Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 15/16 - apr./mag. 1991

• Anno II sommano aprile/maggiol991 1 EDITORIALE: Dopo la gue"a, ••• L'EUROPA E IL MONDO 61 3 Uno Stato inesistente, di P .C. Medite"aneo regione inquieta, di V. Lepouras 4 ATIUALITA: Il futuro del sindacato. America Latina: la democrazia a rischio, Di A. 68 Unità culturale per l'unità sindacale, di G.P. Cella Cuevas 8 Quale dopo-gue"a? La chiave è in Palestina, 1992:America più lontana?, di G. Arrigo 69 di I. Man Donne e lavoro: obiettivo soUdarletà, di L. Saba 72 Pds e alternativa: il più è da creare, di B. De Giovanni 10 12 Pds: urge una "nuova" politica estera, di S. Segre DOCUMENTO 75 La scarpata, di G. Khanafani 13 Riforma della Cig e politiche del lavoro, di A. VITA DELL'ASSOCIAZIONE 79 Mazzetti 15 Cattolici e sinistra: un discorso aperto, di S. AntoReS a Milano, di P. Roncato niazzi Occidente e Mondo Arabo. I perchl di un incontro 80 16 La "doppieua" doverosa: cattolicie gue"a del Gol- (Roma, 19/3/91) /o, di G. Gennari ReS presenta i Dossier sul futuro del sindacato 81 22 DOSSIER:L'Islame l'Occidente, Interventi di P.G. (Milano 3/5/91) Donini, I. Camera D'Afflitto, M. El Houssi, C.M. LIBRIRICEVUTI 81 Martini, M. Borrmans, G.P. Calchi-Novati,C. Lo Jacono, A. Pellitteri,G.M. Piccinelli,S. Giulianati, O.E. IMMAGINI Carretto, F. Dassetto, M. Aziza, S. Marini, M.B. dell'Islam Dopo la guerra Placata l'emozione e venuta meno l'apprensione, ma anche il fascino con cui giornali, televisione ed opinione pubblica hanno seguito le vicende quotidiane della guerra del Golfo, si può collocare la crisi kuwaitiana in una prospettiva lunga ed interrogarci sul suo significato per l'avvenire. Per le ripercussioni che essa ha avuto nel mondo arabo, per la possibilità che ha dato all'Iran di ritornare sulla scena diplomatica, per il ruolo discreto ma importante giocato dalla Turchia, la crisi ha messo in evidenza la poten-

~.t-1.BIANCO l.XltllOSSO •Mhikf)Aiill ziale unità strategica dell'immensa regione che si estende dal Marocco ali' estremità orientale delle repubbliche musulmane sovietiche. Una regione notevolmente diversificata, divisa tra popolazioni di influenza araba, turca ed iraniana, ma attraversata da correnti comuni: l'esplosione demografica; la recente alfabetizzazione; la crescita incontrollata delle risorse; i problemi del sottosviluppo; l'attrazione ed il rifiuto dell'Occidente; i legami tra le aspirazioni democratiche ed un integrismo che è forse meno di quanto si creda una specificità islamica e, probabilmente, di più il prodotto di precedenti delusioni politiche. La crisi ha messo anche in evidenza che le relazioni tra l'Europa e l'Africa del Nord e l'Asia occidentale non sono una competenza esclusiva dei ministeri degli Esteri perché coprono l'insieme del campo sociale. Basti pensare a temi come: l'agricoltura; la democrazia; i diritti dell'uomo; i finanziamenti; gli investimenti; l'emigrazione; il petrolio; la religione; la sicurezza; il terrorismo. Da qui la necessità di un approccio che sia globale e, possibilmente, non semplificatore. Globale perché l'Europa, nel suo stesso interesse, deve operare per facilitare nella regione uno sviluppo che sia umanamente accettabile. Non semplificatore, perché niente sarebbe più dannoso di politiche ispirate dalla caricatura della realtà. Un terzo insegnamento che si può trarre dalla crisi è che i democratici dovrebbero chiarificare i loro rapporti con i diritti dell'uomo. La vulgata secondo la quale la democrazia implica il rispetto dei diritti individuali non esprime tutta la realtà. Se in generale la tesi è abbastanza valida all'interno delle frontiere, lo è molto meno all'esterno. È proprio perché gli Stati Uniti sono un paese democratico (e quindi sensibile al voto della comunità ebraica) che la loro politica è così prudente sul problema palestinese. Le motivazioni che hanno spinto l'Occidente ad intervenire nel Golfo sono complesse. Contrariamente a quello che è stato più volte scritto, il desiderio legittimo di preservare l'equilibrio internazionale e di evitare più sanguinosi conflitti futuri è stato senza dubbio più importante che l'interesse per il petrolio, o la volontà di far rispettare il diritto. L'opinione pubblica araba non l'ha, però, capito ed essa ritiene che gli occidentali utilizzino due pesi e due misure a seconda che si tratti di kuwaitiani ricchi o di palestinesi poveri. Un dato comunque è certo: l'indispensabile cooperazione tra l'Europa e questa zona si scontrerà con innumerevoli difficoltà fintanto che la questione palestinese non sarà risolta. Come non vedere, quindi, che la soluzione di questo problema è una condizione ineludibile per una pace duratura nella regione? Anche al di là dell'intransigente miopia del governo israeliano, le cose, naturalmente, sono tutt'altro che facili. Tanto la parte più responsabile di Israele che dei palestinesi sta incominciando a