Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 18/19 - lug./ago. 1991

L. 6000 mt•nsilt• di dihattilo polili<·o Sped. in ahb. postale - Gr. 111/70% . Anno II sommano luglio/agosto 1991 1 3 5 7 !) 10 12 14 15 17 20 21 EDITORIALE: La febbre e la malattia, di P. Camiti ATTUALITÀ: Referendum. Uno, due, troppi significati, di G. P. Cella Il Pds risponda su Grande Riforma e Unità, di L. Covatta Scegliere il liberalismo senza litanie dell'alternativa, di G. Ferrara Dal Psi una strategia per la sinistra, di E. Macaluso Psi-Pds: unità socialista per l'alternativa vera, di G. Chiaromonte Nuove alleanzeper l'alternativa riformista, di F. Iacono Contratti: responsabilità, realismo, di G. Lombardi Contratti: i «nodi» di questo tempo difficile, di L. Viviani Pensioni: non è ancora riforma, di M. Bertin Diritto allo studio: dai principi alla realtà, di V. Talamo «Centesimus Annus»: uomo, religione, etica, di M. Stecco Più vicina la leggequadro sul volontariato, di N. Sgaramella DOSSIER: Europa alle porte, Interventi di G.P. Orsello, G. Arrigo, D. Reed, B. De Giovanni, R. Barzanti, L. Frey, A. Langer, T. Treu, G. Baglioni, N. Laroni, G. Querini, G. Amendola, M. Pellegrino, L. Ruggiu, A. Quaglia L'EUROPA E IL MONDO: Golfo: dopo la guerra il duro lavoro per la pace, di E. Friso Praga: memorie sepolte e presente di crisi, di M. Bernath DOCUMENTO: Dentro un groviglio di lingue, di E. Canetti Marcovaldo al supermarket, di I. Calvino SCAFFALE: «Dopo il '68»: un ritorno alle radici culturali europee, di G. Gennari Libri ricevuti VITA DELL'ASSOCIAZIONE: Gli interventi di P. Camiti e R. Caviglioli. I nuovi incarichi sociali. IMMAGINI: L'uomo europeo e i suoi luoghi 23 25 54 58 60 61 64 65 67 ALL'INTERNSUOPPLEMENETSOTRAIBILE: GUIDALLERIFORMIESTITUZIONALI, diE.Rotelli La febbre e la malattia di Pierre Camiti Anche il Governo, ammesso che ci abbia mai creduto, sa benissimo ormai che l'idea che si possa prima «risanare» la finanza pubblica e poi «rigenerare» le istituzioni politiche non sta in piedi. Se avesse avuto qualche residua illusione il tiro al piccione del Parlamento, sulle misure con cui aveva tentato di contenere lo sfondamento del disavanzo, ha chiarito che se siamo molto indebitati lo dobbiamo anche agli attuali meccanismi di spesa in base ai quali chi governa oggi può impegnarsi anche per chi governerà domani; chi

i.)-lJ.BIANCO lXII, ROSSO il 11111 UJlili Il "ballo dei cavalli" (Moldavia) non governa anche per chi governa. La trattativa triangolare governo, sindacati, Confindustria è diventata quindi l'ultima possibilità di utilizzare quel che resta della legislatura per far qualcosa di utile per migliorare la situazione economica del paese. O almeno per non peggiorarla ulteriormente. La cosa però non è facile. La Confindustria, che reclama la necessità di abbattere il differenziale di inflazione tra noi ed il resto dell'Europa_si è presentata altavolo della trattativa con la ricetta, tanto provocatoria quanto inutilmente perentoria, di abolire la scala mobile, facendo così del salario l'unica variabile dipendente. Il solo terreno di aggiustamento delle cose economiche. I sindacati, per parte loro, si sono dichiarati soprattutto interessati ad una maggiore equità fiscale e disposti a discutere del sistema contrattuale, dei salari e delle indicizzazioni. Nel merito però non si sono sbilanciati. Il loro atteggiamento prudente si spiega sia con la necessità di restare uniti (e la genericità, almeno in questa fase, aiuta) che con la scarsa fiducia sugli sviluppi della trattativa tenuto conto della precarietà della situazione politica. Il Governo, infine, vorrebbe arrivare a qualche risultato concreto. E possibilmente arrivarci in fretta. Anche perché capisce che l'esito del negoziato può diventare terreno di verifica particolarmente significativo per la sua stessa sopravvivenza. Per oliare l'avvio della trattativa ha fatto intravedere una disponibilità di circa 5-6 mila miliardi, in tre anni, per ridurre gli oneri sociali che gravano sul costo del lavoro. Riduzione già promessa lo scorso anno. Ma con le dimensioni drammatiche del debito pubblico ed il disastro delle entrate fiscali rispetto alle previsioni, questa nuova fiscalizzazione non poteva certo essere finanziata, come è avvenuto tante volte in passato, aggiungendo deficit a deficit. Buco a buco. E così il Presidente del Consiglio, pensando che si potessero ridurre gli oneri sociali solo se le imprese avessero pagato più imposte, come avviene nel resto dell'Europa, ha annunciato un decreto per rendere obbligatoria larivalutazione dei cespiti patrimoniali. Di fatto una tassa sui patrimoni delle imprese. Il risultato è stato che la trattativa triangolare, iniziata giovedì 20 giugno, ha rischiato di naufragare il venerdì 21 subito dopo le dichiarazioni dell'onorevole Andreotti. Non solo la borsa ha, infatti, reagito con un «venerdì nero», ma la stessa Confindustria ha minacciato conseguenze pesanti sulla prosecuzione del negoziato appena avviato. Al di là delle interessate reazioni di merito, la stravagante condotta del Governo suscita, in ogni caso, forti obiezioni di metodo. Se si vuole introdurre una patrimoniale sulle imprese lo si può certo fare. Ma la cosa peggiore è un annuncio non seguito da immediati atti concreti. Perché non porta nessun vantaggio pratico ed, al contrario, produce solo danni. Si deve constatare, quindi, che il confronto triangolare, per ora, è partito con il piede sbagliato. Nelle prossime settimane si vedrà se la situazione potrà essere raddrizzata e se, sfrondando il confronto da un sovraccarico di aspettative, potrà essere fatto qualche passo avanti. Soprattutto nella lotta all'inflazione che è il problema vero sul quale andrebbe concentrata l'attenzione. La questione vera, infatti, non è la scala mobile, ma l'inflazione. Non aiuta affatto scambiare la febbre con la malattia come fa la Confindustria. Questo non significa, ovviamente, che nell'ambito di una politica dei redditi che ponga obiettivi credibili e verificabili di rientro dall'inflazione non si debba predeterminare la dinamica del costo del lavoro. Compresa la scala mobile. Poiché le cure sintomatiche ormai servono a poco si tratta allora di verificare se il governo avrà la forza e la volontà per concordare una rigorosa politica dei redditi. Soprattutto in un anno preelettorale. Fuori da questa prospettiva c'è soltanto il rischio di gesti sbagliati e di soluzioni finte.

