Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 15/16 - apr./mag. 1991

~.tJ. BIANCO l.Xll,llOSSO iililil•b lo osservatori malevoli potrebbero giudicare nostalgico, e che è piuttosto segno di maturità di giudizio sul proprio passato, di coscienza dei limiti, di fiducia ragionata sul futuro. Prima di esporre brevemente i principali temi del dibattito, ci si permetta qualche rilievo sull'insieme, sperando di rifuggire dall'accusa di pedanteria. Il primo carattere che sorprende riguarda il linguaggio utilizzato nelle risposte dei sindacalisti, e si riferisce ad una lieta scomparsa: il sindacalese. Vale a dire a quel linguaggio impostosi verso la metà degli anni settanta, e che ci è stato tratteggiato in modo così efficace da Bruno Manghi in un non dimenticato libretto, dal titolo evocativo (Declinare crescendo). Un linguaggio che si era diffuso per compensare, attraverso l'argomentazione e le formule verbali, il declino dopo gli anni del grande ciclo. Questo linguaggio è scomparso in quasi tutti gli interventi e così la retorica ad esso legata, sostituito da argomentazioni più sobrie, oggettive, disincantate (forse troppo, talvolta). Il secondo carattere riguarda l'assenza di spaccature sensibili nelle argomentazioni, nel tono, nelle diagnosi. Non mancano le sfumature, le diversità di accenti, le diverse sensibilità. Non si cancellano, anche in questi tempi, le componenti più radicate nella esperienza sindacale italiana. Ad esempio quella che nasce dal socialismo marxista, nelle sue varie componenti, e quella che si richiama all'associazionismo "unionista" e al pluralismo della tradizione cristiano-sociale. La prima ricerca ancora qualche fronte generalizzato di conflitto, magari sulle questioni ecologiche. La seconda è portata a riscoprire qualche nuova potenzialità nella società post-industriale, perpetuando la fiducia nelle capacità progressiste del conflitto. Tuttavia queste componenti non generano più ideologie sindacali, non conducono ad analisi deformanti, non sono segnate dalla autosufficienza culturale. Da questo punto di vista, scontata forse una autoselezione dei partecipanti al dibattito, il sindacalismo italiano ci sembra abbia raggiunto una soglia ragguardevole di unità culturale. Il terzo carattere, se si vuole, è meno positivo, per alcuni aspetti sorprendente, se non inquietante. Esso riguarda la scarsa consistenza, od anche l'assenza, di indicazioni pratiche, pur in presenza di almeno una domanda esplicita in tal senso. Si dirà che in questo tipo di dibattiti quello che conta, e che viene recepito, è il messaggio di tipo generale, e questo non era certamente di carattere pratico. Tuttavia questa assenza resta, colpisce, testimonia una situazione di difficoltà, di crisi (nel senso tecnico del termine). In questo senso, tale assenza può essere considerata come un efficace indicatore delle incertezze del sindacalismo conf ederale. Se continuiamo a ritenere che il sindacato, ben diverso· in questo dai partiti politici, sia condannato a camminare nella pratica con un campionario ben fornito di servizi e protezioni da offrire. Una offerta utile per ottenere un consenso che, anche se non necessariamente quotidiano, è certo ben più pressante e continuo di quello rivolto ai partiti, scandito dal ritmo lento delle scadenze elettorali. La sostanziale omogeneità delle risposte non permette di render conto del dibattito in termini di posizioni ben differenziate o addirittura contrapposte. Certo, lo si è detto, non mancano le diversità di accenti, le ispirazioni eterogenee. Ma solo attraverso forzature questi aspetti potrebbero essere interpretati come fronti di dissenso. Soprattutto non sono essi che caratterizzano l'insieme del dibattito. Mettiamo in luce piuttosto le argomentazioni più condivise, sono esse a fornire il tono complessivo. La prima, e la più importante, riguarda la situazione del sindacalismo confederale italiano. Una situazione di crisi e difficoltà che vienè interpretata non sempre distinguendo fra cause e effetti, ma che viene chiaramente identificata nelle sue implicazioni. Le difficoltà attuali delle confederazioni italiane si misurano innanzitutto attraverso la loro incapacità di fornire risposte di carattere generale, o mete collettive, all'intera società italiana. Si è interrotto, così, un cammino trentennale. Lo ha notato molto efficacemente Surrenti: negli anni '50 e '60 la risposta e la meta era l'industrializzazione, negli anni '70 il welfare ed i diritti sociali. Negli anni '80 che cosa sostituisce queste mete? Quello delle risposte generali è infatti un fardello del tutto particolare che grava sul sindacato di tipo confederale (o "di classe", dicevamo più spesso in altri anni). E le identità non si trasformano facilmente. Le trasformazioni nella composizione di classe sono, in molti interventi, ricondotte alla origine di questa situazione di difficoltà (ad es. G. Bianchi). Erano le caratteristiche sociali ed economiche della società industriale a fare della "rappresentanza contrattuale delle confederazioni una rappresentanza generale indiscussa" (Bordini). Il disincanto è profondo.

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