rendersi conto che una soluzione è possibile solo se tiene conto degli oltre due milioni di palestinesi che vivono nei vari paesi arabi e che vorrebbero invece vivere in uno Stato palestinese. Il problema palestinese rischia di restare irrisolvibile ed il "processo di pace" rischierebbe di servire soltanto a scansare decisioni difficili, se non assumesse come dato di fatto che una soluzione del problema dei rifugiati palestinesi richiederà sacrifici ad Israele, ma anche ai paesi arabi, che finora hanno rifiutato ai palestinesi che vivono dentro i loro confini i diritti di cittadinanza e di piena partecipazione alla vita economica, ed agli stessi palestinesi che, almeno fino ad oggi, hanno spesso rifiutato di accettare uno status diverso da quello di rifugiato insistendo di avere il diritto di ritornare in Palestina. Un quarto insegnamento da trarre è che la fine dei combattimenti nel Golfo ha messo di nuovo in primo piano il dibattito sullo sviluppo della regione. Uno sviluppo che da quaranta anni a questa parte è stato gravemente handicappato dalla politica di potenza di certi paesi dell'Africa del Nord o del vicino Oriente, dalla lotta tra l'Est e l'Ovest, dalla esplosione demografica, dalla adozione di forme burocratiche di gestione economica, dal rifiuto di investimenti stranieri, dal rigetto della democrazia. Lo sviluppo è, invece, un processo sociale globale. Non può perciò ridursi alla creazione di una banca internazionale, alla ricostruzione delle infrastrutture, alla consegna di equipaggiamenti. Bisogna ricostruire il Kuwait (le imprese fanno già la fila per questo) ma è senza dubbio ancora più importante che esso diven-· ga una democrazia. Si deve concludere che, in queste condizioni, le diverse possibilità di futuro di questa immensa regione arabo-turco-persiana saranno influenzate dalla continuazione di lotte intestine, dal fatto che ciascuna potenza emergente si urterà, di volta in volta, con la coalizione

i.).tt BIANCO l.Xlt llOSSO il 1•1WHlill degli altri, dalla apparizione, a fianco di paesi instabili di qualche Stato che riesce faticosamente a trovare il cammino verso la stabilità e dalla possibilità di dominazione da parte di qualche teocrazia o di qualche dittatura espansionista. Sono problemi che la guerra non ha certo risolto e che, presumibilmente, ci accompagneranno per tutto il prossimo decennio. La speranza è che i dirigenti europei sappiano gestirli in cooperazione con le "élites" del "Sud" in uno spirito di apertura, di prudenza, di fermezza, ma anche di umanità. • •• Basmalah (formula di fede) speculare, Turchia, XIX secolo Uno Stato inesistente Non vogliamo credere che abbiano fondamento le voci che, nell'emergenza dei profughi albanesi, hanno attribuito il caos organizzativo ad una volontà dissuasiva, perché in tal caso si sarebbe trattato di un inammissibile ed imperdonabile atto di cinismo. Resta, in ogni caso, il fatto che la vicenda ha messo in evidenza una micidiale mistura di inettitudine, di indifferenza, di sfascio organizzativo. L'immagine della nave che partiva dall'Italia per riportare in Albania 1500profughi ci fa vergognare. Con quegli albanesi che, dopo giorni di abbandono e di privazioni, sono stati costretti a ripartire è partita anche la dignità di quanti avevano il dovere di approntare soluzioni adeguate. La vicenda dei profughi albanesi, col miserando spettacolo offerto dall'inefficienza degli organismi preposti alla Protezione Civile, conferma, da un lato, cose che sapevamo già, come il disastro dellapubblica amministrazione e, dall'altro, mette in evidenza un dato più drammatico: lo Stato non esiste. Le masse di uomini, donne e bambini abbandonati a se stessi in condizioni subumane hanno suscitato, giustamente, un generalemoto di compassione, ma anche di risentimento per quella inesistenza. Con tutta la comprensione che si può avere per le difficoltà enormi ed impreviste create da una gigantesca ondata di quasi ventimila profughi, si deve dire che il fallimento, o meglio l'inconsistenza della macchina di assistenza non ha giustificazioni. Se avessimo dovuto affrontare un terremoto o un altro qualunque cataclisma naturale cosa avremmo fatto? Cosa ci sta afare la Protezione Civile con quattrocento dipendenti e tanto di ministro se non è in grado di attivare interventi straordinari diretti e di coordinare la solidarietà della comunità? Per le prove date finora si deve convenire con chi ha amaramente osservato che la Protezione Civile di civile ha solo il nome. La spiacevole verità è che, si tratti di cataclismi naturali o sociali, viene in evidenza la malattia cronica italiana. Siamo uno dei principalipaesi industrializzati, ma siamo del tutto privi di uno Stato all'altezza dei suoi compiti. E siamo privi di uno Stato efficente perché la politica nazionale è nello stato comatoso che conosciamo. Verifica o non verifica, questo nodo bisogna incominciare a scioglierlo. P.C.

