Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 17 - giugno 1991

L. 6000 m•·n~il•· di dihattilo polili<'o Anno II sommario giugnol991 1 4 5 6 !) 10 12 22 25 60 EDITORIALE: «Tirare a campare»? Forse non basta più••• ATTUALITÀ: L'imbroglio referendario, di P. Carniti Cgil: nonostante tutto a Congressoper l'unità, di O. Del Turco Dove va la Cisl?, di P. Giammarroni Dal ''fronte" della salute, di T. Petrangolini Devianza minorile: urgenze e ritardi, di A. Quaglia "Centesimus Annus": un passo avanti per tutti, di G. Gennari n Papa, l'Italia, Craxi:paure di... bottega, di G. G. DOSSIER: Fondi pensione e democrazia economica, Interventi di E. Giuliani, F .P. Conte, P. Settimi, F. Cesarini, S. Ammannati, G. Gaboardi, G. Laudini, M. Colombo, F. Bentivogli, R. Bruni, M. Ricciardelli, M. Bertin L'EUROPA E IL MONDO: Gue"a del Golfo eproblemi del lavoro, di L. Frey La Guerra del Golfo è solo l'inizio, di R. Boudjedra 64 Kurdi: un popolo senza patria 65 Albania a rischio: la nostra responsabilità, di M. Ma- 67 gnani Noya Jugoslavia: disunione continua? di M. Pellegrino 68 Sindacati africani: l'ora dellegrandi scelte, di E. Friso 70 Oltre il soggiorno: accoglienza e politica migratoria, 71 di L. e F. Pittau DOCUMENTO: Lo sguardo degli altri, di J. Amery 75 SCAFFALE: Del Turco e le radici del riformismo, 78 di G.G. Libri ricevuti 7.9 VITA DELL'ASSOCIAZIONE: Bologna: Assem- 80 blea Nazionale (22 giugno 1991) Milano, 3 maggio: ReS sull'unità sindacale 81 IMMAGINI Vecchi mestieri ALL'INTERNO SUPPLEMENTO ESTRAIBILE: GUIDALLE RIFORME ISTITUZIONALI, diE.Rotelli «Tirare a campare»? Forse non basta più ... Q uesta doveva essere la legislatura delle riforme istituzionali. Ormai sappiamo che non sarà così. Il primo punto del programma del cinquantesimo governo della Repubblica consiste, infatti, nell'accantonamento delle riforme istituzionali. Se si fosse insistito si sarebbe andati allo scioglimento delle camere. Il che, forse, non era l'esito peggiore. Anche la soluzione dell'ultima crisi conferma, perciò, che il connotato prevalente della situazione politica italiana è la staticità. Il movimento è vissuto come una patologia. Ed esso

i)JJ, BIAI\CO '-Xli.ROSSO lih•ki)Aiiil evoca sempre, con qualche brivido di preoccupazione, il «decisionismo», la «democrazia governante». In realtà il problema vero, assai più delle decisioni che vengono prese, sono le decisioni che non si possono prendere. Nell'ambito degli attuali equilibri, le forze politiche di maggioranza, più che esprimere solidarietà e convergenza per realizzare un progetto, o anche soltanto un proposito, sembrano più inclini a paralizzarsi, a neutralizzarsi reciprocamente. Si supplisce così alla mancanza di una strategia comune inasprendo i toni della polemica. Ma una polemica più aspra del necessario se resta priva di una prospettiva, di uno sbocco, acuisce soltanto le contrapposizioni, l'impotenza e la paralisi del sistema pubblico. Il che porta al logoramento del rapporto società-istituzioni. Porta ad un diffuso disamore, ad un crescente rifiuto della politica. Perché essa perde ogni significato percettibile ed appare sempre più l'espressione di calcoli elettorali e di potere anziché dell'esigenza di risanamento, di equità, di giustizia. In queste condizioni nessuno dei problemi fondamentali del paese può essere seriamente affrontato. Appare quindi piuttosto irrealistica anche l'idea consolatoria con cui si è giustificata la deludente conclusione dell'ultima crisi di governo di porre mano, innanzi tutto, al «risanamento» della finanza pubblica per poi «rigenerare» le istituzioni politiche. Si tratta di un prima ed un dopo che non può avere fondamento. Quella finanziaria e quella istituzionale non sono due crisi distinte, ma due facce della stessa medaglia. Del resto, sulla base di un'esperienza ormai quasi cinquantennale, non si vede assolutamente come il nuovo governo, con gli attuali meccanismi di spesa e l'attuale modo di formazione delle decisioni possa (oltretutto in un anno elettorale) fare qualcosa di serio per risanare la finanza pubblica. A questo riguardo vengono in evidenza anche i limiti, l'inadeguatezza delle norme finanziare contenute nella Costituzione. Il modello sottinteso all'articolo 81 della Costituzione (più tassazione che indebitamento) non ha mai funzionato molto. Ma ora è degenerato a tal punto che l'espansione abnorme del deficit produce un deficit di democrazia. Non perché comporti una riduzione delle libertà, ma perché determina una abnorme diminuzione della responsabilità politica. Un conto infatti è finanziare la spesa pubblica con tasse pagate in proporzione da tutti i cittadini e perciò indotti a controllare ed a chiedere conto della quantità e della qualità della spesa. Un altro conto è finanziare la spesa con l'indebitamento. Con lo Stato che chiede in prestito ai cittadini i soldi che non è in grado, o non vuole, prelevare con le tasse. Questa degenerazione è arrivata al punto che le tasse non bastano nemmeno ad ammortizzare il debito. Che viene così incrementato dagli interessi. Senza contare che le procedure di spesa sono talmente flessibili, talmente adattabili, che consentono a chi governa oggi di impegnarsi anche per chi governerà domani. A chi non governa anche per chi governa. Per ristabilire il primato della tassazione sulla spesa (che era nelle intenzioni dei Padri Costituenti) bisognerebbe almeno prevedere un limite all'indebitamento, unitamente al trasferimento ai governi locali di quote adeguate del potere di tassazione. Nessuno riesce però a vedere come in questo residuo di legislatura simili problemi possano trovare una soluzione. Nella migliore delle ipotesi il governo in carica non è in grado di fare altro che ricorrere affannosamente il deficit pubblico. La manovra economica di primavera è alle spalle, ma per sistemare i conti si dovranno adottare altri aggiustamenti in corso d'anno. Non a caso si parla di una fase due entro l'estate. Subito dopo si dovrà discutere della finanziaria del '92 per la quale il buco annunciato è, più o meno, di 50.000 miliardi da coprire, come al solito, con nuove entrate e tagli di spesa. La situazione è così deteriorata che cambiare il corso delle cose comporta un impegno non facile e non breve. Può essere perciò cattiva abitudine quella di chi immagina, in un modo o nell'altro, un'ora od un gesto risolutivi. Ma il meno che si può dire è che un governo che per durare accantona i problemi invece di affrontarli non serve a molto. • • •

