.P!I. BI.\NCO l.XII.ROSSO P•hDMMi4i#frllt4tiMI strisciante di rivalità sul quale soffia il vento di una carestia che potrebbe spingere milioni di persone a lasciare i loro paesi non più solo al sud, ma anche ad oriente per cercare rifugio in occidente. Non c'è ragione di allarme. Ma chi legge che la Marina italiana presidia l' Adriatico, che Norvegia e Finlandia spostano truppe ai confini con l'Unione Sovietica non per difendersi da un'aggressione militare, ma da un esodo per fame, resta sconcertato. Un muro appena abbattuto ad Est potrebbe risorgere ad Ovest come cordone sanitario. Forse necessario. Certamente spietato. E un'Europa non più divisa in due potrebbe lacerarsi lungo le sue mille pieghe, le sue mille differenze sociali ed economiche. Un anno è davvero pochissimo per incassare mutamenti così radicali. Soprattutto perchè ogni cosa è avvenuta come se la realtà avesse perso il suo peso. La guerra non è stata combattuta. La sconfitta non è stata dichiarata. La pace attuale con le decine di migliaia di profughi, di affamati, di disperati è la simulazione perfetta di un dopoguerra senza che ci sia stata la guerra. 2. Cambiamenti così dirompenti non potevano non riflettersi sulla situazione italiana aggravandone le croniche difficoltà. Si è in tal modo accresciuto lo scarto tra l'urgenza delle riforme necessarie, nell'economia e nelle istituzioni, ed i tempi di un.a politica che appare sempre più immobilistica ed inconcludente. Il connotato prevalente della politica italiana resta, infatti, la staticità. Il movimento è vissuto come patologia. Non a caso al governo resiste tranquillamente Andreotti che c'era già nel 1948. Le forze politiche di maggioranza e di opposizione parlano, ormai da anni, di inderogabile necessità di risanamento economico e finanziario e di riforme istituzionali. Ma se si deve giudicare dai risultati, dobbiamo constatare che la capacità di convergenza e di realizzazione si esaurisce nell'enunciazione del tema. Piuttosto bizzarra è del resto anche l'invenzione, con la quale si è giustificata la soluzione dell'ultima crisi di governo, di accantonare le riforme istituzionali per impegnarsi, intanto, nella riduzione del disavanzo pubblico. Ma l'idea che si possa prima «risanare» la finanza pubblica e poi «rigenerare» le istituzioni non sta in piedi. È un prima ed un poi che non ha alcun fondamento. Quella finanziaria e quella istituzionale non sono due crisi distinte, ma due facce della stessa medaglia. Anzi, si deve dire che la situazione debitoria è soprattutto il prodotto degli attuali meccanismi di spesa e del modo di formazione delle decisioni economiche. Perciò del funzionamento del nostro sistema politico istituzionale. Pensare che si possa risanare il bilancio dello Stato con una stangatina (o anche stangatona) lasciando inalterate le istituzioni politiche ed il loro funzionamento, è come pensare che si possa fermare la piena di un fiume semplicemente mettendo qualche sasso alla foce. Questo atteggiamento accomodante ed in sostanza elusivo deve indurre ad una forte preoccupazione perché il problema del deficit, non è solo un ostacolo allo sviluppo economico, ma anche ragione di inquietudine democratica. L'espansione del deficit produce infatti un crescente deficit di democrazia. Naturalmente non perché causa una riduzione delle libertà. Ma perché determina una abnorme diminuzione della responsabilità politica. Un conto, infatti, è finanziare la spesa pubblica con tasse pagate in proporzione da tutti i cittadini e perciò indotti a controllare ed a chiedere conto di come vengono spesi i loro soldi. Che vuol dire chiedere conto della quantità e della qualità della spesa. Un altro conto, invece, è finanziare· la spesa con l'indebitamento. Con lo Stato che chiede in prestito ai cittadini i soldi che non è in grado, o non vuole, prelevare con le tasse. Questa degenerazione è ormai arrivata al punto che da noi le tasse non bastano nemmeno ad ammortizzare il debito, il quale viene così incrementato dagli interessi. Si aggiunga che le procedure di spesa sono talmente flessibili, talmente adattabili che consentono a chi governa oggi di impegnarsi anche per chi governerà domani. A chi non governa anche per chi governa. Sono proprio questi meccanismi politico-istituzionali che spiegano la montagna di debiti su cui siamo seduti. Credere perciò che si possa risanare il debito senza cambiare le istituzioni politiche è come credere nel paranormale, negli ectoplasmi, nello spiritismo, nei tavolini che ballano. Paradossalmente però più la riforma politica è resa indispensabile dallo stato di cose esistenti, più le possibilità di adottarla si riducono. Sul piano parlamentare questa impossibilità si manifesta nell'introvabile maggioranza (che, oltretutto, l'articolo 138 della Costituzione vuole molto ampia). Al di là delle chiacchiere si deve perciò
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