{)Jl BIANCO lX.JtHOSSO iii•ii••Q Il futuro del sindacato "Il Bianco e il Rosso'; ha aperto, nel suo numero 5/6, un dibattito sull'unità sindacale. Lo stimolo iniziale fu un contributo di Ottaviano Del Turco. Nei numeri successivi abbiamo pubblicato contributi di Giuseppe Surrenti, Walter Ga/busera, Giorgio Benvenuto, Gigi Biondi, Anna Carli, Gianni Italia e Raffaele Morese. Ma l'interesse, nostro e altrui, all'argomento del futuro del sindacato è stato tale che, con una introduzione di Gian Primo Cella, abbiamo lanciato un'inchiesta sull'argomento e i numeri 12/13 e 14 hanno avuto il Dossier intero dedicato al sindacato. In essi abbiamo pubblicato contributi di Amoretti, Baglioni, Becchi Collidà, Bordini, Borgomeo, Caviglioli, Cazzo/a, F'arinelli, Fi/ippi, Mariani, Merli Brandini, Miniati, Spezzano, Tittarelli, Veronese, Vinci e Squarzon (n. 12/13), e di Benvenuto, Bianchi, Carli, Chioffi, D'Antoni, Del Turco, Epifani, Fassin, Fornari, Gnecchi, Lama, Liverani, Morelli, Passa/acqua, Perego, Polverari, Reste/li, Surrenti, Teutsch, Vigevani e Viviani (n. 14). Nel contributo che segue Gian Primo Cella tira lefila conclusive di questo dibattito e presenta, a nome di ReS, le linee della nostra prospettiva in materia. Segnaliamo ai nostri lettori che i numeri 12113 e 14 saranno presentati da ReS a Milano il prossimo 3 maggio. L'incontro avrà luogo alle ore 10 presso il salone della Camera di Commercio, in viaMeravigli 9/A. Gian Primo Cella interrogherà Giorgio Benvenuto, Rino Caviglioli e Ottaviano Del Turco p;oprio sul ''futuro" del sindacalismo confedera/e. Gli iscritti e i simpatizzanti di ReS, come naturalmente tutti i nostri lettori interessati all'argomento, sono invitati ad intervenire. Unità culturale per l'unità sindacale di Gian Primo Cella Q uando una rivista propone un dibattito sono almeno tre le speranze che di solito animano i promotori: che le risposte siano numerose, che gli interventi siano interessanti e qualitativamente pregevoli, che gli argomenti utilizzati nelle risposte si rivelino ca,. paci di render conto del problema in oggetto. Le difficoltà di esaudire tali speranze crescono, come è ovvio, passando dalla prima alla terza anche se talvolta, per i casi nei quali il problema proposto è vissuto come tale dai soggetti coinvolti, l'esaudirsi dell'una trascina con sé le altre. Orbene, questo è proprio il caso che si è verificato per il dibattito su "futuro I 4 L - - --- - - - - -- del sindacato e futuro delle confederazioni" proposto da "Il Bianco e il Rosso". In molti hanno risposto, gli interventi sono interessanti e non scontati, rendono conto dei travagli in cui intercorre il sindacalismo italiano. Non solo, il problema proposto (non la fine del sindacalismo ma le difficoltà, l'appannarsi, forse la fine, delle confederazioni) è stato condiviso nella sostanza, al di là di obiezioni particolari sulle forme della sua presentazione, dagli intervenuti. E condiviso, talvolta, con un sentimento velato di partecipazione esistenziale che ha reso possibile orientare il senso di molte risposte. Un sentimento che so-

~.tJ. BIANCO l.Xll,llOSSO iililil•b lo osservatori malevoli potrebbero giudicare nostalgico, e che è piuttosto segno di maturità di giudizio sul proprio passato, di coscienza dei limiti, di fiducia ragionata sul futuro. Prima di esporre brevemente i principali temi del dibattito, ci si permetta qualche rilievo sull'insieme, sperando di rifuggire dall'accusa di pedanteria. Il primo carattere che sorprende riguarda il linguaggio utilizzato nelle risposte dei sindacalisti, e si riferisce ad una lieta scomparsa: il sindacalese. Vale a dire a quel linguaggio impostosi verso la metà degli anni settanta, e che ci è stato tratteggiato in modo così efficace da Bruno Manghi in un non dimenticato libretto, dal titolo evocativo (Declinare crescendo). Un linguaggio che si era diffuso per compensare, attraverso l'argomentazione e le formule verbali, il declino dopo gli anni del grande ciclo. Questo linguaggio è scomparso in quasi tutti gli interventi e così la retorica ad esso legata, sostituito da argomentazioni più sobrie, oggettive, disincantate (forse troppo, talvolta). Il secondo carattere riguarda l'assenza di spaccature sensibili nelle argomentazioni, nel tono, nelle diagnosi. Non mancano le sfumature, le diversità di accenti, le diverse sensibilità. Non si cancellano, anche in questi tempi, le componenti più radicate nella esperienza sindacale italiana. Ad esempio quella che nasce dal socialismo marxista, nelle sue varie componenti, e quella che si richiama all'associazionismo "unionista" e al pluralismo della tradizione cristiano-sociale. La prima ricerca ancora qualche fronte generalizzato di conflitto, magari sulle questioni ecologiche. La seconda è portata a riscoprire qualche nuova potenzialità nella società post-industriale, perpetuando la fiducia nelle capacità progressiste del conflitto. Tuttavia queste componenti non generano più ideologie sindacali, non conducono ad analisi deformanti, non sono segnate dalla autosufficienza culturale. Da questo punto di vista, scontata forse una autoselezione dei partecipanti al dibattito, il sindacalismo italiano ci sembra abbia raggiunto una soglia ragguardevole di unità culturale. Il terzo carattere, se si vuole, è meno positivo, per alcuni aspetti sorprendente, se non inquietante. Esso riguarda la scarsa consistenza, od anche l'assenza, di indicazioni pratiche, pur in presenza di almeno una domanda esplicita in tal senso. Si dirà che in questo tipo di dibattiti quello che conta, e che viene recepito, è il messaggio di tipo generale, e questo non era certamente di carattere pratico. Tuttavia questa assenza resta, colpisce, testimonia una situazione di difficoltà, di crisi (nel senso tecnico del termine). In questo senso, tale assenza può essere considerata come un efficace indicatore delle incertezze del sindacalismo conf ederale. Se continuiamo a ritenere che il sindacato, ben diverso· in questo dai partiti politici, sia condannato a camminare nella pratica con un campionario ben fornito di servizi e protezioni da offrire. Una offerta utile per ottenere un consenso che, anche se non necessariamente quotidiano, è certo ben più pressante e continuo di quello rivolto ai partiti, scandito dal ritmo lento delle scadenze elettorali. La sostanziale omogeneità delle risposte non permette di render conto del dibattito in termini di posizioni ben differenziate o addirittura contrapposte. Certo, lo si è detto, non mancano le diversità di accenti, le ispirazioni eterogenee. Ma solo attraverso forzature questi aspetti potrebbero essere interpretati come fronti di dissenso. Soprattutto non sono essi che caratterizzano l'insieme del dibattito. Mettiamo in luce piuttosto le argomentazioni più condivise, sono esse a fornire il tono complessivo. La prima, e la più importante, riguarda la situazione del sindacalismo confederale italiano. Una situazione di crisi e difficoltà che vienè interpretata non sempre distinguendo fra cause e effetti, ma che viene chiaramente identificata nelle sue implicazioni. Le difficoltà attuali delle confederazioni italiane si misurano innanzitutto attraverso la loro incapacità di fornire risposte di carattere generale, o mete collettive, all'intera società italiana. Si è interrotto, così, un cammino trentennale. Lo ha notato molto efficacemente Surrenti: negli anni '50 e '60 la risposta e la meta era l'industrializzazione, negli anni '70 il welfare ed i diritti sociali. Negli anni '80 che cosa sostituisce queste mete? Quello delle risposte generali è infatti un fardello del tutto particolare che grava sul sindacato di tipo confederale (o "di classe", dicevamo più spesso in altri anni). E le identità non si trasformano facilmente. Le trasformazioni nella composizione di classe sono, in molti interventi, ricondotte alla origine di questa situazione di difficoltà (ad es. G. Bianchi). Erano le caratteristiche sociali ed economiche della società industriale a fare della "rappresentanza contrattuale delle confederazioni una rappresentanza generale indiscussa" (Bordini). Il disincanto è profondo.