ilJJ, 81:\:\CO "-Xli.ROSSO Un numero verde • • per avv1c1nare aziende ed utenti UnNumero Verde permettersi al centro dell'attenzione: è uno slogan che riassume sinteticamente i vantaggi di questo servizio SIPche permette ad Enti ed Aziende che ne sono dotate di ricevere telefonate con addebito a proprio carico, semplificando e stimolando inquesto modo i contatti con gli utenti e gli interlocutori. Chiunque abbia bisogno di informazioni può chiamare quindi da qualsiasi località italiana senza alcun costopoiché !'intero importo della chiamata urbana o interurbana sarà automaticamente addebitato al titolare del Numero Verde. Basta selezionare da qualsiasi telefono pubblico o privato il numero 1678,seguito da altre cinque cifre distintive del- !'azienda, per avere via libera alla comunicazione, senza dover comporre alcun prefisso teleselettivo, ilservizioè infatti caratterizzato da una numerazione unica nazionale. Utilizzatoda anni con successo in tutti iPaesi industrializzati,ilNumero Verde dà la possibilità a tutti coloro che vogliono avere un rapporto privilegiato con la propria clientela di stabilire un filodiretto con gli utenti, dando al tempo stesso l'immagine di un'organizzazione moderna ed efficiente in grado di rispondere in tempo reale ad ogni esigenza. L'esperienza ha infatti dimostrato in tutto il mondo che ilpoter disporre di un servizio di addebito automatico al chiamato induce il cliente a rivolgersi a chi utilizza questo servizio, considerato un mezzodi comunicazione semplice ed efficace. Al Numero Verde, attivato da SIP nel 1987, sono attualmente collegate circa 3000aziende, un risultato assai maggiore di quello inizialmente previsto per i primi due anni di servizioe che sottolinea come questo servizio rappresenti uno strumento fondamentale di promozione e di marketing. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale degli utenti, ilnumero maggiore risulta localizzatonelle zone del Paese più sviluppate economicamente. A questo proposito in testa alla classifica degliabbonati al Numero Verde c'è ildistretto di Milano con il 32,7%delle linee totali dedicate a questo servizio, al secondo posto gli utenti del distretto di Roma con il 15,5%. I principali settori merceologici interessati al serviziosono, nell'ordine, il commercio all'ingrosso, le agenzie di viaggio, l'industria manifatturiera, l'editoria ed ilsettore finanziario. IlNumero Verde è una carta importante da giocare nel campo della comunicazione, una vera e propria porta aperta verso il consumatore finale di qualunque prodotto/servizio.Strumentoeccezionale per le ricerche di mercato e per i sondaggi di opinione, questo servizio permette di migliorare i rapporti con la propria utenza e facilita la comunicazione interna dando al personale la sicurezzadi potersi mettere incontattocon la sede centrale, inqualunque momento e per qualsiasi esigenza. La possibilità di avere dati dettagliati sul traffico telefonico, inoltre, fadel Numero Verde un efficace mezzo di marketing, con il quale è possibile, ad esempio, allargare la propria rete di distribuzione e valutare l'efficacia di approcci pubblicitari opromozionali. Per rispondere alle diverse esigenze dell'utenza interessata al Numero Verde, SIPha previsto varie possibili configurazioni, sia in termini di ripartizione in aree geografiche, che di modalità operative di funzionamentodel servizio. Il Numero Verde è infatti articolato secondo un servizio di base, che consiste nel collegamento gratuito e privilegiato, e secondo una serie di opzioni aggiuntive che consentono di realizzare configurazioni idonee alle differenti necessità. Il servizo di base può essere monosede, inquesto modo tutte le chiamate in arrivo vengono instradate verso tale sede, omultisede e inquesto caso le comunicazioni vengono indirizzate, in base alle aree geografiche di provenienza, verso la sede che il titolare ha designato come territorialmente competente. Tutti gli Enti e le Aziende a struttura decentralizzata possono inquesto modo razionalizzare i propri interventi. Le opzioni aggiuntive del servizio Numero Verde prevedonso varie altre possibilità. L'instradamento delle chiamate può essere variato automaticamente, in funzione del giorno (feriale o festivo) NUMEROVERDE IUU:d 1I1I1I1II dell'ora e del distretto chiamante, tra due possibili destinazioni(principale ed alternativa). Tale opportunità risulta particolarmente adatta per Società con più centri di serviziodistribuiti sul territorio. Il servizio può essere parzializzato, sbarrando le chiamate provenienti da determinare aree inbase alle esigenze del- !'utente. Un'altra delle opzioni aggiuntive al Numero Verde è la documentazione scritta delle comunicazioni. Per ciascuna chiamata vengono fornitesu tabulato la data e l'ora della telefonata, la località dalla quale ha avuto origine ed ilnumero degli scatti effettuati. La documentazione degli addebiti può rappresentare un valido strumento per! 'utente, sia per una agevole ripartizione dei costi che per una valutazione del grado di risposta di varie zone del territorio alle strategie commerciali messe in atto. IlServizioNumero Verde è realizzato tramite la Rete Fonia Dati appositamente introdotta da SIP per rendere disponibili all'utenza più qualificata diversi servizi evoluti. Non richiede alcun equipaggiamento specifico nella sede d'utente, vengono infattiutilizzati per il collegamento i normali apparecchi telefonici multifrequenza o i centralini già in dotazione. In molti casi è inoltre possibile collegarsi tramite le normali linee telefoniche usufruendo quindi di quelle già esistenti nella sede. Il Numero Verde ha inoltre costi molto contenuti a fronte dei molteplici vantaggi che presenta. Oltre al contributo di attivazione al canone mensile, che varia infunzionedella configurazione del servizio richiesto, viene tassato in base agli scatti come qualsiasi interurbana.

