera.
ic).tJ. BIANCO \XILR~ Kiikii•lil ProgettoMarini? Con qualchedubbio di Giuliano Cazzola A ncora non conosciamo il destino della riforma delle pensioni. Per ora quello di Marini è un progetto dimezzato: visibile solo «dalla cintola in su»; promosso a luglio nelle sue linee generali e rimandato a settembre per tutto il resto. E l'esame di riparazione viene sempre rinviato. In politica, ogni fase è irripetibile e le decisioni dipendono da tante variabili da rendere assai problematica la corsa contro il tempo di un eventuale disegno di legge già penalizzato da una falsa partenza. Andreotti aveva capito subito che lo scampolo di una legislatura non è la circostanza più favorevole, per osare una riforma in lista d'attesa da oltre un decennio. Così, con la distaccata saggezza di chi domina le cose del mondo, il «grande navigatore» aveva persino scritto nel programma del suo settimo governo che in materia previdenziale si sarebbe fatto assai poco e comunque con tanta cautela. Poi, nel gioco della politica, un'azione di contropiede aveva riaperto le sorti di una partita di cui si attendeva ormai solo il rischio di chiusura, quando Guido Carli si era messo in testa d'inserire nella manovra di maggio alcune misure di contenimento della spesa previdenziale. Dal putiferio che ne era derivato, si uscì restituendo al neo-ministro del Lavoro il più succulento (ed insidioso) dei compiti d'una carriera appena iniziata, ma destinata ad arrivare lontano. Per misteriosi processi biologici, i progetti di riforma finiscono per assomigliare ai ministri che li propongono. Così Marini ha predisposto un progetto non troppo brillante, ma pieno di buon senso e di prudenza. Per onestà, al titolare del Lavoro va riconosciuto un grande merito: l'essersi proposto un disegno di unificazione dei diversi regimi con un'ampiezza mai tentata nella storia delle riforme previdenziali dopo la caduta del piano Scotti. Per un ministro democristiano, ex-Cisl e quindi con ben due gambe piantate nel pubblico impiego, è certamente un approccio importante e coraggioso. Per il resto, Marini ha dovuto mediare tra esigenze opposte: quella delle ormai prossime elezioni, a cui ha fatto fronte con la previsione di un pacchetto di misure che migliorano le attuali normative ed aumentano subito la spesa; quella invece del suo contenimento, sia pure in una prospettiva di decenni, con la promessa dell'invarianza dell'aliquota d'equilibrio, già ora esorbitante rispetto agli standard europei ed Ocse. Avendo attentamente curato di non toccare gli istituti che incidono sui rendimenti delle pensioni, Marini si è trovato a sbattere necessariamente contro l'unica possibilità di «risparmio» che gli era rimasta: l'innalzamento dell'età pensionabile a 65 anni per uomini e donne sia pure con un'accentuata gradualità e con il temperamento di un reticolo di salvaguardie che, combinate con l'immutato diritto alla pensione di anzianità dopo 35 anni di lavoro e con la riconferma del massimo di rendimento dopo 40 anni di contribuzione, finivano per lasciare sostanzialmente inalterati, anche nel futuro, gli attuali limiti di pensionamento per tutti coloro che dispongano di una congrua anzianità di lavoro. La fissazione dell'età pensionabile a 65 anni non era allora una norma ad effetto generale, ma si proponeva solo di rendere più complicato e oneroso uno dei tanti usi impropri del sistema previdenziale italiano: quello di avere facile accesso e di poterne uscire il più presto possibile, magari con una prestazione modesta, ma da erogare per un periodo molto lungo. Inoltre è sempre utile ricordare che su 24 paesi Ocse, 16 hanno l'età pensionabile fissata a 65 anni, 4 a livelli piu alti, 3 a 60 anni, uno, l'Italia, per le donne a 55 anni. Intorno al piano del ministro del Lavoro sembrava essersi raccolto un buon livello di consenso, il quale, quando si tratta di pensioni, si traduce al massimo in una sorta di «non sfiducia». Rimaneva solo la resistenza caparbia, irriducibile della Uil. Marini si apprestava a risolverla nel modo «ragazzino, lasciami lavorare», quando, come un fulmine a ciel sereno, Ghi-
