Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 15/16 - apr./mag. 1991

~-li-Hl.\:\CO '-XltllOSSO •h•M•ld Islamtra noi: un futuroproblematico N on è facile, nell'incertezza dell'indomani della guerra del Golfo, interrogarsi sul divenire del mondo musulmano nel quale viviamo. Questo è ormai una larga "cintura" attorno al Mediterraneo, che incomincia nel cuore dell'Islam storico (la penisola araba, Damasco, Bagdad, il Cairo), si prolunga verso occidente (il Maghreb appunto), verso oriente incontra l'Iran e la Turchia, col suo corteo dell'Islam caucasico, afgano, mongolo e anche di quello balcanico, che premono per sorgere sulla scena di questa fine de~ ventesimo secolo. A nord, per chiudere la cintura, abbiamo l'Islam europeo, dell'Europa dei 12, immigrato: una larga periferia che va dalla Sicilia ad Amburgo, da Barcellona a Birmingham e a Berlino, fermandosi, per ora almeno, alle porte di quella che era l'Europa dell'Est. Ormai, dunque, benché sotto forme e con intensità evidentemente diverse, c'è in questo spazio una continuità, che include anche i paesi nordmediterranei, che fino a vent'anni fa potevano continuare a pensare l'Islam come una realtà esotica mentre oggi devono pensarlo come componente dellaloro realtà popolare, anche se minoritaria. E devono cominciare a pensarsi, anche se ciò è per loro più difficile, come parte di questa "cintura" islamica. Cosa diventerà questo mondo musulmano? Un'ipotesi corrente, in questo periodo di dopoguerra, in realtà di una guerra che continua, ma che non interessa più molto poiché i "nostri" combattenti non vi sono più implicati, consiste nello sviluppare il modello "piano Marshall". In breve si pensa che, come questo piano ha aiutato lo sviluppo, e nel contempo ha incluso di Felice Dassetto definitivamente l'Europa occidentale nella larga matrice del modello politico-economico statunitense, cosi un massiccio aiuto al mondo arabo permetterà di arginare l'islamismo in quei paesi. Questa ipotesi può probabilmente funzionare, almeno per un certo tempo. Essa permetterà d'altra parte ai dirigenti dei paesi del Sud di ricevere una specie di bombola d'ossigeno che permetterà di tirare avanti un po': anche se quasi certamente ciò non assicurerà un migliore sviluppo di questi paesi, in termini di agricoltura, industrie e servizi. In ogni modo l'islamismo si quieterà. Apparentemente. E le elezioni algerine che dovranno pur aver luogo un giorno o l'altro nel corso di quest'anno saranno un test interessante delle tendenze immediate. Non è improbabile scommettere che il Fronte islamico di Salvezza otterrà un risultato elettorale inferiore a quello ottenuto alle elezioni municipali dello scorso anno. Ma a più lungo termine? Per riflettere sul divenire occorrerebbe tener conto di alcuni parametri. Quello storico: contrariamente all'ipotesi fornita dagli interpreti abituali del mondo musulmano (per esempio in Francia B. Etienne e G. Kepel), il "ritorno all'Islam" non è solo il risultato di un processo sociale sostitutivo alle dinamiche di mobilità sociale: dei giovani ritornerebbero all'Islam poiché malgrado i loro studi effettuati, non trovano occupazione e lo spazio politico è bloccato. Questa dimensione è di certo presente, ma non è la sola. La realtà mi pare più complessa. In realtà sul piano del pensiero e della pratica politica il ritorno all'Islam significa anche l'incontro dell'Islam, nei paesi che presero coscienza o arrivarono all'indipendenza a partire dagli anni sessanta, con la realtà dello Stato moderno. Stato di marca occidentale, ma che l'Islam si appropria e tenta di modellare a suo modo. Con approcci vari: fascisteggianti (che fu una maniera dell'idea di nazione di incontrare lo Stato), il tipo welfairiano adattato (il Fis in Algeria), di tipo reazionarioconservatore. Ma non basta. Nel "ritorno all'Islam" interviene anche una dimensione antropologica profonda: l'islamismo si collega con il tentativo straordinario delle strutture familiari, ed in particolare dei padri, di resistere alle rotture della famiglia allargata generate dai modelli occidentali, dall'urbanizzazione, dal modo di produzione industriale. E l'Islam offre uno str.umento ideologico importante per questa resistenza. Certo: di questa dimensione, i politici, gli economisti e gli specialisti internazionali, che sanno funzionare soltanto in termini di budget e di Pii non sanno che farsene. Eppure è là. Ed un giorno o l'altro bisognerà tra l'altro cominciare a pensare anche il non sviluppo dell'Africa a partire da queste categorie. In ogni modo, nel caso dell'Islam, questa dimensione è presente e renderà meno evidente ff successo, a termine, del "neo-piano Marshall". Anzi, non si può neppure escludere che questa logica "paternal-familiare" riesca ad orientare alla propria finalità i mezzi che saranno versati. Tener conto di questa dimensione interna permette tra l'altro di capire perché contrariamente a molte previsioni, ivi compresa quella di Saddam Hussein, non c'è stata una mobilitazione islamica forte ed estesa attorno alla guerra. L'islamismo con-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==