{)li. BIANCO (X11, Il.OSSO iii•iiliQ !.!imbroglioreferendario di Pierre Camiti Man mano che ci si avvicina al 9 giugno i promotori del referendum, per limitare ad una le preferenze per l'elezione dei Deputati, tendono a caricarlo di arbitrari significati politici. L'offensiva propagandistica non sembra conoscere limiti. Si è giunti così a presentarlo come un «colpo alla partitocrazia» e l'inizio della «riforma elettorale». Per i più audaci costituirebbe addirittura l'avvio della «riforma istituzionale». Come capita sempre (e non solo in politica) il «pensiero debole» produce toni enfatici e ridondanti. Ma poiché i fatti valgono (o dovrebbero valere) ben più di una montagna di chiacchiere, è bene stare ai fatti. Dei tre referendum per i quali erano state raccolte le firme (Senato, Comuni, preferenze) quello per rendere nominativa e ridurre ad una le preferenze nell'elezione della Camera dei Deputati era, per ammissione dello stesso comitato promotore, la meno importante. Ma, disgraziatamente, era anche l'unico quesito, dovendosi utilizzare il metodo del referendum abrogativo, che potesse essere formulato per la Camera. Tuttavia, le scelte obbligate raramente sono anche le più opportune. I promotori spiegarono, a suo tempo, la logica del quesito sulle preferenze con l'esigenza di rendere più difficili i brogli ed impedire la formazione di cordate di candidati che sarebbero tra le cause della frammentazione dei partiti in correnti. Ma il rapporto di causa ed effetto tra sistema delle preferenze e proliferazione delle correnti non deve essere però meccanico come sostengono i promotori del referendum, visto che anche in Francia dove i collegi elettorali sono uninominali (e quindi non si danno preferenze) i partiti sono angustiati e non di rado paralizzati dalle correnti. Se l'aspirazione è comunque apprezzabile, bisogna però dire che la soluzione ipotizzata la contraddicono profondamente. Nessuno duPanettiere- Neive, Piemonte bita della necessità di arrestare un degrado altrimenti mortale. Quello che è in discussione non è la meta, ma la strada. La strada maestra resta quella delle riforme istituzionali, mentre quella proposta con il referendum è deviante. Anzi, porta nella direzione opposta. Con una sola preferenza sarebbero, infatti, avvantaggiati gli uomini del «potere» o delle «lobbies». Ciascun deputato saprebbe esattamente la coalizione di interessi che lo ha eletto. Ed è difficile dubitare che non ne terrà conto. Si deve anche aggiungere che poiché la selezione avverrebbe sulla base delle risorse economiche che ciascun candidato riuscirà a mobilitare, da un simile cambiamento non possono che avvantaggiarsi i più ricchi ed i più corrotti. Se si attuasse la modifica chiesta dal referendum non è, infatti, difficile immaginare che invece di una maggiore moralizzazione della vita politica la corruzione per accaparrarsi l'unica preferenza aumenterebbe a dismisura. Poiché, dunque, il referendum del 9 giugno più che inconsistente è del tutto deviante e contraddittorio con ciò che va fatto per avviare un concreto risanamento delle nostre istituzioni politiche, si deve solo concludere che non possono esserci risposte giuste a domande sbagliate.

{)JJ, BIANCO ~li.BOSSO iiiiiilid Cgil: nonostante tutto a Congresso per l'unità di Ottaviano Del Turco Dopo una lunga e travagliata fase, iniziata con il «dissolvimento» della componente comunista, il congresso della Cgil ha preso il via con lo svolgimento delle assemblee di base. In virtù di questa premessa, per la prima volta nella storia della Cgil il dibattito si svolge su mozioni contrapposte, con una articolazione di posizioni che ha prodotto molte novità ed anche qualche complicazione nelle modalità di svolgimento della discussione e delle votazioni. Non c'è dubbio che per migliaia di iscritti e militanti sarà un congresso difficile; in effetti è in gioco oltreché la definizione di una strategia una identità per l'organizzazione, che coinvolge le esperienze di vita di molti suoi iscritti. Il «dissolvimento» comunista ha rimosso un principio costitutivo della Cgil che non attiene solo al metodo di governo interno e dei rapporti tra le componenti tradizionali. La conseguenza di questa rimozione è data dalla formazione di una minoranza nella quale si sta consolidando la posizione di coloro che nella Cgil non vogliono rinunciare ad una identità politica, e quindi ripropongono una strategia di valori e di azioni che a quella si ispira. Una minoranza che si configura come un fronte del rifiuto, una coalizione di forze accomunate da ciò che temono e da ciò che non vogliono, dalla incapacità di ammettere una esigenza di cambiamento e di evoluzione dei propri schemi di analisi della realtà, che non rinuncia alle suggestioni di un modello perduto. In queste condizioni il confronto congressuale è difficile, duro e, spesso, improduttivo di uno scambio critico tra maggioranza e minoranza. Il compito di ridefinire una identità e una strategia di valori, principi e regole per la Cgil spetta quindi a coloro che si riconoscono nelle tesi di maggioranza. Una maggioranza aperta che nel corso dell'esperienza congressuale dovrà consolidarsi sulle «motivazioni» delle proprie scelte programmatiche. Forse è il caso di tornare a riproporre i passaggi obbligati, i punti fermi di una strategia sindacale che alcuni di noi hanno definito riformista: il mercato, l'autonomia dell'impresa, i rapporti tra sindacato ed istituzioni, il ruolo dello Stato nell'economia e nella società civile, l'unità sindacale e la democrazia sindacale. Su questi elementi ci sono aspetti che potremmo definire non suscettibili di compromesso. È su questi punti fermi o valori che si misura il superamento di un retaggio culturale che nel passato ha spesso fatto vivere l'esperienza sindacale come un contro-progetto, invece dell'approdo ad una concezione del conflitto entro i limiti e gli orizzonti di una società aperta. Definire questa prospettiva strategica come una scelta moderata, è una caricatura di comodo che rischia di far degradare e immiserire il dibattito congressuale; un dibattito nel quale maggioranza e minoranza non dovrebbero perdere il rispetto di sé stesse. Comunque il senso di marcia, nonostante le difficoltà, si viene comunque definendo, come dimostrano i primi risultati congressuali. C'è un significato nelle esperienze di questi ultimi tempi, un senso nel nostro agire quotidiano, da cui emerge una direzione di marcia e un orientamento strategico. È da questo orientamento che si manifesta la consapevolezza sempre più netta che l'azione del sindacato ha un vincolo di compatibilità interna (ad esempio tra pubblico e privato, tra attivi e pensionati, ... ) e un vincolo di compatibilità esterna con le politiche di bilancio (inflazione, fisco, spesa pubblica, ... ). Questi vincoli debbono tradursi in coerenze

