..P.tJ, Bl.\~:o l_XII, H()S.~) iii•lil•li solito, gli atteggiamenti possono essere alternativamente o volti a spegnere il fuoco affrontando la situazione o tesi a scappare il più lontano possibile. Non sto a dilungarmi sugli atteggiamenti partitici e non (quelli concreti, quelli che contano, non quelli che appaiono) circa le riforme istituzionali. È chiaro che non è bastato un referendum a scuotere i partiti ed indurli a produrre innovazione. Forse si aspetta che il voto per le prossime elezioni politiche nazionali rappresenti il vero test per darsi da fare; speriamo che quest'attesa non sia troppo onerosa. Quanto, invece, alle forze sociali ed economiche, le ragioni dello stallo vanno ricercate in logiche, abitudini e posizioni di potere ormai incompatibili con il livello di sviluppo raggiunto e con i vincoli che l'Europa ci impone. Nella discussione fatta in varie sedi ministeriali e poi presso la Presidenza del Consiglio lo spartiacque è stato evidente: da una parte chi ritiene che non vadano messe in discussione le varie sfere di competenza; più o meno il ragionamento che fanno costoro è: il governo faccia la propria parte, e la facciano il Parlamento, il sindacato, le associazioni imprenditoriali; ciascuna di queste può e forse deve (ma questo è il massimo delle concessioni accordabili) tener conto delle opinioni, delle scelte o degli atteggiamenti delle altre, ma sempre in una logica di autonomia. Quest'impostazione non è estranea alla cultura delle forze sociali ed economiche italiane e nessuno, guardando al passato, può dire che non abbia avuto un peso decisivo e spesso positivo, nelle vicende nostrane. Si tratta di una cultura «liberal» nel senso migliore del termine che non può essere certamente demonizzata. Da un'altra parte ci sono coloro che ritengono che essa non sia più così utile come in passato. Non basta più che ciascuno faccia la propria parte. Invece, ciascuno deve mettere del suo per realizzare una «concertazione» di scelte, di opzioni, di atteggiamenti tra loro interagenti e coerenti. Una politica dei redditi concertata non è né un affastellamento di decisioni, nè un sistema di azioni e reazioni tra loro incomunicanti o contraddittorie. È piuttosto un insieme di decisioni concrete, fatte di graduazioni di impegni, di sacrifici, di contropartite senza nessun segno ideologico se non quello di concorrere a dare un senso ed un ordine alla crescita della società. Certo, per chi non è abituato, concertare vin- - - - 35 coli, scambi, oneri e convenienze può risultare tanto insopportabile da preferire finanche l'imposizione di un'autorità superiore. Ma questa è, né più nè meno, dimissione di responsabilità. La politica dei redditi è, invece, assunzione di responsabilità da parte di tutti i protagonisti, gli uni verso gli altri e tutti verso il Paese. Questo non vuol dire che sull'oggettiva pluralità e talvolta inconciliabilità degli interessi, rappresentati dai vari protagonisti, c'è un artificiale calo di un velo di omogeneità e di fratellanza. Questa visione della politica dei redditi artefatta e che sfiora il romantico non è né credibile, né possibile. Gli interessi restano compositi, i bisogni articolati, le aspettative varie ed anche sconfinate. Ma una cosa è che chi li rappresenta e le esprime si senta del tutto svincolato da obiettivi generali ed un'altra è che costoro scelgano un metodo e soluzioni pratiche e concrete per affrontare questa non breve congiuntura che ci deve portare in Europa, senza sentirsi obbligati ad offuscare la propria specificità ed identità. Esiste uno schieramento trasversale nei partiti, nel sindacato, nel padronato, nella cultura di questo Paese che crede possibile una «laica» politica dei redditi, per una stagione consistente della nostra vicenda politica e sociale. Ha di fronte un altrettanto trasversale schieramento che riguarda gli stessi soggetti del primo, che non ci crede, che è più tradizionalista, anche se con motivazioni diverse e talvolta distanti. L'innovazione non sempre ha il sopravvento sulla conservazione, come insegna la storia. Ma credo che la bilancia può pendere dalla parte dello schieramento innovatore per tre motivi. Ci sono vincoli europei non eludibili e dobbiamo abituarci a vivere senza la scappatoia della variabilità dei cambi, con una maggiore competitività a tutto campo, adeguando le regole del gioco a quelle comunitarie. Non c'è più un soggetto aggregante- come lo fu nel 1984 il Pci - che freni e divida il movimento sindacale con tanta durezza, come fu allora. C'è un'opinione pubblica non più catalizzata dallo yuppismo, dal successo degli imprenditori d'assalto, dall'individualismo. C'è una ripresa di una seria rivalutazione della solidarietà,dell'impegnocollettivo,di un nuovo ruolo dei grandi soggetti sociali. Indicare queste tre opportunità a favore della politica dei redditi, non vuol dire sottovalutare la forza dei suoi oppositori. Gli imprenditori leghisti ne temono la sua valenza equitativa sul
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