i.).t.l. BIANCO lXII.HOSSO iii•lil•P Referendum.Uno, due, troppi significati di Gian Primo Cella O ra che il referendum sulle preferenze elettorali è concluso, il quorum raggiunto, il sì vittorioso, è molto difficile individuare il senso, il significato che restano per il sistema politico italiano. Ognuno ha il suo significato da trarre, con minore o maggiore plausibilità. Le gioie sono di tanti (persino dei partiti), i dolori di pochi. Quando i significati sono molteplici può quasi apparire che non ne esista nessuno veramente sicuro. Solo una fonte, il quotidiano «La Repubblica», ed il suo direttore, non sembra avere dubbi e titola a tutta pagina, con grande rispetto democratico per le minoranza, «Vince l'Italia pulita». Ma, si sa, questo quotidiano ed il suo direttore hanno da sempre qualche chiave in più degli altri per capire i veri significati della politica. E anche sui referendum capiscono sempre più degli altri, lo sappiamo bene fin dai tempi di quello sulla scala mobile (allora finito meno bene per i desideri del grande divinatore della politica italiana). Nessuno comunque sembra dare grande peso al significato diretto del referendum: il passaggio di preferenze plurime ad una sola. Fra i significati che hanno ottenuto più gradimento nei commenti si colloca innanzitutto quello «anti-partitocratico» come si suole ormai dire comunemente, spesso senza pudore o ironia. Fra quelli di carattere generale che può rivestire il voto del 9 giugno, sembra fra i più plausibili. Ma lo si desume da un'atmosfera vagante, più che indurlo da indicatori concreti. La maggior parte dei partiti infatti non si era opposta esplicitamente al referendum, ed i partiti stessi (magari per opportunismo) sono stati pronti a brindare per l'esito. D'altra parte, si diceva con l'obiezione più diffusa alla proposta referendaria, la riduzione delle preferenze potrebbe avere l'effetto di privilegiare i candidati più appoggiati dalle macchine dei partiti. Difficile perciò essere sicuri dell'effetto «anti» del referendum stesso. Arduo indurre tale significato dalla distribuzione territoriale del voto. Si collocano infatti in testa nella partecipazione al voto le due regioni italiane a più solida (mono )cultura politico-partitica: il Veneto e l'EmiliaRomagna. Forse può fare pensare il mancato rispetto dell'appello astensionista della Lega Lombarda: Brescia e Bergamo che avevano registrato nelle ultime elezioni amministrative una percentuale di voto alla lega quasi doppia rispetto a Milano, hanno superato sensibilmente il tasso di partecipazione del capoluogo lombardo. Ma, come si vede, l'argomentazione comincia a indebolirsi, può divenire forse troppo soggettiva, arbitraria, anche strumentale. È solo con queste precauzioni che possiamo in parte accettare l'accentuazione del significato «anti-partitocratico» del referendum avanzata da non pochi commentatori. Un significato forse segnato anche da un desiderio di reazione contro le degenerazioni clientelari così tipiche nel Mezzogiorno. Ma i forse si sprecano. Occorre anche dire che non era impossibile, per chi ha degli efficaci sensori della domanda politica, prevedere la diffusione di un significato di questo tipo. Da questo punto di vista è stato troppo azzardato in alcuni, pochi, settori del sistema politico, ed in primo luogo nel Psi, manifestare una così netta avversione al referendum. Azzardato specie per chi sostiene la strada della democrazia diretta come percorso irrinunciabile per la realizzazione delle riforme istituzionali. Debbo ammettere tuttavia che provo un certo imbarazzo a ragionare in termini così vaghi sui significati di un voto referendario. Su questi aspetti un insegnamento utile è possibile comunque trarlo. Il voto del 9 giugno ha mostrato, al di là degli aspetti costituzionali su cui

,P.ll, BIANCO '-XILROSSO iiikliliit non mi soffermo, un tipico uso improprio del referendum, ovvero dello strumento tipico della democrazia diretta. Come si sa, nelle liberal-democrazie questi strumenti vanno usati per eccezione rispetto a quelli normali della democrazia rappresentativa. E questo perché da una parte la eterogeneità di composizione della società, dall'altra la complessità dei problemi da affrontare, sconsigliano normalmente il loro utilizzo. Potrebbero sia violare gli assetti pluralisti (con sempre possibili tirannie delle maggioranza}, sia condurre a soluzioni politiche inefficaci e inefficienti, pregiudiziali per l'interesse generale. Quell'interesse che, strapazzato fin che si vuole, resta l'unica giustificazione irrinunciabile delle costituzioni liberal-democratiche. Orbene, negli usi propri della democrazia diretta, il significato del voto è diretto, quasi inequivocabile. Tutto questo aumenta le capacità di rappresentanza del sistema politico e non ne delegittima gli assetti di fondo. Questo accade di norma, in due casi opposti: nei referendum a livello decentrato su oggetti particolari dove può essere utile e necessario contare le preferenze che si formano a partire dagli interessi individuali, nei referendum nazionali su grandi scelte coinvolgenti non solo aspetti di etica pubblica ma anche di moralità individuali. In entrambi i casi le scelte possono essere chiare, i risultati sicuri, i significati diretti. Per chi accetta queste premesse non sarà difficile giudicare come improprio l'uso del referendum nel caso delle preferenze elettorali. Qualcosa di simile si potrebbe dire sulle riforme istituzionali. Esse possono essere pensate e attuate in modo diretto, ovvero per risolvere problemi di rappresentanza o di funzionalità del sistema politico. Oppure possono essere pensate e praticate in modo indirett , ad esempio delle riforme rivolte a ridurre il controllo dei partiti sulla società civile attuate per ridefinire i rapporti di potere tra gli stessi partiti. O anche, ed è il modo più indiretto di tutti, delle riforme istituzionali attuate per porre rimedio al conflitto ed agli sconquassi causati dal dibattito stesso sulle riforme istituzionali. Questo è proprio quello che mi sembra succeda in Italia, con il contributo non irrilevante delle più elevate cariche dello Stato, Presidenza della Repubblica in testa. In entrambi i casi, uso improprio del referendum e riforme pensate non per risolvere S. Domenico protettore dei "serpentari" (Abruzzo) problemi, ma per fini indiretti, le capacità di rappresentanza di un sistema politico come il nostro, già abbastanza compromesso, possono essere ulteriormente danneggiate, contribuendo ad innalzare un già elevato, quasi insopportabile, grado di litigiosità. Ne abbiamo avuto subito una prova nella rissa che si profila nei giorni successivi al referendum sulle possibili nuove leggi elettorali. Una conseguenza che potrà pregiudicare quella condizione che appare come non rinunciabile per la realizzazione di un progetto serio di riforme istituzionali: un grado soddisfacente di consenso. È difficile pensare che un progetto di tal fatta possa essere pensato contro qualcuno, specie se questo qualcuno è un attore significativo del sistema politico. Certo nuove regole possono essere pensate contro un «invasore» esterno? Ma possono essere le Leghe ad assurgere a tale rango? Non crediamo, anche se la loro pressione è tutto tranne che irrilevante. Si ritorni, o si inizi, dunque a pensare alle riforme istituzionali in modo diretto, per la risoluzione di problemi. E si utilizzi la democrazia diretta con cautela, per eccezione, e in termini propri. La capacità di rappresentanza del sistema politico e la sua funzionalità potranno aumentare. E saranno tenuti sotto controllo i timori, non ingiustificati, per il cambiamento e le vischiosità penetranti del sistema e della classe politica. Coraggio, in fondo non è neanche mezzo secolo che il nostro sistema politico opera senza il meccanismo della alternanza.