.{)!I, Bl.\:\ICO lXll,HOSSO iiikiiiib rivendicative e propositive. Una strategia sindacale di solidarietà e di diritti si esprime innanzi tutto in queste coerenze e non in una facile sommatoria di interessi. Il principio di solidarietà è in primo luogo un principio di trasparenza che non si risolve nel vecchio compromesso consociativo di giusto e ingiusto, di vecchio e nuovo, di marginalità con corporativismo. Può sembrare astratto e snobistico un riferimento ai modelli culturali, ma la scommessa aperta con il congresso Cgil sta anche nell'abbandono di questo retaggio consociativo. Altrettanto essenziale appare la capacità di rielaborare una cultura dell'unità sindacale, con una riflessione che parta dalla constatazione che non ci sono più divergenze, o diff erenze politiche, o identità, che impediscono di prevedere questa possibilità. Si può dire di più: restare divisi è una prospettiva senza senso. È impossibile restare divisi, a meno di un calcolo meschino sul ruolo della Cgil e del sindacato in un'ottica da Cgt. Il congresso Cgil può essere l'occasione per ricreare il bisogno, il desiderio, la necessità di essere uniti. Dove va la Cisl? di Paolo Giammarroni I l cambio della guardia tra Franco Marini e Sergio D' Antoni alla guida della Cisl, con la promozione di Raffaele Morese a segretario generale aggiunto, è avvenuto senza traumi. La soluzione maturava da tempo e se ne discutevano solo le possibili scadenze. L'improvvisa morte di Donat Cattin ha solo accelerato una scelta personale di Marini, non ignota all'organizzazione, verso l'attività politica nella Dc. Solo la Confindustria è rimasta imbarazzata e sorpresa dalla quasi contemporanea scelta di Marini come ministro del Lavoro, piuttosto che del Mezzogiorno (a cui lui stesso sarebbe andato con minori remore), in un governo dove lo stesso partito ha confermato un ex-manager privato come Guido Carli al Tesoro. Ma dove va la Cisl del dopo-Marini? Larisposta deve essere necessariamente articolata. Troppi i fattori in campo per avventurarsi in profezie. Allo stesso tempo mancano particolari segnali «pubblici» che si possano valutare nel merito. L'avvicendamento assume oggi un aspetto «naturale», eppure sarebbe arduo spiegare dove e come esso sia stato deciso. La consultazione ha avuto andamenti rapsodici, senza sviL ... - --- - - - - -- <> luppare quel dibattito politico interno agli organismi che permettesse di avere un reale arco delle posizioni esistenti. Di certo il passaggio appare non traumatico e dunque moderato più di quanto i tempi stretti dell'operazione possano far pensare. Più che interrogarsi se altre soluzioni fossero possibili o auspicabili, qui vale la pena segnalare alcuni punti critici, su cui da subito il «ricambio» dovrà fare i conti e mostrare la propria validità. Il gruppo dirigente. Si parla di un avvicendamento a tempi rapidi di gran parte dell'attuale segreteria confederale, vuoi per scadenze di mandati, vuoi per scelte personali. Il prossimo congresso potrebbe definitivamente sancire un gruppo dirigente di 40enni. L'elezione di D' Antoni e Morese appare in questa dinamica, allo stesso tempo, l'ultimo atto di un precedente processo interno (quello che portò ai vertici Camiti e Marini) e il primo di una fase nuova, di rimescolamento delle carte. Come verranno scelti i prossimi dirigenti? Chi conosce la Cisl da vicino sa che qui il consenso è una cosa seria, difficile da improvvisa-

{)JJ. BIANO) '-Xll,llOSSO iii•iiliit Molinaio - Val Camonica re. Eppure, qui come altrove, le consuetudini contano e il nuovo tandem dovrà potere contare su uomini fidati. Con quali equilibri interni? Con quali criteri di selezione? Ad oggi mancano elementi per una valutazione. Sappiamo però che né D' Antoni è il perfetto erede di Marini, né Morese è un puro seguace di Camiti, ammesso che questi termini significhino qualcosa per il normale lavoratore sindacalizzato (per non dire l'uomo della strada). D' Antoni fu presentato, al suo ingresso «rampante» nella segreteria confederale nel 1983, come «carnitiano», per poi essere identificato come un «demitiano» per aver sostenuto i Mattarella in Sicilia e oggi come «forzanovista» per aver sostituito l'erede di Donat Cattin. Sarà lui a spiegare meglio, coi fatti, la sua autonomia dalla Dc e a rivendicare a quali «padri» si sente più legato. Morese è maturato nell'esperienza metalmeccanica, ma, da anni, ne ha accettato la perduta centralità nell'ispirazione culturale del movimento sindacale, sapendo dialogare con tutte le varie aree che «a sinistra» nella Cisl hanno avuto qualcosa da dire (con sempre meno fiato, per la verità). In buona sostanza, entrambi sono cresciuti e emersi nel pieno della dialettica, prima feroce, poi più morbida, che ha caratterizzato la Cisl dai primi anni Settanta in poi. Nessuno dei due si presenta come un puro «continuatore» di anime interne o esperienze precedenti. È probabile che la scelta del nuovo gruppo dirigente seguirà strade diverse dal passato, valorizzando esponenti di Cisl locali o di categorie di minor peso. Resta tutto da definire il tipo di rapporto che le vecchie anime riusciranno a garantirsi in questa fase intermedia. Gli organismi. È uno dei temi meno dibattuti e sentiti tra i sindacalisti in genere. Parlo dell'involuzione delle «istituzioni» sindacali. Ognuna delle ultime fasi, almeno dall'inizio degli anni Ottanta, ha richiesto una forte assunzione di responsabilità del leader confederale. In lui hanno visto una sintesi chiara i lavoratori, ha potuto orientarsi la stampa, ha avuto un'interfaccia precisa ciascuna controparte. Gli organismi sono sempre più vissuti come momenti di passaggio, sedi meramente consultive, occasioni di maturazione di un gruppo dirigente omogeneo o (nei casi peggiori) omologato. Almeno nella Cisl il gusto della discussione si è spostato tutto fuori delle sedi legittime. Le necessità di ricomposizione, sia interna che verso l'esterno, tipiche dell'ultima fase mari-

