Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 15/16 - apr./mag. 1991

»-lJ, BIA~O) \.Xll,HOSSO Uiiiil•il Chiesa e i teologi cattolici, senza eccezione alcuna, hanno in linea di principio ammesso che in certe condizioni, quando sono venute meno tutte le altre possibilità, il ricorso alla violenza può essere giustificato, non come un bene in se stesso, ma come un male minore. In questo senso per almeno quindici secoli si era elaborata la dottrina della "guerra giusta", che era stata contestata e messa in dubbio solo da gruppi estremi di "spirituali", spesso anche per questo emarginati, e poi sconfinati nella vera e propria eresia. Solo nei testi del Concilio (1962-1965), e in documenti successivi, si era arrivati alla condanna di principio e totale della guerra atomica, proprio in quanto atomica, e quindi di distruzione totale e incontrollata, perciò mai proporzionata ai diritti eventualmente da restaurare. E tuttavia anche dopo il Concilio Paolo VI, nel famoso n. 37 della "Populorum Progressio", aveva riaffermato come soluzione limite a mali estremi altrimenti irrisolvibili la legittimità del ricorso alla forza. Era stato il testo base, per tanto tempo, di ogni tentativo di approvazione teologica dei movimenti di liberazione umana costretti a combattere per liberare popoli e categorie di oppressi. Ma Giovanni Paolo II non aveva alcuna intenzione di innovare dottrinalmente la posizione della chiesa cattolica, su questo punto. Si trattava solo di mettere con forza l'accento sulla dimensione etica di principio del problema, dando per scontato che sul piano eticopolitico questa posizione non poteva e non doveva essere interpretata come l'affermazione della doverosità della ''pace a qualunque costo", anche a costo della giustizia e quindi di un cedimento alla prepotenza dell'invasione. Evidentemente lo stesso Papa si è reso conto dei malintesi cui erano andati incontro i suoi pronunciamenti, e della utilizzazione che, in buona o in mala fede, ne veniva fatta, ed ha provveduto a chiarire la sua posizione nel discorso "a braccio", e quindi certamente espressione del suo pensiero, che ha tenuto nella chiesa di Santa Dorotea, in Trastevere, la domenica 17 febbraio: "Noi non siamo pacifisti, non vogliamo la pace ad ogni costo. Una pace giusta. Pace e giustizia. La pace è sempre opera della giustizia". Con questo discorso, e con le iniziative che ha preso in seguito, fino al "summit" degli episcopati dei paesi coinvolti nella guerra, da una parte e dall'altra, Giovanni Paolo II ha come sottratto l'utilizzazione della sua posiInterno di moschea, Damagàn, Iran, VIII secolo zione al dibattito di parte che era in corso, in Italia e nel mondo, sul giudizio etico-politico da dare a questa guerra del Golfo, al suo svolgimento, ai suoi esiti, del resto ancora non chiari. In questa luce può essere agevole vedere come anche la diplomazia vaticana, e in particolare la Segreteria di Stato, si sia mossa sulla duplice linea della posizione papale, ora facendo prevalere la linea etica di principio, e quindi accentuando il rifiuto della guerra come strumento di risoluzione dei problemi, ora insistendo sulla linea etico pragmatica, che riconosceva le ragioni dell'intervento delle Nazioni unite e la urgenza di liberare il Kuwait. È stato giustamente osservato, tra l'altro, che la Segreteria di Stato vaticana si è trovata alle prese con la Guerra del Golfo in un momento delicato del suo cammino, immediatamente successivo alle dimissioni del cardinale Agostino Casaro li, grande equilibratore degli ultimi venti anni, con un prosegretario di Stato, Angelo Sodano, non ancora cardinale, e con recenti nomine ai suoi vertici. La cosa è stata evidente al momento della manifesta opzione per il "piano Gorbaciov", che a molti osservatori è apparsa come uno schieramento avverso alla posizione occidentale, e che nelle intenzioni certo non lo era. Il "summit" con i vescovi di tutte le parti in causa, americani in testa, è valso anche a ristabilire l'immagine di

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