.P.t.L BIANCO l.XILROSSO Mil•liiid no di Tacco, reduce da una sfortunata campagna sulle riforme istituzionali (ed un po' adirato per qualche parola di troppo di Marini), decideva d'iscrivere le pensioni nel trattato d'armistizio con la Dc. Del resto, non si poteva negare un rinvio tecnico ad un alleato di governo ·ritrovato. Marini ha avuto un bel da ricordare di essersi ampiamente ispirato all'opera di ben due ministri del Lavoro socialisti. .. Del resto il vertice socialista non è andato per il sottile neppure nei confronti di Claudio Martelli e del suo tentativo di mediazione di fine luglio. Ma quali sono le proposte dei socialisti? L'incarico d'elaborarle è toccato a Francesco Forte. Ne è uscita una sponsorizzazione dell'innalzamento volontario dell'età pensionabile, prendendo ad esemp·o il caso francese. Sono allora opportune alcune puntualizzazioni. Il Libro bianco dell'ex-primo ministro Rocard cerca di correggere gli errori della riforma del 1982, ispirata dal Mitterrand «prima maniera», quello del programma comune della gauche, quando l'occupazione era divenuta la variabile indipendente dell'economia. In quella logica, si ridusse l'età pensionabile, portandola a 60 anni, e s'introdussero tutte quelle norme che piacciono tanto agli ideologi previdenziali, pensionamento flessibile e progressivo, incentivazione alla prosecuzione volontaria di cui, a consuntivo, ora si riconoscono gli «effetti illusori». Di fronte ad un disavanzo del regime generale assai più contenuto del nostro e pari a 3.600 miliardi di lire nel 1990, di fronte alla minaccia di avere, nel 2005, un'aliquota contributiva a legislazione costante del 23,7 per cento, il governo francese propone degli aggiustamenti. Senza rimettere in discussione l'età pensionabile, (rispetto a noi sono pur sempre 5 anni in più per le donne) s'ipotizza di elevare a 41-42 anni l'anzianità contributiva necessaria per beneficiare del massimo di rendimento della pensione. L'altra modifica riguarda il periodo di riferimento per il calcolo della pensione. Si passerebbe da quello attuale che prende in considerazione il salario medio dei 10 anni più favorevoli, ad un calcolo sulla media dei migliori 25 anni. Ovviamente senza le rivalutazioni della retribuzione pensionabile proposta da Marini. Il piano francese ha una sua coerenza. Si può allora valersene, ma non scegliere solo ciò che ci fa comodo. Bisogna dire alla gente che, oltralpe, continuano a regalare «un pizzico di vita agli anni», ma ridimensionano i rendimenti del sistema. In sostanza, cioè, un'impostazione che sta creando guai ai francesi dopo appena pochi anni dalla sua istituzione, diviene per un partito saldamente insediato al governo, come il Psi, il segno di una (assai dubbia) prospettiva d'innovazione. Pensioni:questa riforma ' e urgente di Francesco Paolo Conte T ' avvenirepiù o meno buono della nostra L comunità nazionale è legato alle nostre capacità di saperci rinnovare, come singoli e come comunità. Per ben operare su questa strada, occorrerebbe che le nostre istituzioni e tutte le nostre attività, di ordine economico e sociale, fossero orientate e, possibilmente conformate, a modelli evolventisisecondo il normale progresso dei paesi più avanzati. Sarebbe più facile, in tal modo, L - --- - - - - - - I I imboccare la strada per armonizzare la nostra organizzazione economico-sociale con quelle delle altre nazioni progredite, con le quali condividiamo responsabilità d'ordine politico ed economico, e per offrire più sicurezza e stabilità democratica al nostro popolo. Purtroppo, considerando quanto avviene oggi nel nostro paese, dobbiamo, con amarezza vera, prendere atto che non siamo capaci di rinnovarci, perché irretiti - non comprendo bene