.QJJ, BIANCO lXll,ROS.SO iii•iilMQ niana, hanno indubbiamente pesato in questa decadenza. Eppure appare poco plausibile una Cisl che, per prima nel recente congresso (il documento Confindustria è solo di pochi mesi fa), fa pesare anche le forze sociali nel dibattito sulle Riforme istituzionali e poi gestisce i problemi di democrazia interna sempre come ordinaria amministrazione. Un problema in più, per la Cisl, su questi temi è rappresentato dai tempi stretti fissati nel recente accordo interconfederale sulle nuove Rappresentanze unitarie sui luoghi di lavoro. Il modello scelto riprende e seleziona le esperienze maturate soprattutto nel settore industirale: tutto il settore agricolo e del pubblico impiego si trova a smantellare la propria vita aziendale precedente a livello sindacale. Settori dove la Cisl ha un peso e un rilievo di tutta evidenza. Saprà il nuovo gruppo dirigente avviare l'operazione trasparenza e di nuove regole, in tutte le realtà sindacali? Le strategie. Più arduo è «misurare» il cambio nei termini dell'allargamento o restringimento degli orizzonti di azione. Per la verità, Marini aveva fatto del «basso profilo» una oculata tattica negli incerti anni che abbiamo trascorso, riuscendo in una serie di ricuciture nei rapporti esterni, con successi pratici (fiscal drag, formazione-lavoro, patto per il Sud) non secondari. Ad oggi D' Antoni ha prodotto quasi esclusivamente un solo testo a carattere strategico, la relazione al Consiglio generale del dicembre 1990. In essa enfatizza come «abbiamo nomi per conflitti che non ci sono più, e nascono conflitti per i quali non abbiamo nomi». Davanti alla complessità sociale e alla frantumazione delle solidarietà, si lavorerà secondo le eredità ricevute, ma senza sicurezze precostituite. L'elenco dei problemi è tutto delineato: le scelte economiche, la riforma del welfare state, il Mezzogiorno («frontiera di tutta la Cisl»), la politica dei redditi e le nuove regole da definire con la Confindustria, l'estensione della cittadinanza (cioè un sindacato sempre più «portatore di bisogni generali dei suoi associati», e non solo agente negoziale) e, sul fronte interno, la difesa della «nuova progettualità» tutta da costruire, anche rivalutando il ricorso alle leggi e non solo alla contrattazione. Un'ulteriore ridimensionamento del ruolo delle categorie? ~- ---- - --- -- 8 Raffaele Morese è tra quelli che più ha lavorato in questi mesi perché la Cisl maturasse al proprio interno una piattaforma tempestiva e originale in vista del «mitico» appuntamento di giugno: soprattutto per evitare che si riduca ad un pallido braccio di ferro sulla scala mobile depotenziata, ma anche per rialzare da subito la sensibilità collettiva sull'interconnessioni di ogni discorso su contrattazione-salari-fiscooneri sociali. Concludendo. È probabile che, sul piano delle strategie da definire, il nuovo tandem cislino funzioni, con quel tanto di reciproca integrazione tra culture e caratteri che sempre ci vuole. D'altro canto, la sfilza di sfide per il sindacato occidentale è tale che nessun buon programma scritto a tavolino potrebbe esorcizzarla in partenza. Tutto da scrivere è poi il futuro rapporto della Cisl, non solo e non tanto con la Dc, quanto con l'insieme del mondo cattolico: un rapporto in definitiva poco indagato, vivo in periferia e incerto al centro, alimentato da nuovi militati e non sempre rivendicato in chiave «laica» nei momenti di elaborazione. Si può chiudere, in chiave di metafora, proprio con un riferimento tra il politico e il religioso. È un racconto del narratore ebreo S.J. Agnon, ripreso da G.Scholem nella sua storia della mistica ebraica, che può adattarsi al clima di questa fase sindacale. Un antico rabbino quando doveva assolvere un compito difficile, conosceva un luogo preciso nel bosco, accendeva un fuoco, diceva certe preghiere e tutto andava per il meglio. Una generazione dopo, un altro rabbino si recava nel bosco, non sentiva l'esigenza di fare un fuoco, ma le preghiere erano sufficienti. Nella successiva generazione, il nuovo rabbino ammetteva di non saper più legare le preghiere e le meditazioni, credendo però nella forza del recarsi nel posto giusto. Infine, nella generazione, più recente, un rabbino prendeva atto di non sapere più nulla né del luogo, né del fuoco, né delle preghiere: ma di avere ancora la fede per raccontare questa storia. Potrà dunque nascere un nuovo mix grazie al cambio al vertici? Il terreno per farlo c'è già: si chiama «partecipazione» e va individuata con più forza e meno genericità. Il retroterra culturale per alimentarlo, volendo, si può fecondare: è l'incrocio tra il solidarismo cattolico e il pensiero liberaldemocratico.

_{)_fJ, BIANCO l.Xll.llOSSO iii•iilib Dal <<fronte>> della salute di Teresa Petrangolini ' E con un certo stupore che la stampa ha reagito ai primi dati del rapporto sullo stato dei diritti dei cittadini nel Servizio sanitario nazionale, realizzato quest'anno per la prima volta dal Movimento federativo democratico, in collaborazione con il Ministero della sanità e con il Consiglio sanitario nazionale. In particolare uno dei fenomeni che ha colpito l'attenzione dell'opinione pubblica è stato quello delle «lenzuola»: circa il 40% degli italiani quando si ricovera in ospedale deve portarsi da casa i cosiddetti generi letterecci, le posate e la carta igienica. Un'altra notizia non meno allarmante è rappresentata dalla sistematica violazione del diritto all'informazione: il 33,8% dei degenti intervistati lamenta di non sapere nulla circa la propria malattia, gli accertamenti diagnostici a cui è sottoposto, le cure che gli vengono regolarmente somministrate. La percentuale sale quando si parla della conoscenza dei tempi della degenza (63,4%) e del rapporto tra medico curante e medico ospedaliero, assente nel 54,9% dei casi. C'è chi è rimasto sconcertato di fronte a questi dati che per la loro elementarità e la loro banalità rendono inutili e anacronistici tanti bei discorsi sul futuro della sanità. È chiaro che le informazioni sono ancora insufficienti per avere una esatta conoscenza del livello di qualità dei servizi, letto e valutato - come si intende fare con questa indagine - con lo specifico punto di vista dei cittadini. Per avere una immagine più complessiva e più ricca bisognerà infatti aspettare il convegno internazionale, che concluderà dal 23 al 26 maggio il decennale del Tribunale per i diritti del malato e nel corso del quale verranno presentati l'insieme dei dati emersi dal rapporto(*). Una cosa però risulta con chiarezza già ora: quello che non funziona nella sanità e che diventa fonte di sofferenza inutile per la maggioranza di coloro che si rivolgono al servizio, riguarda principalmente due aspetti, l'organizzazione dei servizi e la cultura professionale di chi ci lavora. La gente è tendenzialmente soddisfatta della qualità tecnica, ma poi si trova a scontrarsi con un sistema che non prevede il soddisfacimento di diritti elementari, quali possono essere quelli legati al comfort e all'igiene, o ancora a un corretto rapporto con gli operatori sanitari, soprattutto medici, che garantisca il livello di informazione, ritenuto più o meno da tutti necessario. I rimedi ad un tale stato di cose, che non sono certo così semplici e scontati, non richiedono però grandi sconvolgimenti, ma solo la volontà da parte di tutti gli addetti ai lavori di prendere sul serio i diritti dei cittadini. In sostanza l'attuazione dei diritti di cui la gente chiede tutela non può più essere considerata un aspetto secondario e marginale della politica sanitaria, ma tende a rappresentare ormai l'unico metro serio per valutare se un servizio funziona o no. Se in un ospedale, infatti, i cessi sono sistematicamente sporchi, ciò significa che c'è qualche problema organizzativo, o che c'è qualcuno che non fa il suo dovere e che nessuno controlla, o ancora che l'appalto delle pulizie è stato dato con leggerezza e quindi si sta verificando uno spreco di danaro pubblico. Non c'è certo bisogno di andare molto lontano per cambiare le cose: è necessario semplicemente che ognuno, per la sua parte, si assuma le sue responsabilità, senza nascondersi dietro i regolamenti, le difficoltà legate ad abitudini consolidate, la carenza di strutture e di fondi, e così via. Tutto questo certamente non sarebbe possibile senza soggetti che garantiscano, attraverso una presenza attenta e quotidiana, la priorità di una politica sanitaria costruita sulla tutela dei diritti dei cittadini. Qualcosa probabilmente potrà cambiare attraverso l'immissione di figure nuove nella gestione delle Usl - penso all'introduzione degli amministratori-

