Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 18/19 - lug./ago. 1991

del mercato, la dinamica delle società e delle economie. Per questo c'è un rischio di genericità nella lamentazione tanto frequentemente ascoltata. Che cosa si intende per cultura? Si può citare un esempio più invadente, agli effetti della formazione di un diffuso senso comune nel vedere le cose e nel progettare il futuro, della propaganda messa in campo per fare del 1993 una sorta di soglia magica, da raggiungere ad ogni costo? La Comunità e gli uffici di Bruxelles che tra poco dovranno sloggiare dal mostruoso Berlaymont sono all'origine di una campagna ideologica, contrassegnata dal segno di una competitività ultraliberista. Pochi slogan come l'insistenza su una data-sfida, di una scadenza-appuntamento hanno avuto una capacità tanto penetrante di insinuarsi nelle valutazioni e nei discorsi sui destini dell'Europa. A dire il vero le gigantesche trasformazioni del 1989 hanno configurato una geografia e suscitato dei problemi che hanno finito per ridimensionare il programma lanciato con volontaristico fervore. Eppure la prospettiva tracciata resta in piedi, in altra chiave, e non cessa di incidere nell'opinione pubblica, nella sensibilità e nelle coscienze dei cittadini. Bisognerà, allora, dire, più puntualmente, che una dimensione specifica e autonoma relativa a quelle che si raggruppano sotto l'etichetta di politiche culturali è quasi assente o ricavabile solo indirettamente dall'impianto istituzionale, invecchiato e anacronistico, che tuttora regge le malcerte sorti di una Comunità spinta a trasformarsi in credibile Unione politica ed ostacolata in questa esigenza da ritardi rovinosi, da remore intollerabili. In questo senso è esatto dire, con amarezza, che la cultura non ha trovato legittimazione e quindi considerare questo vuoto come una delle questioni cruciali da esaminare e risolvere in sede di Conferenza intergovernativa per la revisione dei Trattati. Non è vera la frase ripetuta ad ogni passo, in base ad un'incorreggibile quanto infondata tradizione orale, che Jean Monnet ha detto che, nel caso avesse dovuto ricominciare, avrebbe ricominciato dalla cultura. Del resto il pragmatismo funzionalista di cui fu esemplare interprete come avrebbe potuto consentirgli un'enunciazione così vaga e retorica? i)Jt BIANCO '-.Xltll.OSSO ■ fr11ihhd Primo torchio a caratteri mobili (Mainz - Rft) È per fortuna constatabile che il processo di unificazione in corso ha creato in molti la convinzione della necessità di irrobustire o inventare nuove condivise competenze - e attribuire le relative risorse - anche per quei settori fino ad oggi ritenuti marginali o trascurabili grazie al riduttivo economicismo imperante. Un rapido sguardo ai capitoli di bilancio concernenti formazione, informazione e programmi propriamente culturali ci consegna l'immagine di una Comunità incapace di guardare a questi impegni con un impegno nuovo, con un respiro accettabile. La stessa formazione non si può più ricomprendere entro gli angusti limiti della formazione professionale citata nell'articolo 128 del Trattato Cee in un significato assai ristretto ed oggi del tutto superato. Non casualmente una serie di sentenze della Corte di giustizia ha consolidato ormai una lettura evolutiva, più ampia e ricca, di una norma che mostra tutti i suoi anni. Perfino un programma di eccezionale successo quale Erasmus è stato adottato ricorrendo a quell'articolo e quindi applicandolo al percorso di studi universitari. Non incidentalmente è stato varato dal Consiglio un documento in cui si gettano le premesse di azioni in materia di formazione culturale, intendendo con ciò coprire una serie di obiettivi ■ JJ del tutto inediti. Esistono profili professionali, domande del mercato del lavoro, impulsi derivanti dall'innovazione tecnologica non riconducibili alle formule di un Trattato rinsecchito e parzialissimo. Se ci si è occupati con una certa lena dell'industria audiovisiva e dell'informazione, non più governabili esclusivamente a livello nazionale, si è rischiato di dar vita a direttive e orientamenti inadeguati, monchi, distorcenti. Basta la direttiva iniziale e assai flessibile per necessità sulla «televisione senza frontiere» per impostare una seria politica europea? Basta per tutelare e valorizzare il pluralismo ed una corretta regolamentazione dei sistemi misti in vigore con varie caratteristiche nei dodici Paesi? Solo due esempi e due quesiti per dire che da qualsiasi angolazione si guardino le cose siamo ad un punto di svolta. La sensazione di disagio si fa inquietante. Ora anche coloro che erano più ostili ad una presenza della Comunità nel campo della cultura si rendono conto che in mancanza di una solidarietà europea le stesse identità nazionali o regionali son destinate a indebolirsi. Il pericolo di brutale commercializzazione e di nebbiosa omologazione di linguaggi si fa ogni giorno più temibile. Non per questo si può rinunciare ad una serie organica di interventi anche comuni. In nessun ambito cade più appropriato il richiamo al principio della sussidiarietà. Conciliare pluralismo, diversità e strategie concordate in faccia a sfide globali è la grande scommessa che l'Europa deve vincere per esistere nel mondo con la ricchezza delle sue voci e delle sue tradizioni. Ecco che allora alcuni settori chiedono di essere privilegiati decisamente. I sistemi di istruzione devono essere resi più comparabili e compatibili in ogni loro grado. La produzione cinematografica e televisiva deve essere rilanciata o incentivata ben al di là di quanto non si riesca a fare con i progetti del programma quinquennale Media. E il teatro o la musica possono esser ancora ignorati quasi completamente? Non bastano campagne di sensibilizzazione, premi o avvenimenti simbolici quali la proclamazione annuale di una «città europea della cultura» per promuovere

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