~--'-" m. \1':( :o '-XII.HOSSO iii•iilib Basmalah, Turchia, secolo Xlii Non ci si faccia illusioni, scrive Cazzola, "la mutazione è avvenuta, al sindacalismo confederale hanno rubato l'animo". Cosa se non di questa trasformazione, notano in molti, sono testimoni i fenomeni di leadership rivendicativa assunti da ampi settori del pubblico impiego? I limiti della dirigenza sindacale non sono tuttavia taciuti. La inadeguatezza della ricerca ed i limiti culturali sono ricordati da Vinci; Morelli mette l'accento invece sull'assenza di coraggio e di capacità di coordinamento. Un impegno di ricerca e di capacità di coordinamento. Un impegno di ricerca ed una nuova cultura che sarebbero necessari per assumere decisioni secondo la logica della responsabilità (Fassin). Certo alle origini delle difficoltà sono da taluni sottolineate le divisioni apparse drammaticamente nel corso del decennio '80 (Amoretti), con le connesse cadute di autonomia (Mariani). Ma nel complesso, si potrebbe notare, tale divisioni sono ritenute più effetti che cause del declino. La necessità di un nuovo progetto strategico (Filippi), non più segnato dal "minimalismo" (Viviani), è ricordata in non pochi interventi, animati da una non celata insoddisfazione per la inadeguatezza del presente. In generale, e questo, visto il tempo che tira non è così scontato, la validità del modello confederale è pienamente riconfermato. L'unica eccezione, invero un poco stonata, è costituita dall'intervento di Pomari, una sorta di manifesto per un sindacato "estremista di mercato". Il modello confederale è visto come l'unico in grado nella società post-industriale di riconfermare o di affermare la cittadinanza del lavoro (su questo chiaramente D' Antoni e Restrelli e, con qualche distinguo sui rapporti fra pubblico e privato, Tittarelli). "Più capitalismo, quindi più sindacato" dice efficacemente Merli Brandini, da incallito pluralista. Una validità, tuttavia, che per essere riaff ermata ha bisogno di una forte ridefinizione della solidarietà (Perego, Polverari). Una solidarietà che non può più rifarsi esclusivamente alla classe, ma piuttosto a ''responsabilità individuali e collettive". Ed una solidarietà che ha bisogno di una sua esplicitazione. Specie attraverso una affermazione di criteri di equità dotati di "regole visibili" che permettano di governare le rincorse rivendicative (Baglioni,

_l)_p. BIAI\CO '-Xli.ROSSO iil•lil•P Becchi Collidà). Senza questo modello, ed una siffatta identità, è evidente il rischio di "un sindacalismo di nicchia o corsaro" (Caviglioli). Non basta il ruolo di super-mediatore, in definitiva, per fondare il ruolo del sindacalismo confederale. Di nuovi valori parlano in molti (ad es. Spezzano), e non necessariamente con la tradizione retorica sindacale. Un nuovo significato di confederalità è ricercato da alcuni, in modo esemplare, nei problemi dell'ecologia sociale (Teutsch, Gnecchi). Ed in effetti pochi problemi come questi svelano la distanza dall'azione sindacale del passato e dalla logica dei suoi attori. Nuovi valori si ricercano anche sui temi tradizionali delle politiche salariali. L'occasione della trattativa di giugno potrebbe essere importante se, come dice ancora Caviglioli, si arrivasse alla determinazione di una sorta di "Carta delle retribuzioni e dei trattamenti del lavoro dipendente". Sarebbe affidato al sindacato una sorta di ruolo di "assicuratore della giustizia" (Merli-Brandini). Solo tale giustizia (ofairness) può permettere di por mano alla "nuova questione salariale", coincidente in buona parte con il deprivilegiamento dei tradizionali produttori di "ricchezza" (Veronese), ovvero delle categorie di lavoratori al centro della rappresentanza sindacale del passato. Categorie portatrici almeno di un minimo di "oggettività" nella giustizia retributiva. La terza importante argomentazione condivisa riguarda la scomparsa delle ragioni prof onde della divisione sindacale (Borgomeo, Cazzola). Una scomparsa che è fra l'altro dovuta alla loro minore comprensibilità. "La fase attuale è molto più ancorata a valori che ad ideologie" dice con efficacia Anna Carli, in una frase che potrebbe ben rappresentare il tono, e la novità, dell'intero dibattito. È evidente la non legittimazione delle divisioni agli occhi dei lavoratori (Liverani). Sembra giunto il momento dell'unità, se non per spinta positiva almeno per la caduta degli ostacoli. E questo anche per la minore presa dei partiti sulla società, ammette amaramente Luciano Lama. Risulterebbe difficile, infatti, legittimare la divisione delle centrali esclusivamente sulle diversità delle politiche, a meno che siano strumentalizzate dalle leadership (Vigevani). In effetti è arduo trovare nella storia del movimento sindacale delle divisioni stabili non imputabili a ragioni ideologiche-politiche. Sono certo possibili delle divisioni, anche drammatiche ma instabili, sulla base delle diversità nella composizione degli iscritti o nei criteri di reclutamento. Ma tali diversità, pur non inesistenti nella esperienza sindacale italiana, non sono tuttavia così pronunciate da giustificare divisioni. Tutto questo alla fin fine vuol dire unità a tempi brevi? Non necessariamente. Tuttavia il tipo di nuovo sindacato confederale a cui si tende non ha senso se non come costruzione unitaria (Miniati). Sono i sostenitori del particolarismo di categoria ad essere più avversi alla soluzione unitaria (Chioffi). La spinta dell'Europa costituirà