tari, la tendenza a privilegiare gli accordi bilaterali ci appare anche il risultato di un retaggio che non esiteremmo a definire già «storico». La bilateralità degli accordi fu infatti sin dal 1974 la «conditio sine qua non» con cui la Cee si disse disposta ad aprire un dialogo commerciale con i paesi dell'Est aderenti al Comecon. A quel tempo, la condizione della bilateralità si giustificava poiché essa avrebbe permesso a tali accordi commerciali di sottrarsi alla «longa manus» dell'Urss, che altrimenti avrebbe finito con l'essere l'unico e il privilegiato interlocutore della Cee. Non a caso, l'offerta comunitaria di stringere accordi bilaterali fu lasciata cadere. La tendenza comunitaria a privilegiare la bilateralità nelle proprie rela- .{)JJ. IU\NCO \Xll,llOSSO •h•#hMA zioni con i paesi dell'Est andrebbe tuttavia riveduta, inquadrandola prospetticamente alla luce del nuovo ordine europeo e della dissoluzione stessa del Comecon. Le positive esperienze di dialogo e cooperazione con i «gruppi regionali» che la Comunità europea ha accumulato dovrebbero oggi suggerire alla Cee di incoraggiare e sostenere qualsiasi iniziativa di simile coesione che si manifestasse all'Est: ad esempio occorrerebbe appoggiare con più entusiasmo la recente iniziativa ungherese di creare una zona di «libero scambio» tra Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia. La nascita di un «gruppo regionale» nell'Europa orientale, lungi dal costituire una minaccia per gli interessi commerciali comunitari, (come ha voluto suggerire Lech Walesa al Parlamento europeo, perorando la causa di una prossima adesione della Polonia alla Cee) potrebbe essere un elemento positivo per la Cee. Il delinearsi di una nuova area di «libero scambio», parallela a quella dell'Efta e giustapposta al Mercato unico fornirebbe alla Cee un altro interlocutore con cui dialogare. Le priorità comunitarie potrebbero dunque apparire in modo più ordinato e chiaro: definire innanzitutto le competenze e i poteri politici e istituzionali all'interno della Comunità dei Dodici; rimandare la questione delle adesioni degli altri stati «europei» ad una fase più remota; definire, infine, assieme all'Efta e ad una consolidata «zona di libero scambio» tra i paesi dell'Est i termini e i confini di un nuovo Spazio Economico Europeo «allargato». Per un socialismo riformistaeuropeo I 1socialismo è ancora possibile dopo il crollo dei comunismi e nelle società post-industriali? Ha ancora senso parlare di «socialismo» nell'età che segna la fine delle ideologie? Oppure la sinistra deve prendere atto che è iniziata la fase «post-socialista» e quindi ricercare nuove identità e nuovi valori per esprimere il proprio orientamento? Quali e come motivati? Non esiste forse in tal modo il pericolo di confondere il riformismo con generiche politiche modernizzanti, senza aggettivi qualificativi, e quindi in termini politici con vaghe generiche esigenze di stampo «radicale», espressive di una indefinita «società aperta», come in questi giorni si teorizza e come anche in qualche misura i partiti della sinistra italiana praticano? Il crollo dei comunismi certamente di Luigi Ruggiu non coinvolge la forma politica del socialismo democratico. Giacché l'aggettivo ha da sempre qualificato il sostantivo in termini di metodo e di contenuto. E tuttavia non si può negare che la scomparsa del comunismo, come forma realizzata del cosiddetto «socialismo» nella versione leninista, pone delle serie questioni in ordine ad una sua ridefinizione precisa sia in riferimento alla sua natura che in rapporto al significato che il sostantivo «socialismo» può avere alla soglia del 2000. La presenza dei comunismi in qualche modo ha costituito per molto tempo uno dei parametri per una determinazione, almeno in «negativo», di ciò che il socialismo democratico voleva essere in rapporto al versante di «sinistra». Mentre il riferimento alla forma sempre rinascente dell'ideologia del «capitalismo» di tipo manchesteriano è apparso sempre del tutto sufficiente per una caratterizzazione «a destra». Fra questi due estremi si è costituito il socialismo democratico in quanto espressione di volontà di «riformismo» solidaristico, distante sia dal globalismo rivoluzionario di tipo catastrofico, sia dall'ottuso conservatorismo di quanti hanno affidato e affidano ai meccanismi del mercato il compito di operare una darwiniana selezione sociale, in nome del profitto, dell'individualismo, dell'egoismo. Tutto questo storicamente ha significato la collocazione del lavoro e dei lavoratori come momento centrale nel progetto di riarticolazione della società e di valorizzazione del lavoro dipendente, nonché l'assunzione del postulato della riformabilità delle istituzioni
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