Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 18/19 - lug./ago. 1991

~JJ,BIANCO OL1tnosso Ui•ii••P Contadino della Bukovina (Iugoslavia) te vere e proprie strozzature della società nazionale (la crisi delle istituzioni, la delinquenza organizzata e il Mezzogiorno, il risanamento finanziario e il debito pubblico). Specie nell'Italia meridionale, del resto, il Psi può anche accrescere i suoi suffragi elettorali (anche se le elezioni regionali siciliane hanno dimostrato quanto siano fallaci le speranze di grandi balzi in avanti), ma rischia di diventare, sempre di più, una sorta di «appendice» della Dc, anche per quel che riguarda il suo modo di essere e di operare, la non limpidità e trasparenza dei suoi comportamenti, il suo assuefarsi a modelli (tradizionali e nuovi) della vita politica meridionale: il clientelismo, il trasformismo, la ricerca del consenso elettorale ad ogni costo. Deve sparire, infine, il sospetto che la parola d'ordine dell'unità socialista sia una specie di grimaldello per ricercare un'egemonia nell'ambito delle forze di sinistra, o per effettuare un assorbimento nel Psi di una parte, piccola o grande che sia, di altre forze e gruppi di sinistra. Riconoscersi insieme negli ideali e nei valori del socialismo democratico europeo :I 11 non significa oscurare o addirittura annullare la specificità, storica e politica, di altre forze di sinistra, a cominciare dal Pds, né cercare di imporre, come condizione per l'unità, le proprie analisi, proposte e temi politici (come quelle del presidenzialismo puro e semplice, o sulla situazione economico-sociale del paese). Le richieste che rivolgo al Congresso del Psi non avrebbero senso se non fossero congiunte ai cambiamenti che dobbiamo riuscire a determinare nella politica del Pds. Devono cioè essere superate le oscillazioni e le incertezze politiche che hanno caratterizzato, a mio parere, il passaggio dal Pci al Pds. Noi abbiamo operato un taglio, di cui abbiamo anche pagato prezzi non lievi. Ed è fuori dubbio che una discontinuità nei confronti di certe tradizioni e di certi dogmi della III Internazionale andava proclamata e perseguita. Ma questo non significa abiurare le migliori tradizioni nostre, di un partito che ha lottato per la restaurazione delle libertà democratiche contro il fascismo, per l'avanzamento democratico e sociale dell'Italia. Questo non possiamo e non dobbiamo farlo noi. Questo non ce lo può chiedere nessuno. Credo che sarebbe stato meglio per tutti se avessimo compiuto una scelta chiaramente e apertamente riformistica. E credo anche che per questa scelta bisogna lavorare. L'unità riformistica per cui lavoriamo deve significare certamente molte cose e deve comportare un dibattito aperto e franco, e anche vivace, fra due partiti che resteranno diversi, almeno in una prospettiva di medio periodo. Ma deve comportare, a mio parere, soprattutto una cosa: quella di avere un atteggiamento comune nel confronto-scontro con la Dc. Ho sempre sostenuto che è necessario mettere l'alternativa con i piedi per terra, cioè prevederne tappe intermedie, passaggi obbligati, anche governi di larga coalizione per affrontare quelle che ho prima chiamato le «strozzature» più pericolose e gravi della società e della vita politica italiana. Sono allora un «consociativista» inguaribile? Non credo. Sono convinto anzi che alcune esperienze del passato siano irripetibili. Penso che la scelta dell'unità a sinistra debba essere riaffermata con forza, e sempre, dal Pds, al di là e al di fuori di ogni concezione «trasversale» delle alleanze politiche. Cogliere il significato profondo e positivo dei risultati del referendum del 9 giugno non significa, né può portare a sognare schieramenti «trasversali» irreali e irrealizzabili. Ma

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