i)!I.Rl.\~CO l.X11.nosso iil•iilib manager. Ma questo non è sufficiente o perlomeno non basta da solo. In questi mesi, nel corso dei quali sono state osservate 300 strutture sanitarie e somministrati 18.500 questionari da parte di gruppi di cittadini, appartenenti al Tribunale per i diritti del malato e a una rete di 1.800 aggregazioni dell'area del cosiddetto «sesto potere», si è avuta una conferma di quanto andiamo dicendo e soprattutto praticando da circa dieci anni. La tutela eff ettiva dei diritti nei servizi pubblici è possibile grazie all'intervento costante e massiccio di una cittadinanza attiva, che non intende sostituirsi alle strutture politiche e amministrative di gestione, ma che rivendica un suo spazio di intervento politico autonomo, oggi indispensabile per far funzionare meglio le cose nell'interesse generale del paese. Cittadinanza attiva significa garantire che nelle strutture sanitarie circolino informazioni, vengano effettuati controlli, si intervenga per rimediare a intoppi e a irrazionalità, si costruisca nella quotidianeità delle situazioni un rapporto paritario tra cittadini utenti e personale sanitario, e tutto avvenga nel generale rispetto dei principi della pubblicità e della trasparenza, non solo riguardo alle questioni finanziarie, ma anche e soprattutto per quanto attiene la condizione dei cittadini all'interno delle strutture ospedaliere e extraospedaliere. Molta concretezza quindi, e poche chiacchiere. Non sarà molto, ma è certamente una delle strade praticabili fin da ora per rendere la nostra sanità più efficiente e più umana e il nostro paese più democratico. (*) Pubblicheremo nel prossimo numero un articolo su questo argomento. Devianzaminorile: urgenzee ritardi di Annalisa Quaglia U n grido di allarme sullo stato attuale della giustizia penale minorile è stato lanciato dall'associazione per l'età evolutiva, che ha presentato i dati relativi all'andamento della criminalità minorile nel Lazio. Nel 1990 sono stati denunciati 7434 minorenni di cui 3340 italiani, 3766 nomadi slavi, 333 stranieri extracomunitari; il 70/oin più rispetto all'anno precedente. La consistente presenza di minorenni nomadi, nella quasi totalità dei casi denunciati per piccoli furti o borseggi, non è nuova, si è verificato tuttavia nel corso degli ultimi anni un notevole incremento del fenomeno: dal 330/onel 1987, al 51 OJo nel 1990. Ma il dato nuovo è che questo tipo di criminalità si va diffondendo dall'area metropolitana, anche nelle altre province del Lazio. Sono diminuite invece le denunce nei confronti dei minorenni stranieri extracomunitari, che dopo un incremento del 2 OJo nel 1987 all' 8 OJo nel 1989, sono scese al 40/onel 1990. Ma al di là dei dati, non sempre confortanti, è bene evidenziare le rilevanti novità previste dal nuovo processo penale a carico di imputati minorenni, in vigore dall'ottobre 1989, e le successive scelte legislative che purtroppo tendono a stravolgere il significato della riforma appena introdotta. Il Dpr 448/ 1988 doveva trasformare il sistema penale in momento di reale presa in carico dei problemi del minore, prevedendo un più attivo intervento dei servizi sociali del territorio, in stretta collaborazione con i servizi di assistenza dell'amministrazione della giustizia. Un'operazione spregiudicata quella di affidare ed ampliare le funzioni degli Enti Locali,

i)JJ, BIANCO lXltROSSO Uiiiil•P chiamati ora ad intervenire sui problemi dei minori anche in ambito penale «in ogni stato e grado del procedimento» (art. 6), dopo le difficoltà e i conflitti di competenza sorti già a partire dal Dpr 616/1977. Un'operazione ancora più ardua se si pensa che il nuovo codice di procedura penale per i minori ha fortemente limitato il ricorso alla custodia e all'internamento in carcere, prevedendo una serie di misure e di programmi alternativi. La «comunità» e la «permanenza in casa» avrebbero dovuto rappresentare l'alternativa al carcere, per evitare il prematuro rapporto del minore con una istituzione totalizzante e soprattutto assicurare al minore il proseguimento delle sue attività di studio e di lavoro. Accanto a queste disposizioni, previste per i reati con un determinato limite di pena, sono state ipotizzate una serie di servizi e di programmi di intervento atti a colmare il vuoto esistente a livello di strutture e di progetti per gli adolescenti, non soltanto sul versante del trattamento e della gestione di un «problema», quanto soprattutto in funzione preventiva al problema stesso. A distanza di un anno dall'entrata in vigore della riforma i progetti previsti sono rimasti sulla carta. Nel Lazio funzionano solo tre comunità con la capacità di ospitare fino ad un massimo di diciassette ragazzi. Tali centri hanno dimostrato di funzionare come luoghi di parcheggio, specialmente. per i minorenni nomadi e per gli extracomunitari, i quali spesso si allontanano dalla comunità alla prima occasione, facendo scattare un provvedimento di custodia cautelare in carcere. Tra l'altro lariforma, tendendo a recuperare e a valorizzare il più possibile l'ambiente socio-familiare, non ha tenuto conto che la maggior parte dei minorenni imputati non possono contare su tale risorsa. Problema di non facile soluzione è proprio il tipo di utenza che entra nel circuito della giustizia, caratterizzata sempre di più da ragazzi appartenenti a minoranze etniche e di colore. Se non saranno programmati interventi specifici che tengano conto delle differenze etniche, culturali e religiose, il rischio è che il carcere rimanga il principale strumento di contenimento e di controllo di un problema sociale di vaste dimensioni che necessita di risposte puntuali e di più ampio respiro. A ciò si aggiungano le critiche e le perplessità dell'opinione pubblica di fronte al mancato intervento e all'impunità di ragazzi accusati di - - --"'- - - - - - - - - - 11 Molinaio - Caneggio (Val Muggia) reati di piccola entità, furti, borseggi, ma che destano notevole allarme sociale e una maggiore disponibilità alla denuncia e alla richiesta di sanzione. È così che il Governo con un Decreto legislativo del gennaio scorso, ha scelto di intervenire riaprendo il carcere ad una serie di reati per i quali non era più previsto, preferendo la strada della repressione piuttosto che quella della prevenzione. Il carcere minorile di Casal del Marmo è tornato ad «ospitare» una media di 3 ragazzi al giorno come nel periodo antecedente alla riforma. Una realtà inevitabile se si pensa che nel Lazio la situazione dei servizi sociali è assolutamente disastrosa. L'ufficio interventi civili della Procura per i minorenni di Roma ha rilevato che il 70% dei comuni di questa regione, con la sola eccezione di Roma, non ha propri servizi sociali; sono in tutto 19 gli assistenti sociali che operano nel Lazio e si occupano della condizione minorile, nessun assistente sociale nelle provincie di Frosinone e di Rieti.

