~l•· m \:\(:t) \Xli. HOSSO Ut•AAhlA Un passo positivo, ma la Chiesa sia davvero aperta D al punto di vista formale, a confronto con l'Enciclica di Papa Pecci di cui intende celebrare il centenario, la «Centesimus Annus» è deludente. Dov'è finito il bel latino sonante della «Rerum Novarum»? Dov'è quella prosa piena e mobile a un tempo, straordinaria nelle sue movenze ciceroniane e nel sapiente uso del relativo e delle proposizioni dipendenti da dipendente, complessa eppur nitida nel disegno, tanto da richiamare la volta nell'arco classico, costruito a secco senza sbavature, e l'elegante, essenziale geometria del quadrato campanile delle antiche basiliche romaniche? Ahimé: i latinisti della Curia, forse in tutt'altre faccende affaccendati, sono ormai restii ai severi studi della classicità da cui pur discendono. E il Papa stesso, del resto, conteso dai molteplici impegni pratici e di natura logistica, passando da un aereo all'altro e sottoponenedosi volenteroso - quasi a novello cilicio - alla logica crudele del mezzo televisivo, così onnivoro e pronto a trasformarsi da mezzo in fine, non è forse in grado o non gode dell'agio necessario per la politura di un testo, pur così importante. Altro è il discorso da svolgere quando si passi invece a considerare i contenuti specifici della «Centesimus Annus». Anche un esame preliminare e cursorio come il presente non potrà non mettere nel dovuto risalto alcuni aspetti positivi dell'Enciclica. In primo luogo, va sottolineata la forte affermazione di Giovanni Paolo II là dove il fallimento storico e quindi la fine del comunismo realizzato e del socialismo detto «reale» non sono scambiati necessariamente per il trionfo del capitalismo. Nello stesso tempo, appaiono meritoriamente mitigati i toni trionfalistici delle prime fasi del crollo dei regimi a ispirazione marxistica. Non è più Dio che ha vinto e che torna sugli scudi all'Est. Il di Franco Ferrarotti patriottismo oltranzista polacco è lodevolmente tenuto a freno e il fenomeno certamente grandioso della fine d'un impero di oltre settant'anni viene opportunamente interpretato all'interno di più ampie coordinate politiche e ideali. In secondo luogo, la concezione del profitto appare più matura. Il profitto capitalistico viene ammesso, ma nello stesso tempo esso è sottratto all'angusta concezione puramente contabile o ragionieristica cui tutto va subordinato. Si riconosce, invece, che il profitto è certamente l'indice più significativo della gestione razionale di una data impresa, ma inoltre che esso va inteso, al di là della singola azienda per l'anno solare in corso, in termini e in vista dell'equilibrio del sistema sociale complessivo. In altre parole, vi sono aspetti sociali e propriamente «umani» della vita aziendale che non possono essere subordinati per principio all'indice di profitto. In un mio vecchio libro (cfr. La protesta operaia, Edizioni di Comunità, Milano, 1955), prospettavo la complessa realtà dell'azienda capitalistica - ma anche collettivistica o a regime pubblico o misto - come una compagine che si poteva considerare sotto un triplice profilo: a) come realtà giuridica; b) come realtà tecnica o sistema di macchine; c) infine, come comunità di fabbrica, o realtà umana di rapporti interpersonali che non si potevano esaurire in un organigramma ufficiale di tipo burocratico-formale. Tutto il capitolo Quarto dell'Enciclica è, da questo punto di vista, assai significativo, e su di esso bisognerà tornare. Le affermazioni papali sono al riguardo molto esplicite, benché si limitino di necessità a pure asserzioni di dottrina. Nel momento stesso in cui profitto e mercato sono riconosciuti come variabili importanti d'una società moderna e, allo stato delle cose, vincenti, il Papa afferma che il mercato ~ le sue leggi valgono solo «per quei bisogni che sono "solvibili", che dispongono di un potere d'acquisto, e per quelle risorse che sono "vendibili", in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato». Siamo al punto cruciale «Esiste un qualcosa che è dovuto all'uomo perché è uomo» ... Questo qualcosa dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo al bene comune dell'umanità» (corsivo nel testo). La conseguenza logica da questa posizione è tratta in modo lineare: «Scopo dell'impresa ... non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità di uomini... Il profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell'impresa» (corsivo nel testo). John Maynard Keynes risponderebbe a questo punto che, «nel lungo periodo», saremo tutti morti. Ma al di là delle più o meno brillanti ritorsioni polemiche, c'è qui da domandarsi se siamo ancora nel capitalismo, e la risposta dovrà essere probabilmente negativa, e allora ci si chiede quale sia il significato e, più ancora, il meccanismo operativo e funzionale specifico, di questo post-capitalismo. Sta di fatto che le imprese redigono bilanci secondo l'anno solare e non nel lungo periodo, che le riserve accantonate non sono inesauribili. La questione si complica poi se uno prende sul serio la critica del consumismo, che nel testo papale segue poco più avanti. A parte il fatto accertato che sono sempre pronti a criticare il consumismo coloro che
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