,P-tJ. RIAl\CO il.li, ROSSO iii•iil•ii su Il Pds risponda Grande Riforma e Unità di Luigi Covatta e on buona pace dell'onorevole Galloni, la Grande Riforma non è la Rivoluzione. Può sembrare, però, perché quando se ne discute produce effetti ottici rivoluzionari. Nel senso del rovesciamento della prospettiva. Il presidente dell'organo giurisdizionale che decide sull'ammissibilità dei referendum, sui conflitti fra i poteri dello Stato, sulla legittimità degli atti del presidente della Repubblica, esprime da privato cittadino opinioni su materie su cui il collegio che presiede potrebbe essere chiamato a pronunciarsi. Fosse un pretore, qualunque avvocaticchio lo ricuserebbe. Invece, passa per un eroe del libero pensiero. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura dà dell'eversore al Capo dello Stato. Quasi quasi, si pretende che sia quest'ultimo a chiedergli scusa. Un'alta carica dello Stato paragona il segretario del Psi ad Hitler. L'arrogante è Craxi, perché si ripromette - se se ne ricorderà - di replicare solo quando l'insolente non sarà più in carica. Un ministro che ha condotto in porto una legge delicatissima, costata anche una semi-crisi di governo, chiede di restare in carica per applicarla. Il segretario del suo partito, che gli nega questo elementare diritto, e nega soprattutto ogni logica di responsabilità istituzionale, merita gli applausi del coro anti-partitocratico ed anticencellesco. Un autorevole senatore democristiano, nel discutere della repubblica presidenziale, evoca lo spettro di Pinochet. Le sinistre lo applaudono, dimenticando di chiedergli conto di quello che fu il ruolo della Dc nel massacro di Allende e della democrazia cilena. Il presidente della Repubblica ricorda che all'epoca del «piano Solo» era soltanto sottosegretario alla Difesa, e allude a responsabilità ben più gravi del vertice democristiano di allora. La sinistra, con tanti saluti ai teoremi anni '70 sul «sistema di potere democristiano», punta l'indice accusatore contro l'ex sottosegretario e trasforma un possibile scontro etico-politico in processo di pretura. Il conflitto fra Cossiga e la Dc replica quello fra Moro e il suo partito. Per tutta risposta, la sinistra fa la pace con Gava. Il mondo alla rovescia, insomma. Esattamente come dopo la Rivoluzione. Con la differenza che questa Rivoluzione ottica preventiva serve solo ad esorcizzare la Riforma possibile. Si dirà: sono ragionamenti da Candide. Interpretazioni letterali, laddove è facile scorgere, dietro le battute del copione, una trama più complessa. Vero. Ma meglio Candide che Pangloss. Meglio l'ingenuità paradossale che quella ottusa. Candide apre la strada al secolo dei lumi. Pangloss, coi lumi, al massimo rischiara la strada di casa. Cossiga è il Candide di questo scorcio di storia italiana. Non è necessario condividere tutte le sue prese di posizione. È necessario comprendere il suo metodo: quello del paradosso, appunto. A cominciare dal paradosso del presidenzialismo. I panglossiani obiettano: se il presidente della Repubblica parlamentare è così interventista, chi ci salverà dal Presidente eletto dal popolo? Chi non ha perso lucidità, invece, comprende il paradosso. Che consiste nel mettere in rilievo (magari in modo estremo, come esige l'argomentare paradossale) quelli che oggi sono i poteri legittimi del Presidente; e nel dimostrare che, per esercitare questi poteri, la legittimazione parlamentare non è sufficiente. La grande Riforma non è la Rivoluzione, dunque. Ma neanche la Grande Riforma è un pranzo di gala. Sono in gioco i poteri consolidati. È in gioco la continuità di un'oligarchia. Se l'onorevole Galloni, quando ha disinvoltamente evocato l'immagine della Rivoluzione, alludeva a questo, si può concordare. Quello che abbiamo visto in questo primo semestre