.{).lL BIANCO l.XILR~ Miiklii•II il perché - in un mare di incomprensioni e di assurde lotte intestine: badiamo più al particolare, alle singolarità, all'orgoglio personale e/o di gruppo, trascurando i problemi generali di ordine economico, politico, tecnico ed amministrativo della nostra società, la quale, pur essendo compresa fra le sette maggiori comunità nazionali più industrializzate del mondo, si trova sul punto di essere riprovata agli esami di maturità politica, sociale e monetaria e finire nella «serie B», cioè fra i paesi che non godono della necessaria stabilità politica, economica e sociale per allinearsi con gli altri più progrediti paesi europei. Ritengo importante questa premessa, per poter affermare che, dopo aver preparato e varato la Costituzione del 1948, non siamo più stati capaci di intraprendere ed adottare quelle modifiche istituzionali e quelle riforme idonee al progresso economico e di civiltà che il paese, con il lavoro dei suoi cittadini, ha conseguito. Fra queste riforme va annoverata quella previdenziale, la quale, pur essendo stata promossa sin dalla fine degli anni Settanta, con proposte che oggi rappresentano ancora quanto di meglio ideato in materia, non ha mai visto il traguardo per una concreta definizione, tranne qualche stralcio in materia di invalidità pensionabile, di prosecuzione volontaria del versamento dei contributi e del ricongiungimento dei periodi assicurativi risultanti nelle diverse gestioni previdenziali che formano il nostro sistema di previdenza nazionale. Sono ormai passati oltre tredici anni (molti di più sarebbero se facessimo riferimento alle proposte Cisl della fine degli anni Cinquanta o a quelle del Cnel del 1963), senza pervenire ad un risultato concreto. Le ragioni per cui la riforma previdenziale non ha fatto progressi sono, a mio avviso, rivendicabili agli ostacoli apposti da parte di coloro che hanno saputo difendere gli intere si delle varie note corporazioni, non sapendo, al contrario, vedere come l'attuale sistema generale di previdenza pubblica, anche se suddiviso in tantissime gestioni, essendo, per sua natura, di carattere solidaristico, non può e non deve assolutamente privilegiare interessi di parte. Il regime «a ripartizione», sul quale è tecnicamente impostata la gestione pensionistica lega, con un rapporto obbligatorio di solidarietà, generazioni diverse fra loro, per cui non è assolutamente possibile - come è stato fatto finora - pensare all'oggi, trascurando l'avvenire dei fondi pensione. I JJ L_ ---- - --- -- - Oggi i pensionati vedono finanziate le gestioni pensionistiche con i contributi che corrispondano gli attuali lavoratori. Per converso, viene da domandarsi come garantire ai lavoratori attuali il loro avvenire di pensionati, quando saranno loro a pesare sui futuri lavoratori. Abbiamo il dovere noi oggi di pensare a tali programmi? Ovvero avvertiamo soltanto la preoccupazione di scaricare sulle generazioni future migliaia di miliardi di lire di debiti, senza predisporre dei presidi atti a garantire il regolare flusso dei mezzi finanziari, attraverso la contribuzione o l'imposizione fiscale, per il pagamento delle prestazioni che non desideriamo appiattite ma corrispondenti alle singole posizioni di lavoro conseguite dai lavoratori all'atto del loro pensionamento? Va peraltro osservato che il regime tecnico della ripartizione, vigente dal 1952, non potrà essere mai più sostituito totalmente. Potrebbe al più essere integrato con il regime della «capitalizzazione», per la gestione di forme di previdenza complementare o integrativa. Rispondere con coerenza ai suddetti interrogativi significa porre immediatamente mano a riforme di struttura e, fra queste, alla riforma previdenziale. Il progetto Marini è una risposta. Se non definitiva e totale, è comunque una risposta, alla quale non si dovrebbero opporre ostacoli. In caso contrario, non solo verrebbe pregiudicata la realizzazione stessa di una qualsiasi riforma, ma anche, come di solito si è verificato, si accumulerebbero nuovi gravami e nuove difficoltà per la gestione futura della previdenza e anche dell'assistenza pubblica. Il progetto Marini è qualificato soprattutto dalla unificazione delle normative di alcuni istituti della previdenza pubblica. Ciò va sottolineato, perché questo processo unificante («regole del gioco uguali per tutti», almeno per alcuni istituti) caratterizza e distingue il progetto Marini rispetto ad altri progetti di recente formulazione. L'unificazione, come è noto, riguarda: l'età di pensionamento a 65 anni, le pensioni di anzianità con 35 anni di contribuzione, il cumulo pensione-retribuzione, il calcolo sulla base degli ultimi 1 O anni di contribuzione della retribuzione utile per la determinazione della misura della pensione, la parificazione dell'aliquota contributiva pensionistica a carico dei lavoratori, la misura della pensione di riversibilità. Le relative norme di unificazione sarebbero attuate, ovviamente, con la dovuta