i>Jl 81.\:\0) '-Xli.ROSSO iii iii i id I limiti e i pericoli del processo di depenalizzazione e di decarcerizzazione, introdotto dal nuovo codice di procedura penale minorile, non potevano non essere strettamente connessi alla generalizzata carenza dei servizi di assistenza del territorio, aspetto peraltro preventivamente denunciato come principale motivo di preoccupazione. Le nuove disposizioni normative hanno sicuramente il merito di aver rivoluzionato le modalità di intervento del sistema penale, rendendo in molti casi l'internamento in carcere come scelta residuale, dimostrando di privilegiare gli interessi del minore, titolare di diritti e di bisogni, assicurandogli il proseguimento del processo di formazione e di crescita. Tuttavia tale sistema diversificato di interventi dimostra di non poter funzionare, finché non supportato da adeguati momenti di sostegno e di presa in carico da parte di strutture preposte, significando così impunità, «perdonismo» e sostanziale abbandono per molti ragazzi cosiddetti «difficili». <<CentesimusAnnus>>: un passo avanti per tutti di Giovanni Gennari Introduzione: la «Rerum Novarum» e le sue novità. Era il maggio 1891, e il «signor Pecci», Leone XIII, era da ritenersi avvertito: «Sua Santità il signor Pecci mediti e rimediti pure, a sua posta, la questione sociale, ma non potrà mai venirci incontro con alcuna soluzione che abbia, per noi, qualsiasi valore di serietà. Fosse egli, nel cuor suo, socialista quanto Marx, ardente quanto Bakounine, non potrà che essere il papa della sua Chiesa». La riflessione fu scritta da Filippo Turati, a pochi giorni dalla pubblicazione della «Rerum Novarum», e liquidava così «il preteso socialismo papale», di cui qualcuno aveva parlato in previsione dell'enciclica, manifestando un atteggiamento di «delusione efondamentale dissenso». Il socialismo di allora si sentiva enormemente più avanti, nel progresso, nell'umanesimo, nella moralità, rispetto alle «timide» aperture dell'enciclica che pure era tutta dedicata alla «condizione degli operai». Eppure quello scritto, datato 15 maggio 1891, in cui Leone XIII si apriva alla storia, dopo l'isolamento seguente a Porta Pia, e condannava con forza lo sfruttamento operaio, fu un vero terremoto ideologico, e sociale. Nel «Diario di un curato di campagna», di Berna- - - - - - 12 nos, il vecchio parroco diceva appunto al giovane prete che quello, che a distanza di 50 anni appariva un documento «normale», in realtà fu un «vero terremoto». Furono in molti a pensare, allora, che davvero «il papa era diventato socialista», e le cronache testimoniano che in molti conventi si indissero pubbliche preghiere «per la conversione» del «Signor Pecci», che aveva abbandonato l'alleanza secolare con i troni e con i potenti, per mettersi a riflettere, appunto, sulla «triste condizione degli operai», e a condannare non solo «il socialismo anarchico», come ovvio, ma anche «lo sfruttamento degli operai, l'avidità dei potenti e dei padroni, l'emarginazione dei poveri». E invece «il signor Pecci» non era diventato socialista. In quegli anni, nonostante certe aperture cattoliche al «socialismo cristiano», che era piuttosto un «cristianesimo sociale» ancora molto elitario, e certi testi di Proudhon, il discorso non si poneva davvero in questi termini. È vero che a Torino, tre mesi prima della «Rerum Novarum», era uscito il volume di Francesco Saverio Nitti, «Il socialismo cattolico», ma allora la parola «socialismo» aveva un significato storico molto preciso, che non

i.)JJ, BIANCO l.XltHOSSO iii•iil•il poteva non scontrarsi con la condanna della Chiesa cattolica. Il risentimento di Turati contro la «Rerum Novarum» fu dunque forte: «È impossibile, - scrisse-, immaginare cosa più pretenziosamente vuota, più nulla e più inconcludente di quella non mai finita dissertazione, di quel mare di parole e di frasi, in cui la Sua sedicente Santità non isdegna di stemperare e diguazzare i tritumi delle idee più rancide, più sciocche e confuse che si ripetono contro il socialismo». L'Enciclica condannava davvero quel socialismo: era quello in cui i filoni rivoluzionari e anarchici erano ancora maggioritari, quello in cui ateismo, anticlericalismo, e anche violenza, erano «dogmi» indiscussi. Proprio il 1 maggio del 1891 a Roma, in piazza Santa Croce in Gerusalemme, le manifestazioni anarchico-socialiste avevano portato due morti e decine di feriti. Turati si diceva, criticando l'Enciclica, «antico e vero cristiano», ma era ancora ben lontano dai ripensamenti che trenta anni dopo lo condussero alla scelta contro la violenza e per le riforme, e che segnarono la «rottura» di Livorno e la nascita per reazione del Partito comunista italiano, massimalista e rivoluzionario, in opposizione radicale ad ogni riformismo. Qualcuno ha osservato che Turati scrisse quelle frasi prima di poter conoscere il testo della «Rerum Novarum». E' vero, ma difficilmente il giudizio sarebbe cambiato a lettura avvenuta, e del resto Turati non manifestò, in seguito, diverso avviso: allora l'opposizione di un socialista alla dottrina della Chiesa veniva da sé, naturalmente, e la storia non fa salti. Si può osservare, tuttavia, che molto è cambiato, nel mondo e anche nella Chiesa, se oggi a condannare la nuova enciclica, prima ancora di averla letta, non è stato un leader operaio, ma il presidente della Confindustria. E' un segno dei tempi. La storia non fa salti, e tuttavia magari lentamente cammina. Resta il fatto che allora, e per quei tempi, in mezzo a tanti passi che ancora rivelavano le chiusure e i pregiudizi di un ceto ecclesiastico che si sentiva minacciato da tante «cose nuove» di quel tempo, con un papato che da venti anni era prigioniero in Vaticano, dopo «l'usurpazione» di Porta Pia, la «Rerum Novarum» segnò un sostanziale cambiamento d'epoca. Provo a ridurre a quattro, fondamentali, le novità di quel documento. - La prima, che è costituita dallo stesso fatto dello scritto di Leone XIII, è il superamento di principio dell'anatema della Chiesa cattolica verso il mondo moderno. Essa non appariva più ferma alle condanne delle libertà moderne di Gregorio XVI, né al Sillabo di Pio IX, e neppure all'arroccamento anti-italiano degli anni '70 e '80 dell'ottocento. Fu in pratica anche l'ingresso ufficiale dei cattolici, come forza sociale, nella vita politica italiana. Nel bene e nel male ha cambiato la storia di questo paese. Per questo aspetto l'enciclica segna l'inizio della conciliazione della Chiesa cattolica con la modernità. Il compimento forse è ancora da venire. - La seconda novità è costituita dalla condanna del liberalismo assoluto, che produceva quella «condizione operaia»(16 ore di lavoro al giorno, salari da fame. sfruttamento dei minori, nessun rispetto per la salute degli operai, ecc.), e l'affermazione che la proprietà privata, pur essendo un diritto naturale, deve avere uno scopo sociale, e quindi non può dar luogo all'arbitrio dei ricchi sui poveri e dei padroni sugli operai. - La terza novità, conseguente, è che lo Stato, pur non dovendo essere padrone assoluto e unico di tutti i beni, come voleva il socialismo rivoluzionario di allora, non può restare assente e abbandonare gli operai alla dinamica dei rapporti di forza stabiliti dai padroni e dai ricchi. Esso deve intervenire a tutelarne i diritti. L'operaio deve, certo, lavorare per avere diritto al salario, che deve essere sufficiente ad assicurargli una vita degna, per lui e per la famiglia, ma «il lavoro non è una merce», e «non va dato per elemosina ciò che spetta per giustizia». - La quarta novità, nel contesto del tradizionale rifiuto della «lotta di classe violenta», condotta allora in nome della negazione dello stato (anarchia), della proprietà (collettivismo), e della religione (ateismo), fu davvero una novità clamorosa, e cioè l'affermazione del diritto degli operai a dif endersi sui luoghi di lavoro creando delle apposite associazioni riservate ad essi. Era la consacrazione ufficiale cattolica del sindacato, che aprì prospettive dai frutti che hanno attraversato l'intero secolo successivo.