__p..tJ. m.\:\O) l.XII.HOSSO iii•iil•b del '91 ce n'est qu'un début. Per questo, sarebbe ora che tacessero i professori, e si aprisse un confronto politico a tutto tondo. I modellini dei professori (è riuscito a farne uno perfino il Psdi) adesso non servono. Serviranno dopo, per dare coerenza tecnica all'opzione politica che sarà risultata vincente. Adesso, è il momento della lotta politica. Che sarà più o meno aspra a seconda dei canali in cui la si indirizzerà. Si può tentare di incanalarla negli alvei incerti di una legislatura comunque morente (spiace per il Pds, ma almeno nel luglio del 1992 sarà inevitabile eleggere un nuovo Parlamento). Il costo sarà quello di un conflitto politico acutissimo che non potrà non avere effetti sulla governabilità del paese (non solo sulle sorti del VII Governo Andreotti). Si può immaginare di trasformare la prossima legislatura in una gigantografia della commissione Bozzi (dal momento che il confronto fra i modellini professionali di cui ciascun gruppo parlamentare è regolarmente dotato difficilmente darebbe luogo ad esiti diversi da quelli, deludenti, della prossima legislatura). A quel punto la delegittimazione dell'istituto parlamentare sarebbe davvero preoccupante, e la conflittualità istituzionale strariperebbe oltre gli argini delle istituzioni stesse. Stupisce che una sinistra che ha più volte paventato, a torto o a ragione, il golpe, guardi con tanta disinvoltura all'ipotesi di un parlamento trasformato in Babele costituzionale. Resta la strada maestra. Quella su cui (anche allora, per la verità, con la sinistra tentennante) venne fondata la Repubblica. Scegliere fra Repubblica e Monarchia non è molto diverso, quanto al metodo, che scegliere fra Repubblica parlamentare e Repubblica presidenziale. È un quesito generale e generico, che non pregiudica ulteriori specificazioni, ma indica ai professori l'oggetto al quale applicare le loro technicalities. Questo, quanto al metodo della lotta politica per la Grande Riforma. Quanto al merito, è bene finalmente definire la ragione del contendere. Che non è quella di cercare scorciatoie per l'unità socialista senza passare per l'alternativa, come vorrebbero i politologi che si sono impadroniti del partito che fu di Gramsci e di Togliatti. Né, ovviamente, quella di intronizzare l'Uomo della Provvidenza. In questione è la capacità dell'Italia di restare collegata col resto d'Europa alla velocità giusta. Ci sono molti parametri per definire l'Europa «a due velocità». Il più dif- = 6 fuso riguarda tasso d'inflazione e debito pubblico. A me piace indicarne un altro. La differenza fra chi si è impegnato ad integrare 17 milioni di connazionali, e chi si arrende di fronte a poche migliaia di albanesi'? Non c'è, si badi, un deficit di buoni sentimenti. Dal punto di vista caritativo, gli italiani bisogna lasciarli stare: hanno perfino un primo ministro pronto all'adozione. C'è un deficit di strategia dello sviluppo. C'è chi preferisce (non solo fra i ceti parassitari, anche in Confindustria) stagnazione e spartizione delle risorse, a una prospettiva di nuova fase di sviluppo. Le alleanze per la Grande Riforma vanno cercate lungo questo discrimine, piuttosto che fra le nomenclature partitiche. Leggo sui giornali che nel Psi è ricominciata la conflittualità. Devo essermi distratto, perché in questi anni non mi ero mai accorto che fosse finita. Girando l'Italia, dovevo sempre dotarmi di mappe aggiornate circa aggregazioni e disaggregazioni in corso presso le singole federazioni. Perfino nella mia, proverbialmente tranquilla e «morandiana», si è dovuto votare a scrutinio segreto per designare i garanti delle Usl. In tutt'altre faccende affaccendati, molti compagni hanno volentieri delegato a Craxi il compito esclusivo di fare politica. Alcuni di essi, adesso, dissentono. Il dissenso è sempre legittimo, ovviamente. Non sempre è politicamente utile, peraltro. Non lo è certamente quando si manifesta a ridosso di una scadenza da tempo nota, come era quella del ref erendum del 9 giugno. In questi casi, fra l'altro, più che di dissenso si dovrebbe parlare di dissociazione. Il problema è un altro. Evidentemente, il partito né aveva il polso dell'opinione pubblica, né ha mosso un dito per influenzare l'opinione pubblica medesima. Fenomeni entrambi, questi, che non possono essere ricondotti al breve spazio della campagna referendaria, ma valutati in una più lunga prospettiva. Insomma: quante federazioni si sono mobilitate (non il 7 giugno, ma nei tre anni precedenti) per discutere con la gente della Grande Riforma? E quante federazioni si sono mobilitate, più in generale, per discutere di Grande Politica, che poi è la stessa cosa? Questo è il problema che deve affrontare il Congresso. Spiace che le dissociazioni dell'undicesima ora rischino di impedire una discussione fruttuosa, ed obblighino a logiche - peraltro esauste - di schieramento.

,P-lJ, BIANCO lXll,ROS&l iii•iil•il L'altro problema che deve affrontare il congresso è quello dell'unità socialista. Leggo che qualche compagno vorrebbe offrire a Occhetto la propria camera da letto. Per quanto riguarda la mia, sono più selettivo. Fuori di scherzo, neanche l'unità socialista è un pranzo di gala. Per cui il suo successo non dipende dalle precedenze, dalle etichette e dalle buone maniere. Dipende, piuttosto, dalla effettiva conclusione del congresso di scioglimento del Pci, che non c'è ancora stata. C'è stata, per ora, una scissione. Ma manca l'atto di fondazione del nuovo partito. Mancherà a lungo, peraltro, se si insisterà, da parte del gruppo dirigente che il Pds ha ereditato dalle ultime convulsioni del Pci, a voler condurre contemporaneamente una svolta storica e un'operazione di bottega. Per fondare un nuovo partito sulle macerie del comunismo a stento sarebbe bastato l'intero gruppo dirigente del Pci, Cossutta e Garavini inclusi. Figuriamoci se è impresa adatta a un gruppo dirigente più impegnato a «tagliare le ali» che a prendere il volo. Non è la prima volta, del resto, nella storia della Repubblica, che gruppi dirigenti brillanti e non privi di meriti, partiti per «tagliare le ali», sono arrivati ad autoliquidarsi. Nessuno sconto, quindi agli ex comunisti. Ma un confronto politico duro, che metta sul tappeto tutte le questioni del socialismo postcomunista, insieme con la questione politica della Grande Riforma. E che ponga loro l'alternativa fra l'essere col Pds parte dell'oligarchia che difende la sostanza dell'esistente, o l'essere con l'unità socialista parte determinante del cambiamento e di una prospettiva riformista. P .S.: ~ullo stesso quotidiano che pubblica - come tutti gli altri - cronache desolanti sulle manifestazioni anti-albanesi che hanno coinvolto vaste masse di italiani, leggo un articolo di Luigi Manconi col quale si propone al Pds di incontrare «sul piano dei valori» il cardinal Martini e su quello della strategia politica l'onorevole Gava. Auguri a Manconi e al cardinal Martini. Gava non ne ha bisogno. P .S. n. 2: Ovviamente, sarebbe bene che gli amministratori socialisti che avessero eventualmente guidato manifestazioni antialbanesi venissero immediatamente deferiti ai probiviri. Scegliereil liberalismo senza litanie dell'alternativa di Giuliano Ferrara I 1Congresso socialista di Bari può correggere qualche tratto dell'immagine del Psi, una correzione opportuna anche in ragione delle deformazioni caricaturali e propagandistiche che i socialisti italiani subiscono da anni, ma non è destinato a cambiarne strategia e linea politica. E il centro strategico e politico dell'iniziativa socialista resta questo: da posizioni di governo, e di potere, far funzionare l'alleanza con la Dc come leva per la costruzione di una sinistra moderna. Che questa sinistra dell'alternativa e del ri- ~ 7 -- ---- - --- -- cambio debba ristrutturarsi intorno a un movimento di ispirazione socialista e liberale, capace di dire qualcosa di nuovo non al sistema dei partiti ma al Paese, mettendone in discussione la sonnolenza costituzionale di un interminabile dopoguerra, è un portato ovvio dei formidabili e troppo presto dimenticati avvenimenti dell'89. Un portato delle cose storiche al quale vanamente si cercherà di sfuggire. Dall'assemblea di fine giugno è auspicabile emergano un timbro e un tono nuovi nei rapporti con il resto delle forze progressiste e ri-