una ragione forte di unità (Epifani, Benvenuto). Finirla con una fase, dice Del Turco, quella di questi anni, "nella quale l'unità non è un valore ma una convenienza reciproca" e nella quale "la mediazione non mette. in gioco l'identità di nessuno". Il cammino sembra tracciato e l'obiettivo anche, anche se con caratteri e percorsi ben lontani ed in parte dissonanti da quelli di un ventennio addietro. In conclusione il dibattito promosso da "Il Bianco e il Rosso", al di là del suo interesse intrinseco, ci sembra abbia mostrato una sensibile, quasi sorprendente unità culturale, nelle argomentazioni, nelle ispirazioni, nel linguaggio. Fosse solo per questo, l'unità del sindacalismo confederale italiano sembrerebbe vicina. Una unità pensata, richiesta, letta dai dirigenti sindacali nelle sensibilità e nei valori del mondo del lavoro. Non una unità imposta, richiesta, strappata da un grande movimento di partecipazione (così come era stato negli anni del grande ciclo). Ma questo non rende necessariamente più debole le sue potenzialità, anche perché dovrà saper reagire con efficacia alle sfide di identità portate dal sindacalismo autonomo e dalla sua logica di azione. Purtroppo, ed è questo il volto negativo, tale unità culturale sembra ancora priva di proposte di ordine operativo. Come tale potrà essere esposta ai possibili effetti corrosivi di nuove identità politiche, e resa disarmata da fattori esterni potenti di turbamento (ad esempio la intensificata competizione legata alla integrazione economica comunitaria). Potrà, ma non lo riteniamo probabile. Tale unità culturale ci sembra una risorsa preziosa, a patto che non la si lasci inaridire verso la stanchezza ed il disincanto. Provochiamo verso le realizzazioni coerenti il sindacalismo confederale italiano. Non tutto sarà indolore. Ma l'obiettivo vale bene qualche trauma.

~!I. Bl,\NCO ~JI.HOSSO iii•iil•P Quale dopo-guerra? La chiave è in Palestina di Igor Man L a Guerra del Golfo è cominciata come una guerra laica. A metà strada s'è fatta islamica e adesso che è fini\a va distinguendosi sempre di più come una guerra politica. Ma il / allout della guerra minaccia di avere "conseguenze religiose" in campo politico. Gli è che il cosiddetto risveglio islamico, ch'era sembrato assopirsi dopo la scarica di adrenalina della rivoluzione khomeinista, s'è ridestato nell'ultimo biennio nel Maghreb e oggi sembra far rifornimento di propellente (l'odio verso Dor al-Harb, il mondo degli infedeli) nel bunker di Saddam Hussein, spacciato da abili apprendisti stregoni per un (nuovo) Saladino in lotta contro la (nuova) Crociata del neocolonialismo. (Un falso Saladino che annuncia il pluripartitismo nel timore che i O.I., in lenta ma costante marcia di avvicinamento a Baghdad, lo mettano k.o., così come pretendono i falchi di Gerusalemme). Saddam sarà un cialtrone sanguinario, lui, il fosco impiccatore di comunisti e di ebrei, ma dobbiamo renderci conto che la disfatta irachena rappresenta un disastro senza precedenti per il sogno unitario arabo. La Grande Nazione Araba è andata in pezzi. E non sarà certo la Lega Araba nel suo look cairota a restaurarla. Dobbiamo renderci conto che poiché dalla guerra escono rafforzati tre paesi, tutti non arabi (Israele, l'Iran, la Turchia), il sogno ossessivo della rivincita araba sull'Occidente si ripropone un quarto di secolo dopo Nasser epperò senza Nasser il quale, a modo suo, era un progressista laico. Da qui la necessità di far capire agli spiriti liberi arabi che Claude Imbert definisce "coloro che inventano l'avvenire", che la Guerra del Golfo è in realtà la sconfitta vergognosa d'un tiranno paranoico e mediocre il quale non ha nulla da spartire con l'Islam, con il socialismo. Non ci sarà bisogno, per far trionfare la ragione, per aiutare gli spiriti liberi arabi a prendere coscienza della realtà, di impiegare l'alta tecnologia. Basterà affidarsi a una semplice bilancia, quella della giustizia storica. Per rendere, appunto, giustizia ai palestinesi, alle infinite legioni del lumpenproletariat arabo, dal Golfo all'Atlantico. Ma per riuscire in una simile impresa bisognerà innanzitutto cercare di capire il linguaggio politico dell'Islam. Distinguendo tra fondamentalismo e integralismo. Una cosa è il richiamo, legittimo, alle fonti della cultura religiosa islamica, il tentativo di recuperare valori fondamentali stravolti dal consumismo gabellato per progresso; altra cosa è l'integralismo che manipolando spregiudicatamente il Corano cerca di allargare l'abisso fra Occidente e Islam. Quell'abisso che tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento sembrò sul punto di colmarsi con l'avvento del modernismo musulmano. Quel sommo arabista ch'è il nostro Francesco Gabrieli, forse il più illuminato di tutti, ci apprende come il modernismo musulmano "fu irenico, eticamente elevato, permeato di cultura europea (... ) L'Europa non fu più il nemico da ignorare o da combattere, ma la creatrice di una nuova civiltà in cui anche l'Islam, nelle sue più pure sorgenti, rivendica la sua disponibilità e la sua parte''. • • • Bush ha rinunciato al proposito di eliminare fisicamente Saddam Hussein per non sacrificare Gorbaciov sull'altare della vecchia Armata Rossa schieratasi sin dal primo momento col dittatore mesopotamico. (Si vuole addirittura che il piano d'invasione del Kuwait sia opera di un noto generale sovietico). La decisione di Bush è stata senz'altro saggia e c'è da sperare eh' egli non si faccia irretire da suggeritori improvvidi, predicatori interessati del "tanto peggio tanto meglio". Un Saddam

