Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 20 - settembre 1991

itl-l•• m \'.\(:o '-Xli. nosso ■ it•#§•IA Per la riforma dell'impresa capitalistica Non possiamo isolare l'ultima Enciclica di Giovanni Paolo li sulla questione sociale dalle occasioni diverse maturate lungo i decenni di questo secolo, in cui il pensiero sociale della Chiesa è venuto aggiornandosi e ponendo problemi di prospettiva alla riflessione dei cattolici e non. Quindi esiste un filone di sviluppo di questo pensiero, che prendendo in considerazione i cambiamenti economici e sociali del quadro storico ha colto le novità su cui si deve soffermare l'approfondimento e l'impegno di tutti gli uomini di buona volontà: in particolare di coloro che operano attraverso il capitale d'impresa, dei lavoratori associati nelle loro organizzazioni sindacali, e dei politici che disciplinano la realtà attraverso le istituzioni e le leggi. Non sempre l'invito e l'indirizzo sul sociale si è espresso attraverso le encicliche. Ci sono momenti specifici che hanno sollecitato l'attenzione dello stesso papa, tanto che il rapporto umano ed etico-culturale con i problemi del lavoro appare ormai come uno dei tratti caratteristici del pontificato di K. Wojtyla. Certamente le visite sviluppate in questi anni a ben note realtà del lavoro in varie città italiane (a partire dagli impianti Solvay a Rosignano, che si c0~legavano a un suo lavoro giovanile di operaio in Polonia) hanno offerto occasioni per afferrare i tratti oggi problemat 1c1 del lavoro dipendente: dall'ambiente e sicurezza sul lavoro, alla pari dignità fra uomini e donne, alla necessità di governare le tecnologie con criteri di solidarietà ... Vorrei citare ad esemplificazione l'allocuzione papale, pronunciata ad Ivrea il 19 marzo 1990, a proposito del lavoro festivo, rivendicando, anche sul piano economico e sociale, la fermata dell'attività lavorativa e la socializzazione della giornata festiva con la famiglia di Giovanni Avonto e con il resto della comunità con cui si è in rapporto di vita. Cioè un bisogno vitale per tutti, oltre che una necessità spirituale per i credenti. Bene, un dibattito vivace intorno a questo argomento era in atto nel sindacato piemontese, tra gli stessi Vescovi e fra i lavoratori coinvolti dall'esigenza imprenditoriale di competere con i calendari lavorativi di sette giorni settimanali e per 350 giorni annuali nei paesi di decentramento industriale situati nel Terzo Mondo. Queste premure e queste premesse penso siano una prima spiegazione ai consensi che la «Centesimus Annus» ha subito riscosso negli ambienti sociali e sindacali. Ma c'è forse anche un'altra spiegazione, che vista al di sopra di ogni passionalità laica o religiosa, fa guardare alla Chiesa e alle sue manifestazioni più aperte come all'unica forza morale e culturale oggi in grado di presentare una speranza, per noi e per quelli che verranno, e di illuminare sui segni positivi di un progresso sempre più accelerato e turbolento, ed anche sempre più discriminante nei confronti di chi rimane indietro. Qui si innesta uno dei movimenti di opinione critica all'interventismo papale, ed anche alla lucidità delle sue posizioni sociali: c'è il timore di una egemona papale sugli anni duemila. Ma la verità è che il mondo laico registravoci sempre più flebili che esercitino la loro critica allo sviluppo economico, tecnologico e sociale e non siano completamente plagiate dagli assiomi liberalistici, tanto più dopo la fine dei socialismi reali. La posizione interessante di Giovanni Paolo II è che di fronte a estremizzazioni storicamente sperimentate nello sviluppo dell'umanità (e cioè da un lato il dominio assoluto del mercato e dall'altro il dominio assoluto dello Stato), egli pensa al tema del lavoro come al- : 67 l'elemento centrale dello sviluppo personale e collettivo, e quindi come al punto di attacco per una proposta di correzione e di riequilibrio dei poteri nell'impresa e nella società. Proprio su questo punto, anziché venire al seguito delle esperienze sviluppate dal socialismo e dalle società operaie e quindi recuperando i ritardi come fece la «Rerum Novarum», la nuova Enciclica appare ant1c1patrice e sollecitatrice di molte «res novae», in particolare quella della partecipazione dei lavoratori alle decisioni in tema di lavoro, relazioni industriali ed economiche. Infatti mentre cent'anni fa la posizione dottrinale della Chiesa era prevalentemente difensiva sulla «questione operaia», oggi accanto al ruolo del lavoro anche quello dell'imprenditorialità assume un nuovo connotato. Naturalmente per il documento papale il terreno imprenditoriale è quello di un'economia della responsabilità (non semplicemente dell'ultilitarismo e del consumismo); ma la responsabilità implica un rapporto di partecipazione diretta, personale: e la partecipazione deve esplicarsi come funzione di servizio solidale (economico e sociale) attraverso lo strumento dell'impresa intesa come opera comune e bene sociale collettivo. Questa posizione, che è diventata tradizionale nella cultura cattolica, ha illustri anticipazioni. Per esempio proprio Giovanni XXIII nella «Mater et Magistra» n. 79) introduce così il tema: «L'esercizio della responsabilità da parte dei lavoratori negli organismi produttivi, mentre risponde alle esigenze legittime insite nella natura umana, è pure in armonia con l'evolversi storico in campo economico-sociale-politico». Questa posizione presentata in un'epoca di taylorismo e fordismo imperanti nell'organizzazione del lavoro (1961), -

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