~.ll,BIANCO lXll,llOSSO iii•liiiit formiste, ma non è di una classicissima «svolta a sinistra», con relativo bla bla programmatico, che si sente il bisogno. Non ci si deve mai, per principio, abituare troppo all'uso inerte delle formule: anche «unità socialista», oltre che un motto simbolico del centenario '82-'92, è una formula dunque qualcosa di discutibile ed emendabile all'infinito. Ma nemmeno la litania dell'alternativa, o il gargarismo dell'unità della sinistra, risolve i problemi di una democrazia repubblicana bloccata da quasi mezzo secolo sulla centralità politica della Dc. Occhetto e il gruppo dirigente del Pds devono capire che il ricambio alla guida dello Stato deve essere il prodotto di una strategia comune ma differenziata, dentro la quale c'è posto per le autonomie di ciascuno ma in un ambito condiviso che è quello del socialismo europeo e occidentale, sulla traccia di quel liberalismo di sinistra di cui è stato espressione strategica, nel cuore del passato decennio, il governo Craxi. Al di là delle schermaglie polemiche, quando Massimo D' Alema riconosce sul giornale del suo partito che la politica di Berlinguer, la sua cieca e integralistica difesa del vecchio patto democratico, ha condotto le forze raccolte nell'ex Pci a una disfatta di portata storica, il più è fatto. Ma è capace il Pds di rendersi autonomo nei fatti dall'idea di un'alternativa azionista, cioè dall'ipoteca conservatrice e trasversale che veste i panni di uno scaltro moralismo allo scopo di sottomettere la sinistra italiana, vecchio sogno, all'egemonia dei mugwumps, i grandi capitribù che hanno sequestrato l'opinione pubblica affettando superiorità alla politica dei partiti? Se vogliamo centrare meglio l'interrogativo, poniamocelo così: è capace il Psi di attrarre quel che resta della vecchia tradizione comunista non già nella sua orbita elettorale e di potere, ma nella sua costellazione politica, nel suo progetto, nel suo ambito di cultura e di strategia istituzionale? Questo è il punto dolente della politica socialista: il nuovo corso originato dal Midas, in tutte le sue diverse fasi, ha conquistato posizioni, ha demolito punti di resistenza e chiusure storiche, ma non ha esercitato una sufficiente forza di attrazione, non ha raggiunto il livello di influenza e di persuasività intellettuale e politica che è decisivo in tutte le grandi opere di rinnovamento. La buona salute della Dc, che resta pur sempre un arcipelago paludoso, in attesa di composizione, dipende da questo in larga misura. Decorazioni contadine (Transilvania) Il partito-sistema, il partito-Stato, non cesserà le sue funzioni di collante del potere e del governo finchè a sinistra non nascerà un soggetto politico capace di ricomprendere e trasformare quelle funzioni. Gli italiani accettano l'Italia così come in questo mezzo secolo è stata fatta, e votano per la Dc, la dominante di questo sistema, in un giro stabile di consenso espresso in regime di legge elettorale proporzionale. Una parte potenzialmente maggioritaria di italiani vorrebbero però quest'Italia migliore, liberandola dall'ipoteca criminale nel Mezzogiorno, da iniquità sociali ancora grandissime, da una cattiva situazione dei grandi servizi, dall'informazione alla giustizia, dalle comunicazioni al fisco. Dimostrare a questa maggioranza potenziale che il cambiamento è realistico, utile e necessario è il compito dei socialisti. Un compito realizzabile, solo che ci si liberi dal complesso dell'assedio e si stabilisca una volta per tutte che non ci sono soltanto, in politica, posizioni da conquistare. Ci sono anche idee da proporre, alleanze naturali da coltivare, una serena forza d'attrazione da esercitare.

_i)-l), BIANCO '-Xli. ROS.',O iii•iii•d Dal Psi una strategia per la sinistra di Emanuele Macaluso e osa sarà questo Congresso del Psi? L'interrogativo è d'obbligo. Craxi aveva convocato quest'assise nel momento in cui erano prevedibili elezioni anticipate. Oggi questa ipotesi si è allontanata. Tre fatti politici hanno cambiato senso al Congresso: il successo del referendum; le elezioni siciliane; il mutamento di direzione dell'effetto Cossiga sulla pubblica opinione. Ma c'è un altro dato che non va trascurato: la Dc si è defilata bene dagli scogli del referendum e ha conseguito un grosso successo in Sicilia, modificando a suo favore i rapporti di forza col Psi. Tutti i giornali, nei giorni scorsi hanno messo in evidenza la sconfitta di Craxi nella vicenda referendaria dove si era impegnato per l'astensionismo. Ed è generale la considerazione, anche fra i suoi amici, che ha commesso un grosso errore. E gli errori in politica si pagano. Mancini gli ha rimproverato una identificazione con Cossiga che avrebbe nuociuto all'immagine autonoma del Psi e, aggiungono anche altri, avrebbe compromesso la stessa battaglia per il presidenzialismo. Ora io non credo che queste novità mettano in discussione l'autorità politica di Craxi nel Psi. Ma, non va sottovalutato il fatto che c'è una ventata anticraxiana che non può essere imputata a complotti. Ripeto: gli errori si pagano e i nemici e gli avversari o i concorrenti non collaborano: debbono utilizzare gli errori fatti. A questo punto l'attesa del Congresso è cresciuta: come reagirà Craxi? Come reagiranno gli altri dirigenti socialisti? Come si manifesteranno gli umori e i malumori della base e degli elettori socialisti? In definitiva un Congresso che si prevedeva come un momento tattico di una strategia in corso, si prefigura come un momento di riflessione sulla strategia. Dato che la direzione della rivista mi chiede cosa mi aspetto dal Congresso, dico subito che - 9 - ,..--=--- - - - -- mi auguro un dibattito e un confronto di respiro strategico. Un dibattito che metta al centro la prospettiva della sinistra in Italia. A mio avviso le condizioni per questo dibattito ci sono tutte. La crisi politico-istituzionale sembra di dimensioni tali da chiudere una fase della vita politica italiana. Molti parlano di Seconda Repubblica. Non mi pare che questo sia il tema che tra l'altro lacera la sinistra. A me pare che si chiuda una lunga stagione politica che si aprì col centro-sinistra. Non è questa la sede per una riflessione su una fase che dura da trent'anni. Dico, dura da trent'anni anche se ci sono stati l'interruzione del 1975 e gli anni della solidarietà nazionale. È vero anche che il decennio che va dall'ottanta al novanta non è uguale agli anni del centro-sinistra di Nenni e Moro, di De Martino e Rumor. Cambia la qualità del rapporto Dc-Psi. Ma non cambia l'asse su cui si regge la politica governativa e non cambia la motivazione di fondo data alla collaborazione Dc-Psi: la questione comunista. lo non discuto sulla validità di quella motivazione. Dico che è cambiata, radicalmente la «questione». È cambiata sul piano internazionale in forme imprevedibili e clamorose, tanto da modificare i temi centrali della politica estera di tutti i paesi dell'Est e dell'Ovest e il ruolo stesso dell'Onu. È cambiata sul piano nazionale non solo per il riflesso che la crisi del comunismo ha avuto in Italia dove pure c'era un partito che era diventato grande, forte e autorevole grazie ad una politica nazionale e democratica. Ma anche perché il Pci, nella sua maggioranza, ha avvertito l'esigenza di un «salto», di mutamento profondo mettendo in discussione se stesso e il suo nome. Voglio dire che la nascita del Pds e la richiesta di una sua adesione all'Internazionale socialista sono il fatto nuovo destinato a mutare la qualità dei rapporti a si-

