Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 15/16 - apr./mag. 1991

~.tJ. Bl.\:\JCO l.XH.HOSSO •1•1~ii•lii Mondo arabo: l'economiadopo la "Guerra" Q uando abbiamo stabilito di tenere questo incontro la guerra nel Golfo era in pieno svolgimento e la discussioneera ancora accesa su aspetti che la successiva, rapida e devastante conclusione militare ha rimosso (se non dalle coscienze) almeno dai titoli dei giornali e, in gran parte, anche dal dibattito politico - certamente per motivi d'attualità, ma anche perché il precedente controllo delle idee e delle notizie aveva trovato una implicita conferma in quello che veniva presentato e considerato come un grande successo, come una riuscita applicazione del nuovo ordine internazionale. La domanda se la guerra fosse giusta era cioèsuperata dagli eventi e interrogarsi circa l'adeguatezza della risposta militare era certamente scomodo: l'Iraq, presentato come la quarta o quinta potenzamilitare del mondo, aveva infatti subito una distruzione e perdite (centomila? duecentomila uomini forse?) di dimensione terribile, soprattutto se confrontate con quelle della coalizione guidata dagli Stati Uniti d'America. Bertrand Russe}nell'ultimo capitolo dei "Saggi scettici" pubblicato nel 1956 formulò una previsione straordinariamente profetica, ritenendo possibile che l'America (stato dominante dopo il tramonto del bipolarismo) da sola o con un gruppo di stati, entro la finedel XX secolo, avrebbe potuto decidere della pace o della guerra, forse anche mediante la semplice negazione o concessione di prestiti (si pensi al conflitto iracheno-iraniano). Dopo aver considerato, al riguardo, fondamentali i tre problemi della delimitazionedel territorio degli Stati, dei movimenti delle popolazioni attraverso i loro confini e dell'assegnazione dellematerie prime, rispetto all'ultima di Sergio Marini questione, Russel scriveva: "Non è affatto improbabile che le guerre scoppieranno per vertenze riguardanti in grandissima parte la distribuzione delle materie prime ... Non dico che le materie prime saranno distribuite equamente, bensi che esse saranno in qualche maniera distribuite da un'autorità che avrà una invincibile forza al suo comando. Credo che prima che si possa arrivare a parlare davvero di soluzioni eque, dovrà essere risolto il problema di organizzare il mondo come un'unica unità economica e politica". Ho citato quest'ultima frase sia per l'opinione relativa alla legittimità della guerra, che può ben confrontarsi con la disputa nostrana tra Bobbio e i suoi allievi, sia perché il contenuto utopistico è parte sostanziale di una previsione alla quale nessuno avrebbe, prima di oggi, dato credito e che nella sua prima parte sembra essere così somigliante agli avvenimenti da rendere credibile anche il verificarsi della seconda. Non ho inteso con questa citazione esprimere giudizi né sulla natura né sulla liceità della guerra. La condanna senza riserve dell'invasione del Kuwait è stata pressoché unanime anche nel mondo arabo. La carica emotiva e la violenza verbale che sono state espresse successivamente non sono che la misura della mancanza di convinzione razionale. Non mi pare vi possano essere dubbi sul fatto che soprattutto cause economiche siano all'origine così dell'invasione da parte irachena come della risposta internazionale. Il greggio detenuto da Iraq e Kuwait corrisponde infatti al 19,60Jo delle riserve mondiali e unito a quello di Arabia Saudita ed Emirati Arabi ne supera il 55%. L'Iraq aveva un debito estero di 70-80 miliarL -tCJ - ---- - --- -- di di dollari, pari alla sua intera produzione petrolifera di 5 anni e premeva per un aumento del prezzo del petrolio, senza ottenerlo. Un aumento da 20 a 30 dollari a barile corrisponde secondo i calcoli effettuati a circa un punto percentuale in meno di crescita economica dei paesi industrializzati. Credo che questi pochi dati rappresentino la situazione in modo realistico e com~ prensibile. Rispetto al futuro dei nostri rapporti, culturali, politici ed economici, con il mondo arabo il problema della misura della risposta data all'invasione del Kuwait non può essere trascurato, così come non si può non tener conto dell'attitudine assunta dall'opinione pubblica araba che durante la crisi e la guerra del Golfo, si è ampiamente identificata con Saddam Hussein (sebbene pochissimi arabi accetterebbero di vivere sotto il suo giogo). Ma, soprattutto, credo si debba riflettere sulle interpretazioni che di questo fatto sono state date in Occidente, con uno schematismo altalenante tra due pregiudizi. Il primo riferibile a una differenza culturale percepita come incolmabile, soprattutto assegnata a un integralismo religioso la cui ineluttabilità è letta da taluni islamisti occidentali nell'ortodossia piuttosto che verificata nel tessuto sociale. (E la tesi viene poi assunta e propagandata - per esempio da Kissinger e, più recentemente, da Luttwak - con l'evidente finalità di giustificare i comportamenti di Israele). Il secondo pregiudizio, riconducibile al tema del nazionalismo arabo, accoglie la stessa retorica usata da Saddam, che restituirebbe a popolazioni infantili e in crisi d'identità il senso dell'ono-

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