Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 20 - settembre 1991

cioè una concezione dei lavoratori come esecutori silenziosi e interamente passivi nei confronti delle decisioni di chi dirigeva l'attività aziendale - proponeva anche un'altra utopia: quella di considerare l'impresa come soggetto autonomo dalle parti sociali che vi operano (lavoro direttivo e lavoro subordinato), e quindi come possibile terreno di cooperazione per il perseguimento di alcuni fini comuni. A distanza di trent'anni quest'utopia diventa un argomento di discussione a livello sociale (in particolare per i diritti comuni a livello europeo e per le nuove funzioni del sindacato, sul piano generale e aziendale). Infatti a livello di società industriali si discute sul ruolo del contrattualismo, che in anni di scontri e di lotte ha consentito di dare cittadinanza e dignità ai lavoratori sul posto di lavoro e nella società. Oggi siamo di fronte a una fase nuova, neo-industriale, che tende a modificare le stesse basi culturali dell'insediamento sindacale. Il contrattualismo tradizionale era attento a definire gli spazi di autonomia e libertà del sindacato; ed era attento a cogliere e sfruttare le convenienze settoriali e aziendali per inserirvi la contrattazione collettiva. Oggi (con tutte le cautele dettate dalla necessità di ricerca e sperimentazione) siamo nella necessità di dover riconsiderare i vincoli solidaristici (un tempo simboleggiati dalla scala mobile intercategoriale, dall'inquadramento unico categoriale), poiché c'è il rischio di una pesante frantumazione delle condizioni reali dei lavoratori (come hanno dimostrato gli ultimi contratti nell'area pubblica e nel privato). Dunque bisogna riformare, correggere, fare passi avanti... ma come? La tesi su cui oggi si è iniziato a discutere in varie sedi (da quelle congressuali del sindacato a quelle delle relazioni aziendali) è di «passare dall'antagonismo alla corresponsabilità» e quindi di operare come un «sindacato più responsabile», ma anche con una responsabilità congiunta (almeno su alcuni terreni) fra imprenditore e lavoratori; quindi con una cooperazione anche fra le parti sociali. Queste idee, che sono l'alternativa o il superamento dell'alienazione dell'uomo lavoratore, appaiono centrali nell'esposizione della lettera papale. Non mi .illl-BI \\(:O '-Xli.BOSSO •U•#Olii All'altare della Patria. pare che siano la trasposizione del modello «Solidarnosc» nel pensiero sociale di Giovanni Paolo II: il sindacato polacco, che pure è stato il motore primo e determinante della caduta dei socialismi dell'Est europeo, è stato un movimento antagonista allo Stato, che riassumeva le funzioni di governo e di datore di lavoro. La collocazione attuale della discussione nelle economie più avanzate è prevalen temente sul terreno dell'organizzazione di tipo occidentale, ossia capitalistica e gli interventi (o le correzioni) che vengono fatte proprie e sostenute dall'Enciclica si riferiscono a questi tre aspetti; tesi a riscattare il lavoro della sua funzione puramente servile ma anche a promuovere una concezione personalistica del lavoro: 1) le macchine e i beni strumentali sono fattori necessari ma non più decisivi, come in passato, per la produzione; chi è indispensabile e decisivo oggi è l'uomo, che non può essere spersonalizzato nelle sue conoscenze e nelle sue capacità se si vuole utilizzare appieno la risorsa umana come essenziale per lo sviluppo (lbid., n. 32); 2) un maggiore coinvolgimento dei lavoratori intorno agli obiettivi generali e specifici del proprio lavoro (n. 43); 3) il coinvogimento dei lavoratori deve riguardare sia la dimensione individuale che collettiva; quindi occorre ricercare e accrescere le occasioni, le opportunità, le possibilità di partecipazione alle scelte (n. 43). Questa è l'idea che vorrebbe dare un'evoluzione positiva e graduale al lungo processo di superamento degli antagonismi ideologici e dello sfruttamento esasperato delle energie umane. Il dibattito nel movimento operaio e in quello sindacale sulla via partecipativa non è stato e non è facile: è stato troppo spesso dominato dal· ritegno e dall'imbarazzo di fronte ai terni delle reponsabilità economiche, e quindi della divisione sociale del potere. Se occorre superare gli storici steccati che presupponevano un conflitto permanente (definito di classe o di sistema), e se l'impresa deve diventare realtà di possibile cooperazione, i poteri in essa esercitati vanno riequilibrati; ma è indubbio che anche il sindacato e le sue rappresentanze vanno riposizionati nei confronti di alcuni aspetti del funzionamento delle aziende. In passato, nel pensiero della sinistra si è arrivati a una abrogazione ideologica dell'opportunità partecipativa (ed anche oggi c'è chi sostiene l'impossibilità di uno spazio per un «bene comune» in quanto l'impresa non è riformabile nella divisione sociale del lavoro). Seguendo lo stimolo dell'Enciclica non solo alla mobilitazione dell'agire associato, ma anche al ricorso alla lotta nell'ambito della società civile, credo occorra superare quel senso di inferiorità che proviamo rispetto a un inserimento graduale dei lavoratori nelle istituzioni dell'economia capitalistica, per realizzare appunto quei nuovi equilibri nelle decisioni e nell'orientamento dell'economia: in particolare impedire la separazione dell'umanità garantita dal benessere da quell'umanità emarginata che lotta innanzitutto per la propria sopravvivenza. Questa nuova funzione del lavoro, e il nuovo rapporto con la persona e con l'insieme dei lavoratori, presenti nella sintesi cattolico-sociale dell'Enciclica (ma insufficientemente colti dalla cultura della sinistra) possono oggi dare un impulso nuovo, educativo culturale e strategico, e dunque un senso di marcia allo sviluppo dell'azione sindacale, e quindi anche alla funzione dell'associazionismo e della solidarietà.

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