,i>ll. BIANCO '-Xll.llOSSO iii•iil•d nistra e a superare le motivazioni che diedero vita al centro-sinistra. A mio avviso il Psi ha sbagliato a non cogliere sino in fondo questa novità. È vero che nel Pds le cose non si sono svolte in modo lineare. L'approdo del nuovo partito nell'alveo del socialismo europeo e i suoi lineamenti di forza socialista sono stati contestati. Tuttavia la proposta del Psi di «unità socialista» è stata vista, nonostante i chiarimenti che sono venuti da Craxi, come un allargamento del Psi. È chiaro che questa proiezione dell'unità socialista nei quadri e nei militanti del Pds ha provocato ripulsa o diffidenza. Anche perché sono mancati momenti di avvicinamento politico e una comune prospettiva di alternativa. Che senso ha un progetto di unità nel quadro di una forte, radicale conflittualità? Ora io penso che il Psi debba sciogliere il nodo dei rapporti col Pds per delineare una nuova strategia. Questo è il punto centrale. Anche se, a mio avviso, il Congresso dovrà affrontare i temi della società italiana. Insomma quali sono le idee di una sinistra moderna ed europea per dare soluzione ai problemi aperti, primo fra tutti quello del Sud? Questo in definitiva è il terreno su cui aprire una discussione che coinvolga non solo i due partiti - Psi-Pds - ma anche altre forze politiche e gruppi sociali. Bari, quindi, può essere un momento di svolta e non un ripiegamento. Psi-Pds: unità socialista per l'alternativa vera di Gerardo Chiaromonte D al Congresso del Psi vorrei che uscisse una scelta netta e inequivoca per l'unità della sinistra italiana. Non penso affatto che il Psi debba abbandonare, come un ferro vecchio, la parola d'ordine dell'«unità socialista». Non ritengo infatti che questa parola d'ordine appartenga a un passato lontano (si è fatto riferimento agli anni venti): primo, perché in quegli anni venti fu in primo piano non l'unità ma la divisione del movimento socialista europeo; secondo, perché la prospettiva dell'unità socialista non significa, di per sè, ignorare altre forze e gruppi di sinistra, laici e cattolici, ben al di là del Psi e del Pds. Ma questa molteplicità e complessità di forze della sinistra non può mettere in secondo piano l'importanza decisiva che avrebbe, ai fini del cambiamento della situazione politica, un'evoluzione positiva dei rapporti tra Pds e Psi. Se questo non avverrà, è abbastanza facile prevedere che i risultati delle elezioni regionali siciliane non resteranno un fatto isolato e che la Dc riesca a consolidare, soprattutto nel Mezzogiorno, le basi del suo dominio, superando anche le contraddizioni e gli ostacoli che oggi ha di fronte (compreso il problema delle «leghe» del Nord). lo spero che questa scelta unitaria a sinistra del Psi sia il frutto di una riflessione critica seria sulla politica che è stata seguita in questi anni, sulla opzione della «governabilità» insieme alla Dc, sulla conflittualità a sinistra (prima con il Pci e oggi con il Pds) che ha l'obiettivo del cambiamento dei rapporti di forza al1'interno della sinistra. L'esperienza dimostra, a mio parere, due cose: che l'avvio (che sta già avvenendo da molti anni a questa parte) di un cambiamento dei rapporti di forza elettorali nella sinistra non porta a un cambiamento in quelli fra la sinistra e la Dc; e l'alleanza di governo del Psi con la Dc (che dura ormai da un quarto di secolo) non solo non ha portato a nessuna politica effettivamente riformistica ma nemmeno a un'azione efficace per la soluzione dei problemi più drammatici, di quelle che sono diventa-