ATTUALITÀ morto sarebbe divenuto, e potrebbe subito diventare, un martire e, quindi, automaticamente, un eroe tale da infiammare, proprio perché "caduto sul campo dell'onore, combattendo contro gli infedeli'', le masse, arabe e non, la cui frustrazione viene alimentata, se non esasperata, giorno dopo giorno, dal "messaggio" integralista. Al contrario, un Saddam dimezzato, probabilmente destinato a sfinirsi nel disastro di se stesso, e magari ostaggio del suo partito, il Baas, potrebbe perdere alla fine, il ruolo di paladino del mondo arabo per scadere a quello di un mi/es gloriosus di periferia. Saddam o non Saddam, rimane il problema della frustrazione araba. Che ha un nome: Palestina. Può sembrare incredibile a chi, come noi, vede la questione palestinese in termini puramente geopolitici che le masse arabe ne abbiano fatto una vera e propria malattia. Il fatto è che per gli arabi (attenzione: non per i regimi arabi che si sono sempre e soltanto limitati a strumentalizzare la disgrazia dei palestinesi) la Palestina occupata è una ferita. Insopportabile. Questo perché gli arabi vedono quell'annosa questione in termini etici. * * * Sappiamo che gli Stati Uniti sono già all'opera per sistemare il "dopo". Sappiamo che han deciso di stabilire un "nuovo ordine": a noi basterebbe che mettessero un po' d'ordine in Medio Oriente. Sarebbe già molto. Ci riusciranno i nostri eroi? Al riguardo esistono due scuole di pensiero. Una vuole che Bush abbia infine accettato i criteri di Baker, un uomo che il mondo arabo lo conosce abbastanza (è un petroliere texano) e che ha sempre giudicato "irritante e miope" la politica della destra israeliana al potere in Gerusalemme. Baker certamente non vuole che Israele venga mal ripagato per aver tenuto i nervi saldi di fronte alla omicida provocazione irachena. Ma si rifiuta di accettare il disegno "mistico-militare" di Shamir, ch'è, poi, quello dei sionisti revisionisti (Jabotinsky, Abraham Stern). Codesto disegno ha nome Eretz Israel, cioè il Grande Israele che dovrebbe incorporare la Giudea e la Samaria, vale a dire i territori occupati. L'acquisizione dei territori darebbe ragione agli integralisti islamici secondo i quali gli Stati Uniti hanno combattuto una "guerra coloniale" al solo scopo di fare di Israele la potenza egemone del Medio Oriente. Niente Eretz /srael, dunque, ma una Iscrizione devozionale, Egitto XVII secolo "soluzione dignitosa e ragionevole" della tragedia palestinese. La seconda scuola di pensiero vuole, invece, che nell'idea che gli Stati Uniti si son fatti de! "nuovo ordine" ci sia un punto fermo: premiare Israele. Come? Evitando che il "dopo" porti al momento della verità sui territori occupati. E questo sostenendo sino in fondo, con ben dosati bluff diplomatici, il governo Shamir (anche penalizzando la sinistra laburista che presumiamo essere più ragionevole) nel suo rifiuto ostinato e arrogante d'una conferenza di pace. Nell'ipotesi dannata che trionfasse la seconda scuola di pensiero, vorrà dire che invece di ordine avremo un ennesimo sconquasso che accrescerà il disordine. È stato più volte ricordato in queste settimane che tutte le guerre combattute nel Vicino Levante in quest'ultimo mezzo secolo hanno prodotto rivolgimenti profondi. La guerra del 1948 aprì la strada alla rivoluzione nasseriana. Quella del 1956provocò l'espansionismo ideologico del nasserismo determinando, fra l'altro, la sanguinosa rovina della monarchia (filoinglese) irachena. Dopo la "guerra dei sei giorni", il colonnello Gheddafi annullò la monarchia di Idriss il Senusso. Last but not least, la guerra del Kippur determinò quello shock petrolifero che doveva portare alla crisi iraniana e alla tragedia libanese, a sua volta intimamente legata, quest'ultima, alla tragedia palestinese. Se a questa Guerra del Golfo, breve ma sconvolgente, non dovesse seguire una conferenza di pace o quella più praticabile, forse, "Helsinki 2" postulata da De Michelis, ci sa-

ic)JI.BI.\ :\'(:0 lXII. H()S.'-;() iii•iii•h rebbe veramente di che disperarsi. Perché la mancata soluzione del problema palestinese porterebbe fatalmente a un esasperarsi del "malessere" che già attraversa il Maghreb, quella costa nordafricana che ci sta di fronte, dove sono paesi coi quali l'Europa, l'Italia in primo luogo, "deve" avere rapporti "buoni e concreti", pena gravi squilibri in sede energetica e preoccupazioni effettive nel campo della sicurezza. Agitando il Corano, gli apprendisti stregoni in turbante hanno scatenato nel mondo arabo, dal Golfo all'Atlantico, forze che minacciano di travolgere i regimi al potere. In particolare nel Maghreb dove gli integralisti sono già nel1'anticamera del Palazzo (in Algeria, in Tunisia). Saddam s'è coperto di ludibrio e c'è da augurarsi che la volontà dei suoi poveri sudditi innocenti prevalga sulla tracotanza terroristica di quella leadership. Saddam ha sbagliato tutto, ma io non riderei troppo sul fatto ch'egli abbia battezzato la sua disfatta "Madre di tutte le battaglie''. Potrebbe diventare, infatti, la "madre di tutte le rivoluzioni", terribili portatrici non già di un ''nuovo ordine'' ma di un devastante disordine aggravato, per di più, da qualche possibile rozzezza impolitica del Pentagono. Saddam va castigato, l'ho detto e scritto sin dal primo momento, ma attenzione a non umiliare gli arabi. Soltanto la pace