Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 20 - settembre 1991

.Qll, Hl.\\(:O \.Xli, HOS..~) iii•lil•h piano fiscale, i sindacalisti fermi alla lotta di classe vedranno sempre in essa una trappola, i politici e i governanti legati alle lobbies ne paventano la funzione di diga al loro strapotere. Tireranno forsennatamente calcioni contro la sua affermazione. Ma se gli imprenditori, i sindacalisti, i politici - che hanno una sincera visione europea dell'avvenire della nostra economia e della nostra società - scelgono di ricercare vie pragmatiche ma strategiche per dare corpo alla politica dei redditi, possono farcela. Certo, essi devono osare di più degli altri; devono scegliere di innovare nelle regole del gioco. Almeno su due fronti. Quello della politica fiscale. Questo è il tempo in cui la priorità va data all'equità fiscale. Forse c'è anche un problema di consumi, ma l'uso della manovra sull'Iva è parziale. Ciò che conta è ridurre il bacino dell'evasione e dell'elusione fiscali. Dire che quanto paga di tasse un lavoratore medio è il limite minimo per tutti i lavoratori autonomi e le imprese rappresenta una misura di svolta nella politica fiscale. Non si capisce perché gli imprenditori onesti e i politici non corrotti non dovrebbero trovare questa svolta ragionevole e possibile. Quello della politica contrattuale. Se ci si mette d'accordo su come concretamente la contrattazione è possibile, diffusa, esigibile e produttrice certa di risultati, anche la questione della definizione di un salario indicizzato e della sua sopravvivenza a tempo determinato o meno è stemperata e risolvibile. E non si capisce perché gli imprenditori non imbroglioni, i sindacalisti lungimiranti e i politici non opportunisti non dovrebbero cooperare perché questo scoglio sia superato. Le ragioni dell'ottimismo sono esplicite. Ma anche, mi sembra, realistiche. Rabbrividisco all'idea che esse vengano smentite dai fatti. Vorrebbe dire che il riformismo nel nostro Paese non riesce ad assumere neanche le sobrie vesti della politica dei redditi. Figurarsi se può ambire a dare un volto nuovo alle istituzioni. Ma soprattutto vorrebbe dire che veramente l'unica strada percorribile è quella di «tirare a campare». Chi si accontenta gode, ma non credo che sia un godimento che si possa generalizzare e considerare elettrizzante. Sanità italiana: «rapporto» sullo sfascio disumano di Guido Cimatti O spedali come caserme. È questo il titolo più ricorrente con cui i giornali hanno commentato la presentazione dei primi dati del Rapporto sullo stato dei diritti dei cittadini nel servizio sanitario nazionale avvenuta alcune settimane fa al Convegno internazionale che ha concluso a Roma la celebrazione del decennale del Tribunale per i diritti del malato. Sono dati impietosi: un ricoverato su quattro è costretto a spogliarsi davanti agli altri malati e a rinunciare alla sua privacy; tre pazienti su dieci sono ignorati da medici e da infermi eri che non Ii informano neppure sulle terapie; quattro malati su dieci devono ricorrere alle cure 3(1 di «badanti a pagamento» perché in corsia non c'è personale sufficiente. In media solo in trenta ospedali su cento c'è un gabinetto ogni quattro degenti. Negli altri settanta casi i gabinetti sono uno ogni quindici ricoverati e quarantuno volte su cento non hanno né la vasca né la doccia né il bidet: le porte, per finire, sono prive di chiave e di segnale libero occupato. AI 250Jodei malati il cibo arriva freddo e mentre in centoquaranta divisioni sono stati scoperti letti con lenzuola lacerate, in sedici mancavano le coperte e in centosessantanove queste erano troppo piccole o in cattive condizioni. Per quanto riguarda l'informazione l'ospe

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