1h1#W1MA Una Enciclica confusa, demagogica e poco spirituale U na valutazione, anche sintetica dell'Enciclica Centesimus Annus non può prescindere da due considerazioni preliminari cui non deve sottrarsi chi guarda con attenzione alla religiosità nella società moderna. E cioè: 1) negli interventi della Chiesa e per essa del Pontefice regnante, in particolare in quelli riguardanti tematiche di ordine sociale - matrimonio, sesso, impresa, lavoro - le categorie «umanistiche» prevalgono ormai rispetto ad un messaggio pastorale capace di portare in primo piano i valori della spiritualità. Si indulge invece alle prescrizioni, talvolta così particolareggiate da costituire vere e proprie «ricette» di ordine tecnico (v. discorso del Papa sul modello economico delle Marche, con relativa esaltazione del sistema della «fabbrica diffusa»). 2) la Chiesa sembra manifestare con questo comportamento in cui l'«apparire» prevale sull' «essere», un suo insopprimi bile disagio o almeno un atteggiamento contraddittorio, verso la società industriale, quasi che il suo affermarsi, con il conseguente processo di secolarizzazione, la renda meno convinta del primato dello Spirito sul peso della carne, per cui, ingigantendo l'errore che fu compiuto quando vennero definite le coordinate del Concilio Vaticano II, cerchi di recuperare «presenza» e, soprattutto, consenso, accentuando gli interventi sulle problematiche di ordine sociale e di «etica umanistica», caricandola per converso di una carica impositiva di vago sapore fondamentalistico, surrogatoria in qualche modo dell'affievolito imperativo spirituale. L'enciclica sociale nel centenario della Rerum Novarum propone e rafforza questi interrogativi, anche per il modo in cui risulta impostata e per gli evidenti squilibri di argomentazione e di codi Felice Mortillaro strµzione dommatica di cui essa soffre e che lasciano intravvedere un lavoro a più mani (o di una sola mano, guidata da una intelligenza per così dire «stratificata») in cui l'estensore della prima parte molto rigoroso nella ricostruzione storica delle condizioni sociali ed economiche in cui maturò la Rerum Novarum (Capo I, «Tratti e caratteristiche dalla Rerum Novarum»), cede il passo ad un altro (Cap. II, «Verso le cose nuove di oggi») meno attento che, mentre ammette seppure obtorto collo, che lo sviluppo economico del XX secolo ha consentito la realizzazione dei postulati riformisti della Rerum Novarum, ne assegna il merito principale al movimento operaio (sic) e non si perita di usare il concetto di «ideologia» secondo l'accezione corrente che fu in origine di Napoleone contro Destutt de Tracy, fatta propria da Marx e da i suoi epigoni, a fini meramente polemici; per concludere con un terzo (Cap. V, «Stato e cultura») che mette a sua volta in luce qualità di indagine assai convincenti ed imposta una critica puntuale allo «stato sociale» degenerato in «stato assistenziale», e delinea i limiti dell'intervento pubblico nell'economia, secondo il principio della sussidiarietà o supplenza, riconoscendo alla persona il diritto all'iniziativa che non deve trovare ostacoli nel comportamento interventistico dello Stato, deputato semmai a favorire le attività economiche solo quando, ed in via eccezionale, esse non abbiamo forza sufficiente per svilupparsi. C'è da osservare come il primo e il quinto capitolo abbiano incontrato scarsa udienza dei mezzi di informazione per i quali era sicuramente più agevole seguire gli orecchiabili motivi della parte centrale dell'Enciclica, che hanno finito per sovrastare gli altri con effetti distorcenti anche rispetto alle finalità che il documento si proponeva. Invero, a differenza del primo e del quinto capitolo, la parte centrale della Centesimus Annus non si discosta dalla tradizionale posizione compromissoria della Chiesa in materia di rapporti sociali, posizione già ben definita a partire dalla stessa Rerum Novarum, cui fecero seguito negli anni del cinquantenario e delle decadi successive, la Quadragesimo Anno di Pio XI, il radiomessaggio del 1941 di Pio XII, fino alla lettera apostolica Octogesima adveniens di Paolo VI al presidente di Pax et lustitia, cardinale Roj. Certo anche nella CentesimusAnnus non mancano le affermazioni curiose (di qui il dubbio di una redazione «collettiva»), cui le encicliche sociali di Papa Wojtyla ci hanno abituato, alcune delle quali sembrano voler fare concorrenza all'apologeta del conte de la Palice, quale la «scoperta» che il libero mercato è uno strumento efficiente solo per i beni «vendibili», per cui i bisogni umani che non hanno accesso al mercato, non essendo appunto «vendibili», devono essere soddisfatti secondo giustizia o l'utilizzazione di veri e propri luoghi comuni della critica storica, come il richiamo all'esasperazione nazionalista quale causa delle guerre del XX secolo, a fianco di arcaismi del lessico politico di cui ormai soltanto l'Anpi mantiene la riserva d'uso, come il «campo di impegno e di lotta» che si aprirebbe alle organizzazioni dei lavoratori per la «società del lavoro libero, dell'impresa e della partecipazione» - contrapposta ad un immaginario sistema economico di assoluta prevalenza del capitale - e che ricorda per assonanza, e non solo, il «partito di governo e di lotta» di berlingueriana memoria. Incidenter tantum, Solidarnosc, cui il Papa guarderebbe quale modello sindacale, non c'entra per nulla in questo caso: semmai è la concezione funzionale del
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