Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 15/16 - apr./mag. 1991

~.t-1.BIANCO l.XltllOSSO •Mhikf)Aiill ziale unità strategica dell'immensa regione che si estende dal Marocco ali' estremità orientale delle repubbliche musulmane sovietiche. Una regione notevolmente diversificata, divisa tra popolazioni di influenza araba, turca ed iraniana, ma attraversata da correnti comuni: l'esplosione demografica; la recente alfabetizzazione; la crescita incontrollata delle risorse; i problemi del sottosviluppo; l'attrazione ed il rifiuto dell'Occidente; i legami tra le aspirazioni democratiche ed un integrismo che è forse meno di quanto si creda una specificità islamica e, probabilmente, di più il prodotto di precedenti delusioni politiche. La crisi ha messo anche in evidenza che le relazioni tra l'Europa e l'Africa del Nord e l'Asia occidentale non sono una competenza esclusiva dei ministeri degli Esteri perché coprono l'insieme del campo sociale. Basti pensare a temi come: l'agricoltura; la democrazia; i diritti dell'uomo; i finanziamenti; gli investimenti; l'emigrazione; il petrolio; la religione; la sicurezza; il terrorismo. Da qui la necessità di un approccio che sia globale e, possibilmente, non semplificatore. Globale perché l'Europa, nel suo stesso interesse, deve operare per facilitare nella regione uno sviluppo che sia umanamente accettabile. Non semplificatore, perché niente sarebbe più dannoso di politiche ispirate dalla caricatura della realtà. Un terzo insegnamento che si può trarre dalla crisi è che i democratici dovrebbero chiarificare i loro rapporti con i diritti dell'uomo. La vulgata secondo la quale la democrazia implica il rispetto dei diritti individuali non esprime tutta la realtà. Se in generale la tesi è abbastanza valida all'interno delle frontiere, lo è molto meno all'esterno. È proprio perché gli Stati Uniti sono un paese democratico (e quindi sensibile al voto della comunità ebraica) che la loro politica è così prudente sul problema palestinese. Le motivazioni che hanno spinto l'Occidente ad intervenire nel Golfo sono complesse. Contrariamente a quello che è stato più volte scritto, il desiderio legittimo di preservare l'equilibrio internazionale e di evitare più sanguinosi conflitti futuri è stato senza dubbio più importante che l'interesse per il petrolio, o la volontà di far rispettare il diritto. L'opinione pubblica araba non l'ha, però, capito ed essa ritiene che gli occidentali utilizzino due pesi e due misure a seconda che si tratti di kuwaitiani ricchi o di palestinesi poveri. Un dato comunque è certo: l'indispensabile cooperazione tra l'Europa e questa zona si scontrerà con innumerevoli difficoltà fintanto che la questione palestinese non sarà risolta. Come non vedere, quindi, che la soluzione di questo problema è una condizione ineludibile per una pace duratura nella regione? Anche al di là dell'intransigente miopia del governo israeliano, le cose, naturalmente, sono tutt'altro che facili. Tanto la parte più responsabile di Israele che dei palestinesi sta incominciando a rendersi conto che una soluzione è possibile solo se tiene conto degli oltre due milioni di palestinesi che vivono nei vari paesi arabi e che vorrebbero invece vivere in uno Stato palestinese. Il problema palestinese rischia di restare irrisolvibile ed il "processo di pace" rischierebbe di servire soltanto a scansare decisioni difficili, se non assumesse come dato di fatto che una soluzione del problema dei rifugiati palestinesi richiederà sacrifici ad Israele, ma anche ai paesi arabi, che finora hanno rifiutato ai palestinesi che vivono dentro i loro confini i diritti di cittadinanza e di piena partecipazione alla vita economica, ed agli stessi palestinesi che, almeno fino ad oggi, hanno spesso rifiutato di accettare uno status diverso da quello di rifugiato insistendo di avere il diritto di ritornare in Palestina. Un quarto insegnamento da trarre è che la fine dei combattimenti nel Golfo ha messo di nuovo in primo piano il dibattito sullo sviluppo della regione. Uno sviluppo che da quaranta anni a questa parte è stato gravemente handicappato dalla politica di potenza di certi paesi dell'Africa del Nord o del vicino Oriente, dalla lotta tra l'Est e l'Ovest, dalla esplosione demografica, dalla adozione di forme burocratiche di gestione economica, dal rifiuto di investimenti stranieri, dal rigetto della democrazia. Lo sviluppo è, invece, un processo sociale globale. Non può perciò ridursi alla creazione di una banca internazionale, alla ricostruzione delle infrastrutture, alla consegna di equipaggiamenti. Bisogna ricostruire il Kuwait (le imprese fanno già la fila per questo) ma è senza dubbio ancora più importante che esso diven-· ga una democrazia. Si deve concludere che, in queste condizioni, le diverse possibilità di futuro di questa immensa regione arabo-turco-persiana saranno influenzate dalla continuazione di lotte intestine, dal fatto che ciascuna potenza emergente si urterà, di volta in volta, con la coalizione

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