~JJ,BIANCO OL1tnosso Ui•ii••P Contadino della Bukovina (Iugoslavia) te vere e proprie strozzature della società nazionale (la crisi delle istituzioni, la delinquenza organizzata e il Mezzogiorno, il risanamento finanziario e il debito pubblico). Specie nell'Italia meridionale, del resto, il Psi può anche accrescere i suoi suffragi elettorali (anche se le elezioni regionali siciliane hanno dimostrato quanto siano fallaci le speranze di grandi balzi in avanti), ma rischia di diventare, sempre di più, una sorta di «appendice» della Dc, anche per quel che riguarda il suo modo di essere e di operare, la non limpidità e trasparenza dei suoi comportamenti, il suo assuefarsi a modelli (tradizionali e nuovi) della vita politica meridionale: il clientelismo, il trasformismo, la ricerca del consenso elettorale ad ogni costo. Deve sparire, infine, il sospetto che la parola d'ordine dell'unità socialista sia una specie di grimaldello per ricercare un'egemonia nell'ambito delle forze di sinistra, o per effettuare un assorbimento nel Psi di una parte, piccola o grande che sia, di altre forze e gruppi di sinistra. Riconoscersi insieme negli ideali e nei valori del socialismo democratico europeo :I 11 non significa oscurare o addirittura annullare la specificità, storica e politica, di altre forze di sinistra, a cominciare dal Pds, né cercare di imporre, come condizione per l'unità, le proprie analisi, proposte e temi politici (come quelle del presidenzialismo puro e semplice, o sulla situazione economico-sociale del paese). Le richieste che rivolgo al Congresso del Psi non avrebbero senso se non fossero congiunte ai cambiamenti che dobbiamo riuscire a determinare nella politica del Pds. Devono cioè essere superate le oscillazioni e le incertezze politiche che hanno caratterizzato, a mio parere, il passaggio dal Pci al Pds. Noi abbiamo operato un taglio, di cui abbiamo anche pagato prezzi non lievi. Ed è fuori dubbio che una discontinuità nei confronti di certe tradizioni e di certi dogmi della III Internazionale andava proclamata e perseguita. Ma questo non significa abiurare le migliori tradizioni nostre, di un partito che ha lottato per la restaurazione delle libertà democratiche contro il fascismo, per l'avanzamento democratico e sociale dell'Italia. Questo non possiamo e non dobbiamo farlo noi. Questo non ce lo può chiedere nessuno. Credo che sarebbe stato meglio per tutti se avessimo compiuto una scelta chiaramente e apertamente riformistica. E credo anche che per questa scelta bisogna lavorare. L'unità riformistica per cui lavoriamo deve significare certamente molte cose e deve comportare un dibattito aperto e franco, e anche vivace, fra due partiti che resteranno diversi, almeno in una prospettiva di medio periodo. Ma deve comportare, a mio parere, soprattutto una cosa: quella di avere un atteggiamento comune nel confronto-scontro con la Dc. Ho sempre sostenuto che è necessario mettere l'alternativa con i piedi per terra, cioè prevederne tappe intermedie, passaggi obbligati, anche governi di larga coalizione per affrontare quelle che ho prima chiamato le «strozzature» più pericolose e gravi della società e della vita politica italiana. Sono allora un «consociativista» inguaribile? Non credo. Sono convinto anzi che alcune esperienze del passato siano irripetibili. Penso che la scelta dell'unità a sinistra debba essere riaffermata con forza, e sempre, dal Pds, al di là e al di fuori di ogni concezione «trasversale» delle alleanze politiche. Cogliere il significato profondo e positivo dei risultati del referendum del 9 giugno non significa, né può portare a sognare schieramenti «trasversali» irreali e irrealizzabili. Ma

_i)!J, 111.\~CO l.X11, nosso iiiiiilib questo non toglie che il Pds e il Psi possano discutere e decidere insieme dei problemi della governabilità del paese e di quelli che comporta il confronto-scontro con la Dc: se stare insieme all'opposizione, se avere atteggiamenti diversi ma concordati, se puntare insieme a governi di larga coalizione, pur se transitori, a tempo determinato, e per risolvere certi problemi. Quello che è sicuro - ripeto - è che, se si resta alla situazione di oggi, è la Dc a guadagnarne. Mi auguro che il Congresso di Bari del Psi dia un contributo positivo a questo discorso unitario. Nuove alleanze per l'alternativa riformista di Franco lacono L e recenti consultazioni elettorali hanno confermato, comprese quelle siciliane, che l'attuale maggioranza di governo è condizionata, se non addirittura determinata, dal risultato elettorale del Mezzogiorno. Non è necessario disaggregare molti dati per considerare che, soltanto per quel che riguarda la Dc ed il Psi, la sommatoria delle percentuali conseguita nel Mezzogiorno supera addirittura il 60% mentre la media nazionale complessiva è del 48%. Il risultato delle elezioni siciliane ha immesso solo qualche variante, determinata dalla presenza della Rete, che appare un fenomeno «locale», concentrato per lo più a Palermo, ma il dato consolidato è che i due maggiori partiti sono la Dc e il Psi, fra i quali è inevitabile, io dico auspicabile, che si giunga ad una conflittualità complessiva e strategica. Non che ora non ci sia conflittualità, ma è di basso profilo, roba di cucina, che si gioca sul terreno di una quotidianeità asfissiante, fondata sulla mera gestione. La verità è che il Psi compete con la Dc sullo stesso terreno, lasciando poche speranze a chi pone una domanda di cambiamento profondo. Ma l'analisi non può essere né superficiale né schematica. La posizione del Psi, che al momento sul piano del risultato numerico è pagante, è «obbligata» dalla domanda della società, compresa quella cosiddetta «civile», che determina il proprio consenso sulla base del mero scambio voto-favore. Chi, senza solide alleanze, si avventurasse su di un terreno diverso sarebbe relegato, probabilmente, ad un ruolo di testimonianza. Naturalmente nessuno si rassegna a questa che, al momento, sembra essere una evidenza, anche perché le astensioni, fra le.quali, probabilmente si nascondono i fermenti e le potenzialità più vive, continuano ad aumentare fino a raggiungere a Napoli-città la percentuale del 35%, ma la stessa registrata in Sicilia del 28% non è da sottovalutare. Credo che proprio le astensioni, che sono alla ricerca di un riferimento, possano costituire un serbatoio, una sorta di riserva per chi volesse impugnare, davvero, la bandiera del rinnovamento della politica. Perché di questo si tratta. Un passo indietro: la Dc, scientificamente, ha sposato la strategia dell'assistenza, addirittura alimentando, direi provocatoriamente, il bisogno, nella convinzione che, governando il bisogno, si governa anche il consenso. Altro che liberare dal bisogno. E per questa «strategia» si è attrezzata: Pomicino, Scotti, Misasi, Lattanzio, Mannino, Gaspari, Mancino, Gava, Mattarella, De Mita, per parlare solo dei vertici, sono i protagonisti di una scelta scellerata, «confortata» dal consenso crescente. Una scelta che determinerà un processo di graduale marginalizzazione del Mezzogiorno dal