{)11,BIANCO 0(11, HOSSO iiiiiil•d Difficile negare, a cento anni di distanza, che su questi punti «il signor Pecci», l'anziano Leone XIII, avesse ragione, e che il secolo che è trascorso abbia confermato i timori e le aperture di quella enciclica. Il fallimento del marxismo rivoluzionario, l'inefficacia della lotta di classe violenta, i danni del capitalismo assoluto e depredatore del Terzo Mondo, la necessità delle riforme sociali sono sotto gli occhi di tutti. Da allora, in un secolo, per la Chiesa c'è un seguito di interventi di dottrina sociale, e praticamente tutti i papi hanno portato il loro contributo ad essa. Pio XI con la «Quadragesimo Anno», del 1931; Pio XII con il discorso commemorativo del 1951; papa Giovanni con la «Mater et Magistra», del 1961, e con la «Pacem in Terris», del 1963; Paolo VI con la «Populorum Progressio», del 1967, e con la «Octogesima Adveniens», del 1971, e infine Giovanni Paolo II, con la «Laborem Exercens», del 1981, e con la «Sollicitudo Rei Socialis», del 1987. Tutti i papi hanno portato il loro contributo, con diversi toni, anche in rapporto con le novità della storia. E questa storia è stata piena di cambiamenti anche sul versante del movimento operaio e delle sue formazioni storiche. Il Turati del 1891 non è certamente e in tutto lo stesso del 1921, a Livorno, e degli anni successivi, e nel 1891non avrebbe mai immaginato che un suo successore, segretario generale del suo partito, Pietro Nenni, sarebbe un giorno andato fino a New York, all'Assemblea dell'Onu, il 19 febbraio 1965, per fare un discorso tutto dedicato ad uno scritto sociale di un successore del «signor Pecci», Angelo Giuseppe Roncalli, Giovanni XXIII, la «Pacem in Terris». «Centesimus Annus»: spunti per la lettura Ho voluto introdurre con le osservazioni storiche i seguenti · «spunti di lettura» della «Centesimus Annus». Per ragionare seriamente sul presente e sul futuro non è mai il caso di dimenticare le lezioni del passato. Mentre scrivo, naturalmente, ho chiaro il diluvio di commenti che ha immediatamente inondato i media non solo italiani, ma non è il caso di richiamarli. Ciò che segue vorrebbe essere solo un incoraggiamento alla lettura diretta. Il testo è nelle librerie. Ricordo che l'hanno pubblicata integralmente, oltre l'Osservatore Romano, anche Avvenire e A vanti del 3 maggio, e che «Famiglia Cristiana» (n. 21, del 22/5/91), con il testo ha pubblicato anche contributi storici e tematici. 1 - Documento religioso, non politico. Credo che sia essenziale ricordare che l'enciclica è quello che è: una lettera del papa ai vescovi, ai fedeli, e in questo caso anche agli uomini di buona volontà. Essa, perciò, non è un testo di economia, non è un programma politico, non è un'analisi sociologica dei mali della società mondiale o un suggerimento dei rimedi. E' una cosa che non va mai dimenticata. Quasi per dar ragione, almeno in questo, a Filippo Turati, il papa scrive proprio ed esclusivamente in quanto «papa della Chiesa». Per tre o quattro volte, nel testo, ripete che non vuole e non può dare soluzioni pratiche ai problemi economici, politici e sociali che pure enumera. Non è compito della Chiesa. Lo aveva già affermato Paolo VI, nella «Octogesima Adveniens», e Giovanni Paolo II lo ribadisce con forza: «La Chiesa non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono nascere solo nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili, che affrontano i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, politici e culturali che si intrecciano tra loro» (n.43). Ha torto, allora, chi pensa che con questa enciclica si voglia affermare una «egemonia» politica. Qualcuno lo ha scritto apertamente, ma forse ha il vizio di confondere i propri fallimenti con quelli del mondo intero, e di forzare illegittimamente il testo e le intenzioni del papa. Egli non vuole essere il «principe» della fine del secondo Millennio, ma semplicemente quello che è, proprio come scriveva Turati. Perciò al n. 54 ha fatto una affermazione molto chiara, per chi vuole capire: «La dottrina sociale ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione.. .In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto». 2 - Chiesa, integralismo, vera laicità. Con questa premessa si capisce che ha torto anche chi ha visto nella «Centesimus Annus» il difetto di ribadire l'assolutezza della verità religiosa di cui la Chiesa cattolica si ritiene, nella fede, depositaria. Non è integralismo, questo, ma coscienza di fede della propria missione evangelizzatrice. Una chiesa che non confessa che solo in Gesù Cristo c'è salvezza,

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