1)Jl. BIANO) l,XII. ROS.."4.) Ui•iii•P struzione» a seguito dei grandi processi di cambiamento che l'hanno investita negli ultimi dieci, quindici anni. Una ricostruzione, sottolineavo, «non solomateriale ma anche morale, che esalti il carattere aperto di Milano, la sua funzione nazionale ed europea, il suo pragmatismo, la sua capacità di comunicazione e di ascolto: in una parola, il suo sano, innato, tradizionale riformismo». È del tutto evidente che il riformismo di cui parlavo non è quello di Turati, con tutti i meriti che, in ogni caso, gli vanno riconosciuti. Ossia un riformismo che, sia pure gradualmente e per via democratica si proponeva di costruire anch'esso una società futura organicamente alternativa a quella attuale e ben definita in tutte le sue strutture economiche, culturali e sociali, ma un riformismo, piuttosto, inteso come modo di essere di una società aperta qual è quella in cui attualmente viviamo e sempre di più vogliamo vivere. Una società, cioè, continuamente percorsa da processi di innovazione e di cambiamento che continuamente esigono di essere governati secondo una linea politica che cerchi di combinare in ogni momento il massimo di libertà e di responsabilità individuale con il massimo di solidarietà e di efficienza collettive. Ossia una linea di tipo riformista. È chiaro che, per questo tipo di riformismo, esistono, soprattutto a Milano, tutti quanti i presupposti culturali. Ciò che manca invece (e nel mio articolo parlavo appunto di «un paradosso» a questo proposito) sono i presupposti politici, ossia un'unità vera tra le forze riformiste che a Milano sono di gran lunga la componente maggioritaria della classe dirigente ed alle quali tocca perciò di governare la città in questa fase decisiva della sua storia. La proposta di creare un fatto nuovo a livello di Consiglio Comunale, rinunciando ai rispettivi egoismi di gruppo in nome di un progetto politico ambizioso e più ampio mi è sembrato, e continua a sembrarmi, il minimo che si possa fare. Del resto questa proposta mi pare abbia ricevuto un rilancio spettacolare, anche se tutt'altro che gradito, dalla vicenda del tentativo di colpo di stato in Urss. Non intendo confondere tra loro due piani che sono assolutamente diversi, ma c'è un punto politico che vale la pena di sottolineare. Sino ad ora i giudizi su quanto accadeva nel mondo comunista sono sempre stati occasione di divisione, se non di aperta rottura, tra Pci e Psi. Non solo, ovviamente, quando essi erano totalmente contrastanti, come nel caso dell'invasione dell'Ungheria, ma anche JO quando erano apparentemente simili, come nel caso dell'invasione della Cecoslovacchia. Infatti nel corso degli anni '70, nel Psi la condanna di quell'intervento fece maturare un giudizio molto drastico non solo sull'insostenibilità, ma anche sull'inaccettabilità, del così detto socialismo reale, giudicato irriformabile, mentre nel Pci, che pure arrivò a parlare di «esaurimento» della spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre, la condanna dell'invasione della Cecoslovacchia non alterò la fiducia nella positività e nella riformabilità progressiva del sistema comunista. Riformabilità che la perestroika sembrava dimostrare, almeno agli inizi, tanto è vero che il Pci la interpretò come un «rinascimento comunista» e fece addirittura un congresso, il XVIII (inizi '89!), quello del «nuovo corso», all'insegna, appunto, del «neocomunismo», dell'«autonomia comunista» e via dicendo. Poi c'è stata, alla fine dell'89, la caduta del muro di Berlino con le conseguenze che tutti sappiamo. Ma la vera svolta, io ritengo, è venuta con i recenti fatti di Mosca. Il comunicato congiunto Occhetto-Craxi segna un mutamento profondo di prospettiva con la definitiva fuoriuscita del Pds dal comunismo. Resta ora aperto il problema del dove andare e del destino delle varie componenti del socialismo italiano. Ritengo, forse immodestamente, che la proposta da me avanzata per Milano indichi una delle strade possibili. Anzi, la sola strada veramente possibile se queste forze vogliono continuare ad esercitare una qualsiasi funzione storica: la strada dell'unità riformista o socialista che dir si voglia. E vengo, brevemente, alle reazioni che essa ha suscitato. La più sorprendente è quella dei commentatori politici che hanno dato per scontata la risposta affermativa del Psi. Ma scontata perché? In realtà nella prospettiva da me indicata il Psi rischia non meno del Pds e la sua risposta avrebbe potuto essere benissimo un'altra: no, si fa l'unità socialista nel senso della confluenza del Pds nel Psi. Così non è stato, e direi che se anche la cosa, per disavventura, dovesse fermarsi qui, sarebbe da considerarsi comunque, per questo solo fatto, un avvenimento di grande importanza, che smentisce tante illazioni sulla politica di unità socialista come politica di annessione pura e semplice al craxismo. I no, purtroppo, sono venuti invece dall'interno del Pds. Alcuni si sono bruciati nello spazio di un mattino, come quello di Umberto Ranieri che ha ritenuto la proposta velleitaria, cioè destinata a non venire raccolta dai princi-
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