B _il.li, BIANCO '-Xli.ROSSO ill•iil•d resto dell'Italia e, naturalmente, dalla stessa Europa. Per misurarsi con questa Dc e con il suo sistema di potere c'è bisogno di nerbo, di uomini di forte temperamento, non di persone «tarate» o appesantite da un rapporto quotidiano con la stessa Dc, che, naturalmente, il «bambino» lo vuole uccidere in fasce, se è vero che il positivo risultato elettorale ,;;onseguito dal Psi in Pu- Contadina della Bielorussia (Urss) glia ha determinato la Dc a relegarlo alla opposizione. Volutamente non ho parlato delle altre forze politiche, perché di quelle cosiddette di «democrazia laica e socialista» si tratta prevalentemente di subalternità «centriste» alla Dc, mentre nel Pds per ora prevalgono, salvo rare ed intelligenti eccezioni, i furori antisocialisti e le spinte consociative. Quindi la «responsabilità» della inversione di tendenza possibile è prevalentemente del Psi, che al momento il problema non se lo è posto ancora, almeno non nei termini urgenti e pressanti che la questione merita. Ma il tempo di farlo è venuto e non solo perché c'è l' «occasione» del Congresso di Bari o la «riflessione» sui risultati recenti del referendum e delle elezioni in Sicilia: il problema attiene alla «qualità» del Mezzogiorno, al suo degrado civile, alla scadenza europea del '92, che rischia di marginalizzare ulteriormente questa area. Ma tutto passa per il rinnovamento della politica, per il recupero delle ragioni della politica, per la riconversione delle ragioni del consenso da una dimensione sostanzialmente clientelare all'altra più squisitamente politica. I socialisti possono guidare uno schieramento complessivamente di progresso, lo devono fare anche a rischio di ampie potature, che appaiono inevitabili soprattutto per recuperare credibilità. Parlavo di alleanze. La Chiesa si avvia a svolgere, almeno come messaggio, un ruolo sempre più importante. Ricordo la lettera dei Vescovi dello scorso anno, assolutamente puntuale, ed il forte discorso del Papa nelle sue visite a Napoli ed in Basilicata, allorché ha condannato senza mezzi termini l'assistenzialismo. Naturalmente senza nessuna «sanzione» per chi lo ha elevato a strategia! Ecco: la Chiesa, un alleato possibile. La Chiesa con i suoi mille fermenti, con i suoi mille preti intelligenti e coraggiosi, con i suoi tanti «volontari», che suppliscono in maniera, a volte, eroica alle insufficienze dello Stato, che, alla fine, finiscono per votare sempre e comunque la Dc, che riesce ad essere alternativa a se stessa presentandosi con le sue mille facce, una delle quali, sicuramente, va bene anche a questi protagonisti dell'azione della Chiesa. L'altro alleato possibile è la scuola, ma è sempre più difficile trovare entusiasmi in un ambiente frustrato da difficoltà di organizzazione, che alla fine (anche qui Pomicino fu «protagonista» come per i medici e per il pubblico impiego) trovano «consolazione» e ragioni di realizzare se stessi nel consistente aumento dello stipendio, eppure non vedo altri alleati possibili, intesi come istituzioni in grado di «formare» le coscienze. Si tratta, e non sarà semplice, di trovare credibilità verso l'una - la Chiesa - e dare motivazioni forti all'altra - la scuola - per un ragionamento complessivo, che investa soprattutto la «cultura» dei valori, finalizzata ad una diversa «civiltà» del tessuto sociale, fortemente condizionato dalla presenza della criminalità organizzata, che, quando non lo pervade del tutto, sicuramente genera fenomeni negativi, come l'indifferenza, l'individualismo senza respiro, che sfocia spesso in egoismo ed infine la rassegnazione. I risultati delle elezioni, a mio avviso, confermano la fondatezza del ragionamento: il partito, e mi auguro sia il Psi, che ne prenderà coscienza fuori dai tatticismi o dalle valutazioni meramente statistiche, diventerà il riferimento e la speranza per le energie, le intelligenze che non vogliono rassegnarsi ad un degrado senza fine e non vogliono leggere più che gli elettori hanno votato per la «stabilità».

~-li-BIANCO lXll,HOSSO iii•iih•il Contratti: responsabilità,realismo di Giancarlo Lombardi Q uando queste riflessioni saranno sotto gli occhi dei lettori, il confronto tra governo e parti sociali sul costo del lavoro avrà già probabilmente preso una piega che, mentre scrivo, è difficilmente prevedibile. Sono stato sempre contrario alla logica dello scontro e al1'approssimarsi della scadenza del 20 giugno ho avuto modo di chiarire che piuttosto che di una contrattazione «vecchio tipo», il confronto tra governo e parti sociali avrebbe dovuto avere il carattere di una concertazione. Negli ultimi giorni ho potuto apprezzare il graduale superamento dell'iniziale approccio polemico. L'accordo deve infatti avere un respiro non polemico. Bisogna individuare un obiettivo e collaborare senza pregiudizi per raggiungere un risultato che aiuti la crescita del Paese. Il problema vero insomma è il ruolo dell'Italia e il futuro della nostra economia. Efficienza delle imprese, qualità dei servizi, potere d'acquisto dei salari si può dire che riguardino la stessa barca. Ma, se non devono esistere impostazioni pregiudizialmente polemiche, non possono esistere neanche tabù. La scala mobile non esiste in nessun altro Paese europeo, dunque non si può dire che sia intoccabile. C'è un problema di potere d'acquisto dei salari, ma c'è un altrettanto serio problema di superamento degli automatismi e delle indicizzazioni per restituire ruolo e peso alla contrattazione tra le parti sociali e raggiungere così gli obiettivi - questi sì davvero comuni - di lotta all'inflazione, sviluppo dell'economia, difesa dell'occupazione. Questo negoziato deve essere giocato a tutto campo, perché può costituire un'occasione davvero rilevante per dimostrare che le parti sociali possono concorrere a migliorare efficienza economica e qualità della vita nell'azienda Italia. Uno degli oggetti da non trascurare è sicuramente la situazione del costo del lavoro nel settore pubblico, sia per la gravità della situazione in sé che per l'effetto di trascinamento che certe rincorse retributive hanno sul settore privato. Non si può archiviare con faciloneria la recente denuncia del Governatore della Banca d'Italia che sottolinea come deficit, costo del lavoro e inefficienza dei servizi stiano bloccando lo sviluppo del nostro paese. Il pubblico impiego ha avuto un incremento retributivo annuo del 15%, nove punti in più dell'inflazione e questo ha fatto crescere anche nel settore privato il costo del lavoro per addetto a tassi superiori di 2-3 punti rispetto alla Francia o alla Germania. Negli ultimi dieci anni la forbice tra il salario medio dei dipendenti pubblici e quello degli impiegati e degli operai dell'industria si è notevolmente allargata: nel '79 in media i dipendenti pubblici erano pagati il 6% in più e oggi sono arrivati al 16,8% in più. Ma, quel che è più grave, nei dieci anni presi in esame, mentre la produttività dell'industria è salita del 30,8%, quella dei dipendenti pubblici è addirittura diminuita dell' 1,8%. L'investimento dello Stato per il servizio scolastico - una parte del settore pubblico che, per l'incarico ricoperto in Confindustria, mi interessa da vicino - raggiunge i 60 mila miliardi e il nostro corpo docente è tra i più numerosi d'Europa. Eppure l'aumento del costo del servizio non è in alcun modo legato al miglioramento della sua qualità. Io credo che non solo gli imprenditori, ma anche i sindacati, abbiano il dovere di affermare che la partecipazione dell'Italia all'Europa, dove la concorrenza si gioca tra sistemi e non solo tra imprese e prodotti, non è compatibile con l'esistenza di settori nei quali la qualità dei servizi si abbassa e l'andamento retributivo ignora ogni compatibilità economica.

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