può evitarci la loro collera. E la pace va trovata nel cuore antico del mondo, là dove il palestinese Gesù morì crocefisso per resuscitare: in Palestina. Pds e alternativa: il più è da creare di Biagio De Giovanni A Ila questione se la nascita del Pds avvicini l'alternativa politica in Italia, .non si può rispondere in maniera univoca o semplificata intanto perché c'è una prima variabile da mettere nel conto: avrà o meno successo la nuova formazione politica? Riuscirà a capire un significativo spazio politico e culturale? La domanda, a due mesi circa dalla conclusione del congresso di Rimini, non è affatto retorica: le cose non vanno bene, e bisogna prenderne perfetta coscienza senza coprire per carità di patria una situazione che presenta aspetti assai preoccupanti. Non vanno bene sotto l'aspetto organizzativo e relativo alle attese adesioni; ma non vanno bene sotto questo aspetto soprattutto perché tuttora non è chiara l'identità che la nuova formazione politica veramente intende darsi e la maggioranza sulla quale si formerà per davvero un nuovo gruppo dirigente. In questa sede non è possibile esaminare le ragioni di questa vera e propria impasse, legata prevalentemente sia alla lunghezza di un dibattito tutto interno, critico e lacerante sia alla decisa sottovalutazione della necessità di una convinta elaborazione culturale della "svolta" che è praticamente mancata, con enorme danno per la questione dell'identità. Si avverte molto, in questa fase, isolamento e difficoltà di dialogo. Non ci si può nascondere che, anche sul decisivo terreno dell'iniziativa politica, si è data l'impressione di una ricerca più di equilibri e mediazioni interne che di una scelta chiara e magari sofferta in momenti decisivi come quelli vissuti durante la guerra del Golfo. Qual'era, in generale, la situazione del Pci-Pds lungo questo anno di travaglio? Di essere, da un lato, una grande forza nazionale, rappresentativa in Italia di una vera e propria civiltà politica che ha connotato cinquant'anni di storia, dall'altro di partecipare - ciò è in-

,{)-l.l. BIANCO '-Xli.ROSSO ii•••··• dubbio - della sconfitta epocale del movimento comunista. In questo drammatico e anche grandioso intreccio, la ricollocazione storico-ideale del partito andava portata avanti con grande chiarezza di intenti e univocità di segnali. Ma non vorrei parlare al passato; consideriamo il problema ancora aperto e confidiamo nel fatto che il vuoto lasciato dal Pci possa ancora essere opportunamente "colmato" con una nuova intenzione e una nuova iniziativa. Diamo dunque per nato il Pds e diamo per possibile uno sviluppo ampio della sua forza. Ciò avvicinerà veramente l'alternativa? Si potrebbe rispondere subito positivamente anche per una ragione tutta interna al problema così come l'ho posto: il Pds nasce sulla proposta di alternativa e un suo successo organizzativo e politico (e, naturalmente, elettorale) starebbe a indicare un avvio di risposta positiva della società italiana a questa proposta, una volontà rivolta a creare almeno una prima condizione per un ricambio e una alternanza al governo del paese. Ma la cosa non è affatto così semplice anche nell'ipotesi ottimisticamente delineata. In questi mesi e anche in questi ultimi giorni stiamo infatti assistendo a vicende di portata ancora imprecisata, ma tali da spostare e rimuovere molti dati della situazione italiana. Sembra che sull'onda di evidenti forzature istituzionali si vada accelerando da più parti il passaggio verso una forma di riorganizzazione dei vari poterì decisivi, fino a delinearsi un vero e proprio spostamento nei rapporti fra questi poteri in una critica progressiva e accelerata dei fondamenti culturali e politici della I Repubblica. Nessuno forse è in grado di prevedere dove tutto ciò giungerà, ma è assai probabile immaginare che tutte le questioni politiche si porranno a partire dal nuovo assetto che si va delineando, dalla collocazione delle diverse forze e partiti in questa congiuntura, dalla stessa permanenza di una continuità nella logica complessiva del sistema italiano. Vorrei aggiungere, prima di avviarmi a concludere il breve ragionamento, che assai sintomatica, in questa confusa vicenda "all'italiana'', è la posizione del Psi lanciatosi senza alcuna riserva nel varco aperto dalle iniziative del Quirinale. In parallelo, lo stesso Psi - e la cosa ha una sua logica e coerenza interna del tutto evidente - ha irrigidito le distanze dal Pds, sia profittando delle sue incertezze sia contribuendo a rafforzarle. Che cosa restituisce questo quadro? Intan- . - ---- .. - - --- 11 to, una difficoltà non congiunturale nei rapporti a sinistra e dentro quella che continuerei a chiamare la "sinistra storica". Starei per dire che si avvertono oggi più difficoltà di quanto mai se ne siano avvertite in passato, e ciò è tanto più grave in quanto questo stato di cose interviene dopo la "svolta" e dopo, quindi, da parte del Pci-Pds si era comunque avviato un processo di novità pur entro le incertezze e le difficoltà prima rilevate. C'è un allontanamento, non un avvicinamento a sinistra. E siccome le cose non sono mai casuali, tutta questa fenomenologia sta a indicare che il Psi privilegia, oggi, a ogni ipotesi di alleanza a sinistra, una sorta di centralità "giacobina" della questione istituzionale, intesa come vero e unico grimaldello per "aprire" il sistema italiano e condurlo lungo strade destinate a fondarne uno nuovo. Non si dice affatto che