discendono direttamente dagli antichi medi, e che sono come tali i portatori più pionieristici di quella «religione dei Magi» che diventò poi zoroastrismo. Il mito e l'epica ricollegano l'etnogenesi curda a un antico movimento di riscossa contro il tiranno Zahhak, un personaggio demoniaco di «stirpe araba» che teneva schiavi i padri di ambedue i popoli, curdi e persiani, i quali effettivamente parlano, al di là della forte frantumazione dialettale, lingue molto vicine. Ma è con l'Islam che la grande complementarità si fa palpabile. Definiti di solito, sbrigativamente, come perlopiù musulmani sunniti, i curdi ospitano invece in sè l'intera gamma dell'esperienza religiosadell'Islam persiano, la quale va dal sunnismo ortodosso al misticismo (sufismo) più sfrenato e alle forme più suggestive dell'esoterismo di matrice gnostica: la fede della «gente della verità» (ahi-i haqq) e quella dei cosiddetti (falsamente) «adoratori di Satana» (yazidz). E ancora: se la forma poetica più genuinamente iranica, più «popolare», della ricchissima letteratura persiana, è quella quartina che diverrà celebre nel mondo intero con la diffusione dei testi di Omar Khayyam, ecco proprio in terra curda il suo rappresentante colto più antico: Baba Taher di Ramadan. Il sufismo travolgeva e superava, un tempo, ogni differenza etnica: una recente antologia italiana di poesia curda è stata pensata proprio allo scopo di far toccare con mano come quello curdo non sia un popolo di guerriglieri analfabeti, ma abbia una sua notevole civiltà letteraria, che è quella stessa dei turchi e dei persiani. La civiltà degli oppressori, sì, ma anche in Europa si parla dì petrarchismo, dì cultura cristiana, di rinascimento e di romanticismo, al di là delle lotte fratricide tra cristiani. Il «petrarchismo» dell'Islam è appunto la poesia mistica, e qui voci curde come quelle di Wafai e di Nali partecipano con pari dignità al grande coro. E si veda poi quanta matura consapevolezza di sè, della propria natura rude e montanara, e al contempo della propria nobiltà e fierezza e cortesia antica, vi sia nella «ballata del peshmarg». Quante bande di guerriglieri, a questo mondo, sanno essere così raffinate, e proprio mentre si preparano all'aggua- {)11. BI.\,( :O l.Xn.nosso iIiikjj4i i ii tiM itii La Giac di Trieste e dell'Istria, allora ancora italiana. to? Il terribile destino del popolo cur- leato turco, che occupa mezza Cipro ma do, a parte i casi sporadici, remoti e recenti, di effimeri principati o «repubbliche», è dovuto al fatto di essersi trovato per secoli, questo popolo, stretto nella morsa delle due grandi compagini, protonazionali ma sempre imperialistiche, rivali, l'ottomana e la persiana. Lo stato di prigionia è lo stato naturale del curdo, come dice Qane, ma anche il suo stato di grazia: e qui la poesia militante è vera e propria sublimazione della poesia mistica, inneggiante alla Devozione Assoluta che non chiede compensazione nè contraccambio. Stato di prigionia che si prolunga e si complica. Da ultimo l'Occidente coloniale e «postcoloniale», quello stesso che ha ingannato gli arabi durante la prima guerra mondiale, promettendo libertà in cambio della cobelligeranza antiottomana, li ha poi ripagati della loro condizione di vittime, quegli arabi (è metodo efficace e ben collaudato), associandoli alla funzione di carcerieri già riservata a ottomani e a persiani. E sì che l'Occidente ha recentemente dimostrato come a un Iraq troppo prepotente si possa benissimo far sentire ragione, quando si tratti di liberare pozzi di petrolio illegittimamente occupati! Ce li avrebbe anche il Curdistan, i suoi pozzi illegittimamente occupati, perché il petrolio iracheno è poi curdo: più curdo il petrolio del nord, certamente, di quanto sia di uno sceicco qualunque il petrolio del sud. Ma il punto è proprio questo, e peggiora le cose: come può permettersi, l'Occidente, di imporre al prezioso alcontribuisce a liberare il Kuwait, un vicino liberato, autonomo, e per di più fornito di petrolio.? Per i turchi i curdi, oggi, non esistono, come i poeti e i musicisti ebrei non esistevano per i nazisti, oppure, per chi preferisce un'altra formula, sono solo «turchi di montagna», anonimi, com'era anonimo, sempre in età nazista, un Heine. Quanto ai persiani, meno truci e più morbidi, essi sono un po' come i francesi quaggiù da noi: gli «altri» sono sempre riconosciuti nella loro identità culturale, ma per sentirsi offrire il diritto di essere assimilati, da pari fra pari, nella grandeur di tipo imperiale, sia quella neoachemenide dei Pahlavi, sia quella neoislamica di Khomeini. Proprio l'Iraq, in fondo, e la sua popolazione quasi altrettanto bastonata, se non altrettanto derelitta, potrebbero afferrare l'occasione di una nuova fruttuosa fratellanza. Saggio, e soprattutto meno irrealistico, sarebbe che, pure là, anche e anzitutto gli interessati puntassero piuttosto su prospettive federali che non su contrapposizioni tribali. Comunque resta un fatto che, nel mondo attuale, un bisogno di liberazione più disperato e più urgente di quello curdo non si dà; e che la responsabilità principale resta, come sempre, quella dell'Occidente, il cui intenerimento dinanzi al caso nazionale altrui di turno, più o meno lamentevole e lamentoso, tende purtroppo a tradursi in azione politica solo quando siano in ballo interessi suoi, o quando, quanto meno, non vi siano veri rischi da correre, o equilibri troppo dedicati da non sconvolgere.
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