,P-ll, BIANCO l.XILROSW Mil••il•II gradualità e facendo salvi i diritti acquisiti. Si aggiunga a ciò una ulteriore ipotesi prevista nel progetto: la uniformazione completa delle normative pensionistiche «per tutti i lavoratori dipendenti del settore privato e pubblico nuovi assunti, ossia privi di qualsiasi precedente anzianità assicurativa». Ed è contemporaneamente ·previsto il riordinamento e la uniformazione del sistema contributivo, per conseguirne la ristrutturazione in tre aree: pensionistica, sanitaria e della solidarietà. In particolare, in materia pensionistica si tratterebbe di stabilire una sola aliquota di equilibrio, automaticamente adeguabile, a carico del costo del lavoro, lasciando a carico della fiscalità generale la quota correlabile alla quantità di prestazioni aventi carattere assistenziale. Il progetto prevede anche altre innovazioni, quali: il riscatto di periodi di non occupazione, i contributi figurativi per malattia e infortunio, l'anticipazione dell'età di pensionamento per le attività usuranti, l'aumento del 50per cento del trattamento minimo per coloro che possono far valere 40 anni di contribuzione, l'applicazione della scalamobile al 100per cento dell'aliquota, senza più la distinzione per fasce, un nuovo e più realistico sistema di aggancio delle pensioni alla dinamica dei salari, la flessibilità del pensionamento coniugata con il lavoro a part-time. Un tale progetto, come già detto, non può e non deve esserecontestato, perché alcune norme o istituti non trovano l'assenso di «qualcuno». Già da tempo ho espresso il mio dissenso in materia di innalzamento dell'età di pensionamento a 65 anni, di abbassamento al 50 per cento dell'aliquota di riversibilitàper le pensioni Inps e di cumulo funzione-retribuzione per il riferimento al reddito di coppia. Peraltro parte della cultura sindacale, cui io faccio riferimento, la libertà di scelta dell'età di pensionamento da parte degli assicurati, lasciando a costoro l'opzione per stabilirla a partire dai 60 anni e fino a 65 anni e possibilmente oltre. Dal canto mio, non posso non aggiungereuna seria considerazionerelativamente all'elevamento dell'età di pensionamento, col far osservare come i futuri eventuali risparmi prevedibili farebbero carico soltanto a una parte, ben individuabile di lavoratori, e cioè a quelli, e sono tanti ancora in Italia, che difficilmente raggiungerebbero i 35 anni di contribuzione per il diritto alle pensioni di anzianità prima o al compimento dell'attuftle età di pensionamento - - - - -- - - - - - - 13 (60 anni per gli uomini, 55 anni per le donne). Trattasi, in buona sostanza, dei lavoratori delle zone economicamente deboli (il Mezzogiorno in particolare); mentre i lavoratori di zone economicamente più fiorenti, conseguendo i 35 anni di contribuzione certamente prima dei 60 anni, diverrebbero praticamente titolari di quei diritti di opzione, di scegliersi cioè l'età di pensionamento senza attendere necessariamente il compimento dei 65 anni di età. Questo problema dell'innalzamento dell'età di pensionamento comporterebbe, ovviamente, degli squilibri nella classe lavoratrice e tra i pensionati. Tuttavia tale problema potrebbe trovare soluzione adeguata se si pervenisse a disegnare una prestazione atta a garantire quel minimo vitale ai veri bisognosi di solidarietà, singoli e nuclei familiari, così come è nella filosofia dell' «assegno sociale». Le considerazioni anzidette, in materia di età di pensionamento, però, non possono e non devono ritardare l'avvio di una riforma che, col tempo, verrebbe certamente migliorata sul piano di una più marcata generalizzazionee sul piano solidaristico, perché solidaristico è il suo finanziamento. E ciò non potrebbe essere diversamente per le considerazioni svolte più innanzi.
