parte degli arabi come realtà non integrabile e verosimilmente espansiva. Di decolonizzazione, del resto, era difficile parlare perché i paesi arabi non erano stati oggetto delle dislocazioni produttive e organizzative che hanno accompagnato altrove il colonialismo, dovendo adempiere sostanzialmente al compito di fornitori di petrolio e sede di un'infrastruttura strategica che travalicava il Medio Oriente, e perché in ultima analisi gli arabi per il loro passato e la loro compattezza culturale potevano a buon diritto giudicare il colonialismo un episodio effimero. Non di decolonizzazione si trattava ma di rinascita nazionale, di ricomposizione della continuità con la propria storia e la propria tradizione. Senonché lo Stato nella sua configurazione geopolitica era pur sempre un prodotto del colonialismo, l'economia era stata subordinata agli interessi del mercato capitalista, la modernizzazione era stata impostata secondo un modello eterodiretto, per cui sotto altri aspetti di nuovo urgeva l'esigenza di una decolonizzazione, questa volta in senso proprio, come "distacco" dall'insieme architettato e realfzzato dalle forze dell'imperialismo occidentale. È stata questa la funzione delle rivoluzioni, iniziate per lo più da colpi di stato militari, che hanno sconvolto gli equilibri del Medio Oriente negli anni '50 e '60. Il nasserismo, il Baath, la stessa politica di Gheddafi: tutti tentativi di riappropriarsi delle ragioni del proprio sviluppo ad opera di governi stimolati dal nazionalismo e forti del consenso dei ceti urbani emergenti decisi a disfarsi della supremazia delle feudalità che avevano mantenuto il "patto coloniale" anche dopo l'indipendenza. Il processo di modernizzazione ripartiva da altre premesse. L'intenzione era di svincolarsi dalla subalternità e dall'alienazione. Il socialismo fu abbracciato - anche in assenza di classi che potessero applicarlo con un minimo di verosimiglianza - perché era l'unica ideologia d'importazione che promettesse di rompere il legame troppo oppressivo con il capitalismo. Protagonista di tutto il processo, con i partiti ideologizzati e presi dallo spazio e dal linguaggio della politica come il Baath in Siria e in Iraq, è stato l'esercito con la sua vocazione a rappresentare la nazione, la sua consuetudine alla .{)JI, BIANCO lXII, nosso •h•ihid modernità e i suoi programmi interclassisti. Non è stato un processo univoco e coerente. La necessità di coniugare la mobilitazione di massa con gli interessi della classe media e con la leadership carismatica di un "uomo 'forte" ha diffuso l'autoritarismo e caratteri che ripetono alcuni tratti del fascismo. Nasser sapeva che la sua politica aveva proiettato al vertice dello Stato borghesi o burocrati interessati a strumentalizzare il potere per i propri fini e cercò invano di rilanciare la rivoluzione "per il popolo e nel nome del popolo". Le contraddizioni erano ulteriormente acuite dalla presenza di Israele, oggetto del "rifiuto arabo" e Pannello di formelle, lznik, Turchia, XVI secolo apparentemente incapace di riscattarsi dalla logica della contrapposizione frontale, a costo di dover continuamente ricorrere alla guerra facendosi proteggere dagli Stati Uniti e più in generale dal mondo occidentale. Man mano che il colonialismo classico scompariva, aumentava l'importanza relativa ed assoluta degli Stati Uniti. Nel 1956Francia e Gran Bretagna tentarono ciecamente di impedire l'emancipazione dell'Egitto opponendosi alla nazionalizzazione di Suez fino al punto di imbastire un'aggressione concordata con Israele (che perseguiva appunto la sua idea deformata di "sicurezza"). JJ Gli Stati Uniti si dissociarono - e otterranno da Israele la restituzione del Sinai - un po' per gli obblighi che derivavano dal bipolarismo e un po' per aprire un canale con le forze arabe postcoloniali. Due anni più tardi, mentre Nasser era al suo apogeo con la Repubblica araba unita, nata dalla fusione fra Egitto e Siria, e l'enorme forza d'attrazione esercitata dai suoi appelli sulle masse arabe, furono gli Stati Uniti a mandare i "marines" in Libano dopo che i militari avevano rovesciato la monarchia del fedelissimo re Feisal a Baghdad. Era quasi una maledizione, ma in tutti gli sviluppi che riproponevano il confuso tentativo dei governi arabi di padroneggiare la statualità e il progresso c'era un momento di crisi in cui l'Occidente sceglieva la guerra. Il contenzioso sulla Palestina consentiva a Israele di partecipare a quegli scambi, in parte appoggiandosi alle potenzé occidentali per difendersi e in parte radicalizzando ad arte il confronto per esaltare la propria "unicità" nel Medio-Oriente: la causa palestinese entra inevitabilmente nel raggio degli obiettivi di ogni forza o nazione che aspiri all'egemonia nel Medio Oriente. La divaricazione e incomprensione fra Islam e Occidente risaltò in tutta la sua ampiezza con la rivoluzione iraniana. Giunto al culmine di un'acculturazione imposta a tappe forzate dallo scià, improvvisatosi auto-elite per rimediare alle carenze di iniziativa e imprenditorialità della società, l'Iran ricusava in blocco l'intero modello: invece della "modernizzazione conservativa" tentata dai Pahlevi o della "modernizzazione rivoluzionaria" dei regimi arabi radicaleggianti, una vera e propria "contromodernizzazione" che negava tutt'insieme l'occidentalizzazione, il capitalismo e la modernità. Il distacco dall'Occidente non poteva essere più drastico, quantunque - ed era forse la prima volta per una rivoluzione nel Terzo mondo - il movimento khomeinista, tutto racchiuso entro la legge coranica, non si ispirasse in alcun modo né al marxismo, né al socialismo, né all'Urss. Il fondamentalismo islamico, peraltro, ultimo sbocco di una crisi che era tanto più acuta quanto più la società si era avvicinata al modello occidentale senza veder attuati presupposti essenziali come la libertà e lo sviluppo, deve ancora dimostrare di
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