Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 20 - settembre 1991

~li, Bl\:'\CO lXII.HOSSO 11 t 1 ihld Anche il Papa spinge verso una autentica modernità e redo che a proposito dell'Enciclica «Centesimus Annus» di Giovanni Paolo II, ma anche, sia pure forse in minor misura, delle altre precedenti encicliche «sociali» «Laborem exercens (1981) e «Sollicitudo rei socialis» (1987), vada sottolineata un'importante novità di carattere metodologico. Una novità di metodo e di linguaggio, che poi finisce per essere di non poco conto. Anzi essenziale e determinante anche per le conseguenze di analisi che ne derivano. Mi riferisco al fatto che gradualmente, a partire dal periodo post Concilio Ecumenico Vaticano II, l'insegnamento della Chiesa e quello del Pontefice romano in particolare si va presentando su argomenti non strettamente di fede in modo decisamente meno aprioristico e dogmatico rispetto al passato magistero. Inoltre in modo meno deduttivo e più storico, meno dottrinale e normativo; spesso con un invito al cambiamento delle strutture oltre che a quello delle persone; più di recente - come nella«Centesimus Annus» in modo specifico - con un diverso approccio ai sistemi sociali, che porta a capirne le logiche (anche quelle perverse), per orientarli in senso più umano. Questa lenta, ma significativa evoluzione - un «segno dei tempi» avrebbe detto Giovanni XXIII - penso che sia stata possibile grazie anche alla ricca e complessa conoscenza oltre ovviamente che teologica anche filosofica e sociopolitica dell'attuale Pontefice, basata sulla sua peculiare e sofferta esperienza polacca e su un non sottovalutabile contatto diretto e personale con realtà diverse. Non a caso è stato notato che Wojtyla, durante il suo pontificato, ha fatto più viaggi e visite di stato in paesi lontani di qualsiasi altro capo di stato. In generale quindi concordo con chi, come Mario Deaglio, afferma (La di Carlo Ciliberto Stampa, 5 maggio 1991) che «va dato atto a Giovanni Paolo II di essere uno dei pochi, se non l'unico leader mondiale, ad avere ona visione a tutto campo dei problemi dell'umanità. Egli ha legato in un discorso coerente questioni apparentemente disparate quali l'ambiente e i debiti del Terzo Mondo, la droga e gli equilibri internazionali, l'organizzazione delle imprese e il diritto alla vita. Si potrà quindi dissentire dalla sua impostazione ma non certo negare l'ampiezza della sua visione». Ripeto: è questa l'impressione che complessivamente si riceve ad una prima lettura della «Centesimus Annus». Tuttavia ad una rilettura permane l'impressione che una scontata presenza del1' ecclesiocentrismo sia legata anche ad un eccessivo eurocentrismo. Talvolta cioè sembra che il luogo di osservazione della storia in cui si colloca l'Enciclica sia quello di una Chiesa inserita nell'Europa occidentale e capitalista da dove ha condotto una battaglia vittoriosa contro il comunismo. E da questa prospettiva, insieme con considerazioni valide, legittime e indiscutibili, deriva anche qualche conseguenza, a mio parere, un po' forzata o quanto meno generica. Come la valutazione del capitalismo dell'Europa occidentale separata da quella del Terzo Mondo, che porta poi ad un'analisi del sottosviluppo dello stesso Terzo Mondo semplicemente in termini di ritardi tecnologici e scientifici, senza nessun riferimento alle responsabilità del mondo ricco nella genesi di quella povertà. Detto questo, si deve riconoscere che nell'Enciclica - e ciò mi sembra molto importante, se si pensa allo spirito che permeava, in passato, documenti come il «Sillabo» - c'è comunque una significativa riconciliazione con la cultura occidentale, o almeno una piena sua presa d'atto. Basta guardare - come ha fatto Giuseppe De Rita (Corriere della Sera, 3 maggio 1991)- a come si parla di Stato di diritto e di divisione dei poteri; a come si parla di democrazia («La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche»); a come si parla di libertà («La Chiesa ha come suo metodo la libertà»); del mercato e dei suoi meccanismi, dell'impresa e dello stesso profitto («Quando un'azienda produce profitto ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente soddisfatti»). È chiaro che davanti a riflessioni simili di Giovanni Paolo II - basate su una visione della società in cui, coerentemente con la sua concezione antropologica oltre che teologica, deve prevalere l'uomo, la sua libertà, il soddisfacimento dei suoi bisogni - non è stato difficile a qualche commentatore leggere a tratti nell'Enciclica «Centesimus Annus» accenni riformistici ben inquadrabili nell'esperienza delle moderne socialdemocrazie occidentali. E non poteva essere diversamente quando alla base di ogni considerazione si pone quell'«umanesimo integrale», di cui già parlava Maritain, a prescindere se il punto di partenza si possa inquadrare in una visione antropocentrica o teocentrica. Di conseguenza i preoccupati riferimenti negativi al «socialismo» presenti nell'enciclica vanno intesi in riferimento al «socialismo reale», cioè al comunismo, le cui caratteristiche storiche, politiche e filosofiche sono lontane dal riformismo dei partiti socialisti italiani ed europei. «La "Centesimus Annus" - ha giustamente affermato Lucio Colletti (Avanti!, 4 maggio 1991) - parla di un socialismo a fondamento marxistico che prevede la statizzazione dei mezzi di

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