__p..tJ. m.\:\O) l.XII.HOSSO iii•iil•b del '91 ce n'est qu'un début. Per questo, sarebbe ora che tacessero i professori, e si aprisse un confronto politico a tutto tondo. I modellini dei professori (è riuscito a farne uno perfino il Psdi) adesso non servono. Serviranno dopo, per dare coerenza tecnica all'opzione politica che sarà risultata vincente. Adesso, è il momento della lotta politica. Che sarà più o meno aspra a seconda dei canali in cui la si indirizzerà. Si può tentare di incanalarla negli alvei incerti di una legislatura comunque morente (spiace per il Pds, ma almeno nel luglio del 1992 sarà inevitabile eleggere un nuovo Parlamento). Il costo sarà quello di un conflitto politico acutissimo che non potrà non avere effetti sulla governabilità del paese (non solo sulle sorti del VII Governo Andreotti). Si può immaginare di trasformare la prossima legislatura in una gigantografia della commissione Bozzi (dal momento che il confronto fra i modellini professionali di cui ciascun gruppo parlamentare è regolarmente dotato difficilmente darebbe luogo ad esiti diversi da quelli, deludenti, della prossima legislatura). A quel punto la delegittimazione dell'istituto parlamentare sarebbe davvero preoccupante, e la conflittualità istituzionale strariperebbe oltre gli argini delle istituzioni stesse. Stupisce che una sinistra che ha più volte paventato, a torto o a ragione, il golpe, guardi con tanta disinvoltura all'ipotesi di un parlamento trasformato in Babele costituzionale. Resta la strada maestra. Quella su cui (anche allora, per la verità, con la sinistra tentennante) venne fondata la Repubblica. Scegliere fra Repubblica e Monarchia non è molto diverso, quanto al metodo, che scegliere fra Repubblica parlamentare e Repubblica presidenziale. È un quesito generale e generico, che non pregiudica ulteriori specificazioni, ma indica ai professori l'oggetto al quale applicare le loro technicalities. Questo, quanto al metodo della lotta politica per la Grande Riforma. Quanto al merito, è bene finalmente definire la ragione del contendere. Che non è quella di cercare scorciatoie per l'unità socialista senza passare per l'alternativa, come vorrebbero i politologi che si sono impadroniti del partito che fu di Gramsci e di Togliatti. Né, ovviamente, quella di intronizzare l'Uomo della Provvidenza. In questione è la capacità dell'Italia di restare collegata col resto d'Europa alla velocità giusta. Ci sono molti parametri per definire l'Europa «a due velocità». Il più dif- = 6 fuso riguarda tasso d'inflazione e debito pubblico. A me piace indicarne un altro. La differenza fra chi si è impegnato ad integrare 17 milioni di connazionali, e chi si arrende di fronte a poche migliaia di albanesi'? Non c'è, si badi, un deficit di buoni sentimenti. Dal punto di vista caritativo, gli italiani bisogna lasciarli stare: hanno perfino un primo ministro pronto all'adozione. C'è un deficit di strategia dello sviluppo. C'è chi preferisce (non solo fra i ceti parassitari, anche in Confindustria) stagnazione e spartizione delle risorse, a una prospettiva di nuova fase di sviluppo. Le alleanze per la Grande Riforma vanno cercate lungo questo discrimine, piuttosto che fra le nomenclature partitiche. Leggo sui giornali che nel Psi è ricominciata la conflittualità. Devo essermi distratto, perché in questi anni non mi ero mai accorto che fosse finita. Girando l'Italia, dovevo sempre dotarmi di mappe aggiornate circa aggregazioni e disaggregazioni in corso presso le singole federazioni. Perfino nella mia, proverbialmente tranquilla e «morandiana», si è dovuto votare a scrutinio segreto per designare i garanti delle Usl. In tutt'altre faccende affaccendati, molti compagni hanno volentieri delegato a Craxi il compito esclusivo di fare politica. Alcuni di essi, adesso, dissentono. Il dissenso è sempre legittimo, ovviamente. Non sempre è politicamente utile, peraltro. Non lo è certamente quando si manifesta a ridosso di una scadenza da tempo nota, come era quella del ref erendum del 9 giugno. In questi casi, fra l'altro, più che di dissenso si dovrebbe parlare di dissociazione. Il problema è un altro. Evidentemente, il partito né aveva il polso dell'opinione pubblica, né ha mosso un dito per influenzare l'opinione pubblica medesima. Fenomeni entrambi, questi, che non possono essere ricondotti al breve spazio della campagna referendaria, ma valutati in una più lunga prospettiva. Insomma: quante federazioni si sono mobilitate (non il 7 giugno, ma nei tre anni precedenti) per discutere con la gente della Grande Riforma? E quante federazioni si sono mobilitate, più in generale, per discutere di Grande Politica, che poi è la stessa cosa? Questo è il problema che deve affrontare il Congresso. Spiace che le dissociazioni dell'undicesima ora rischino di impedire una discussione fruttuosa, ed obblighino a logiche - peraltro esauste - di schieramento.
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