.{>JL BIANCO lXILROSSO •iikli••II Se non si ponesse mano all'attuazione della riforma pensionistica, almeno secondo le linee del progetto brevemente esaminato, si procurerebbe un danno al nostro sistema economico. Siamo, quindi, del parere che valga la pena tentare di risolvere il problema dell'età di pensionamento sulla base di un accordo che cerchi di mediare le tesi a confronto. Un impopolarismo • necessario di Mario Bertin I I progetto del ministro Marini per la riforma delle pensioni si è incagliato su una questione di non poco conto: quella dell'età pensionabile. Marini ne propone l'elevazione obbligatoria a 65 anni. I socialisti e i sindacati, con gradi di convinzione assai differenti tra loro, sostengono che essa deveesserelasciata all'opzione individuale. Alcuni - Cgil e Cisl - per non buttare a mare la riforma, si dicono disposti a passar sopra alle loro difficoltà e ad accettare l'innovazione del Ministro: altri - il Psi e la Uil - sono invece su posizioni di assoluta intransigenza. Si tratta soltanto di calcoli elettorali? Si sarebbe portati a crederlo, se contro l'elevazione obbligatoria dell'età di pensionamento non esistessero obiezioni serie, che non possano essere archiviate con eccessiva leggerezza e superficialità. L'innalzamento dell'età pensionabile è l'unica misura contenuta nel progetto di Marini che consenta, di qui al 2010, un consistente contenimento della spesa previdenziale, mantenendo le aliquote di equilibrio ai livelli attuali. Se venisse cancellata, tenuto conto dell'impraticabilità di tutte le alternative possibili (elevazione dell'aliquota contributiva e/o aumento del contributo dello Stato), in tempi non lontani si verificherebbeil collasso dell'intero sistema. Di qui l'ostinata determinazione con cui Marini difende la sua proposta. I problemi nascono però quando si va a vedere chi essa penalizza, chi sono cioè coloro sulla pelle dei quali viene realizzato un risparmio di entità così rilevante (secondo i calcoli lnps si tratterebbe, nell'arco di tempo considerato, di circa 154 mila miliardi). Ad esserne penalizzati non sono certamente coloro che hanno la fortuna di compiere una carriera lavorativa regolare perché, al raggiungimento del sessantesimo anno di età, o addirittura prima, essi in elevata percentuale potranno far valere le anzianità di lavoro e di contribuzione richieste per godere del diritto alla pensione di anzianità (35 anni) o al massimo della pensione di vecchiaia (40 anni). Questi lavoratori appartengono ai settori produttivi forti delle regioni settentrionali. Penalizzati sarebbero invece coloro che hanno incominciato a lavorare in età avanzata (dopo i 25 anni) e che hanno lavorato in modo discontinuo o con rapporti precari e irregolari. Sono queste tipologie presenti soprattutto in alcune categorie (edili, braccianti, tessili, ecc.) e nelle aree geografiche meridionali. E cioè nelle fasce più deboli e meno protette della popolazione. Molti dei lavoratori compresi in queste fasce, inoltre, nell'età compresa tra i 60 e i 65 anni si trovano già in una condizione di disoccupazione o di sottoccupazione. Ebbene, è a questi lavoratori che si chiede di posticipare il godimento della pensione anche se la pensione, nell'età considerate, costituisce l'unico reddito di cui potrebbero disporre. L'elevazione dell'età pensionabile ci allinea alla normativa applicata negli altri paesi europei. Ma la particolare situazione del mercato del lavoro in Italia carica il provvedimento di significati e di implicazioni impopolari, per non dire antipopolari. Questi che abbiamo descritto sono i termini del dilemma. Come può scegliere chi pretende ispirare la propria azione a principi di giustizia, di uguaglianza, di solidarietà? Escludiamo il cinismo di chi dice che, non es-
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