Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 18/19 - lug./ago. 1991

fermate nella storia. Di fronte alle conferenze interparlamentari, inter-governative ed inter-istituzionali sul futuro dell'Unione europea che dal dicembre 1990 si stanno svolgendo, c'è un gran bisogno che si levino voci che chiedano queste tre cose: 1) che si acceleri e si approfondisca il processo di integrazione europea, dandogli finalmente una qualità democratica e politica che assegni il primato ali' «unione politica» invece che al «mercato comune»; ciò richiederà - fra l'altro - un serio rafforzamento del Parlamento europeo ed il ricono- ,i).tJ, BIAl\CO (Xli.ROSSO •h•ihid scimento del suo potere costituente; 2) che l'Europa unita non si accontenti dei 12 attuali soci comunitari, ma si apra ad una reale unità europea, dove la comune eredità storica e culturale faccia premio su presunte ragioni di omogeneità socio-economica; 3) che l'unione europea si faccia in termini davvero federalisti, ridisegnando una mappa dei poteri, delle competenze e delle autonomie tale da garantire che dei poteri attualmente detenuti dagli Stati c.d. nazionali altrettanti vadano a finire «verso il basso» (le autonomie locali, i cittadini) quanti vengono trasferiti «verso l'alto» (l'Unione europea, la federazione). Non sarebbe tollerabile (e diventerebbe giustificata l'eventuale resistenza dei parlamenti nazionali) un trasferimento di sovranità e di poteri delle attuali assemblee rappresentative «nazionali» verso organi sovra-nazionali privi di legittimazione e controllo democratico, e sarebbe altrettanto intollerabile un accentramento di poteri e competenze che finisse per esautorare di fatto non solo le istanze locali, ma soprattutto i cittadini, che si troverebbero in tal caso alle prese con interlocutori sempre più lontani e più inafferrabili. l.;Europa e i nuovi problemi della democrazia economica I l quadro da considerare anche per il funzionamento delle relazioni di lavoro è ormai irreversibilmente internazionale. Nel medio-lungo periodo l'internazionalizzazione-europeizzazione dell' economia è destinata a diminuire drasticamente l'importanza dei sistemi nazionali di relazioni di lavoro; ciò per il motivo che un numero crescente di decisioni economiche, e progressivamente di quelle amministrative e politiche, saranno trasferite a livelli sovranazionali, sia ad autorità comunitarie formali, sia a sedi decisionali stabilite ad hoc su base convenzionale. Per quanto riguarda l'Europa se il nostro continente vuole competere in modo efficiente su scala globale deve ridurre la «competizione interna» fra i vari sistemi nazionali. Ciò significa che anche le relazioni industriali, in quanto parte fondamentale per l'efficienza dei sistemi, dovranno armonizzarsi fra di loro. Resta da vedere «come» si armonizdi Tiziano Treu zeranno, su quale modello, e con quale contributo delle forze sociali e del sindacato in specie. Gli esiti non sono predeterminati, e non mancano previsioni «pessimistiche». C'è chi prevede che in assenza di un rafforzamento delle autorità politiche comunitarie e dei sindacati a livello sovranazionale, la pressione competitiva del mercato metterà in crisi i sistemi attuali basati sul we[fare e sulla negoziazione sindacale. Le imprese, libere di muoversi sul mercato unico, saranno indotte a preferire i sistemi con costi di lavoro più bassi, regole più flessibili, protezioni minori per i lavoratori anche tramite pratiche antisindacali ed a costo di dover fronteggiare relazioni collettive (inizialmente) conflittuali. La spinta alla convergenza dei costi, secondo questa ipotesi, potrebbe tradursi in una riduzione della regolazione sociale del lavoro all'interno dell'Europa comunitaria. L'ipotesi avrebbe forza sufficiente per procedere da sola, anche se le politiche di deregolazione esplicita del mercato del lavoro non sono più sostenute in modo così virulento neppure dai governi, come quello inglese, che se ne era fatto portatore nel corso degli anni '80. Come dire che la spinta dei mercati internazionali è tale che non richiede sostegni espliciti, né può essere contrastata solo con generici appelli all'Europa sociale. Questa scelta non è però conciliabile con la tradizione sociale del nostro continente e con gli obiettivi sostenuti dalle forze politiche riformiste e dai movimenti sindacali. Si può anche dubitare che tale alternativa corrisponda nel medio periodo allo stesso interesse delle imprese e della loro competitività. La costruzione di un comune clima partecipativo di relazioni di lavoro, con il superamento di eccessivi squilibri di regolazione e condizioni di lavoro fra varie realtà regionali, può costituire, nelle condizioni politiche, sindacali, culturali del continente, un elemento di coesione sociale e di mobilitazione complessiva delle risorse umane,

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