ciò non abbia le sue ragioni interne, che di tutto ciò non si debba pacatamente discutere: non si dice affatto che il cosiddetto "sistema dei partiti" non sia giunto o non stia per giungere a un punto morto, non si nega affatto appunto una sorta di vera e propria centralità della questione istituzionale; ma nei termini in cui tutto ciò si sta avviando, non sembra che la situazione possa facilitare il dialogo pacato, la ricerca di soluzioni comuni, la ricostituzione - almeno in idea e in prospettiva - di una "sinistra" in grado di competere unitariamente per le necessarie modifiche. Sembra che si giochi piuttosto dando spazio alla previsione di una variabile negativa sui caratteri e sulle prospettive del Pds. Non dico che a rafforzare questa ipotesi non abbia dato un contributo rilevante i modi della nascita di questa nuova formazione politica e ho anche portato in proposito degli argomenti, ma comunque il gioco politico a sinistra sembra farsi assai aspro e privo di prospettive visibili. E allora non sembra che l'alternativa in nessun modo si avvicini. La nascita del Pds finora non è riuscita a far diventare quella ''parola'' (peraltro bisognosa di molti chiarimenti) elemento di un reale lessico politico e di un reale e spendibile significato. Non è solo pessimismo, questo, molto in Italia si muove in direzioni confUsee rischiose. In questo quadro bisogna stare, ed operare per i necessari chiarimenti. Decisiva, e torno cosi al tema iniziale, sarà la forza con la quale il Pds riuscirà a ricollocarsi nel quadro dei partiti italiani. Ma ciò compete anzitutto a chi, in questo partito, ha avuto fiducia e ancora intende averne.

ATTLALITÀ Pds: urge una ''nuova'' politica estera di Sergio Segre I 1 neonato Partito democratico della sinistra deve ancora definire la propria piattaforma programmatica. Anche in politica internazionale. Quello che sinora è stato detto in proposito è troppo poco e troppo generico. Non basta, evidentemente, proclamare l'intenzione di entrare a far parte dell'Internazionale socialista e dichiarare di riconoscersi nei valori da essa espressi. Lo si è visto con chiarezza durante la guerra nel Golfo, e non c'è bisogno, ora, di ritornarvi su. Questa carenza programmatica, che ha rappresentato con ogni evidenza il limite fondamentale del Congresso di Rimini, va superata con urgenza, non da ultimo per il fatto che le elezioni politiche alla scadenza naturale del 1992 o in tempi più ravvicinati, sono ormai alle porte. Non è però ancora chiaro come, e in che tempi, si arriverà a questa definizione programmatica, e questo rappresenta, per il nuovo partito, un limite serio, da superare rapidamente. Per poterlo davvero superare occorre mettere in conto quella che sarà probabilmente una caratteristica non contigente del nuovo partito, l'esistenza, cioè, di differenze e divergenze, politico-culturali, che si faranno sentire prevedibilmente in modo rilevante, anche se non esclusivo, nelle impostazioni di politica internazionale. Al di là dello sforzo, indispensabile, teso a creare, di continuo, le più larghe convergenze unitarie, questo richiede e richiederà, alla maggioranza, non soltanto chiarezza di idee ma anche forte volontà politica, coerenza, capacità di operare per scelte programmatiche precise, ben definite e dunque non ambigue, e di adottare comportamenti lineari che non si prestino a varietà di interpretazioni. Premessa di tutto questo è, ovviamente, la messa al bando di ogni ideologismo. Il passato è passato, ed è passato per sempre, anche se sarà indispensabile continuare a scavare nella storia del Pci e periodizzarla, dal terzinternaMoschea di Samarra, Iraq, IX secolo zionalismo al cominformismo, sino al lungo processo politico e teorico di piena autonomia dal mondo cupo e tragico del "socialismo reale'' e di affermazione alla democrazia come valore universale. Il Pds, anche se deve ancora definire la propria piattaforma programmatica e nasce come una nuova formazione politica, non muove da zero. Nasce, per così dire, immunizzato, poiché è del tutto chiaro, storicamente, quello che non dovrà essere e fare, pena un sofferto decollo e una non piena utilizzazione delle molte potenzialità di cui dispone. Ma se questo è vero è anche segnata, obbligatoriamente, la strada che dovrà seguire e sono predeterminate le ispirazioni alle quali dovrà richiamarsi per riuscire ad affermarsi come una grande forza di pace e di progresso, di sinistra, tanto sul piano nazionale quanto su quello europeo e internazionale, e portare un proprio contributo, nella coscienza dei propri limiti e dunque senza residui di arroganze, alla costruzione di un mondo che si avvia al nuovo secolo e al nuovo millennio in condizioni che dopo il 1989, il 1990 e questo inizio di '91 sono radicalmente mutate. Le grandi contraddizioni, a cominciare dal Nord-Sud, e i grandi problemi, a cominciare

i.)JJ. lllAN(:O \Xll.llOSSO iiikiil•b da quelli del Golfo e del Medio Oriente, sono tutti sul tappeto, anche se fortunatamente matura nel mondo il convincimento che è ormai necessario, e possibile, affrontarli politicamente e cominciare ad avviarli a soluzione. Da questo convincimento escono esaltati il ruolo dell'Onu, come momento di aggregazione mondiale capace di fronteggiare le spinte pericolose alla disgregazione della società internazionale, e il ruolo dell'Europa: l'Europa dei dodici, che dovrà stringere i tempi della propria costruzione economica, politica, di sicurezza e di difesa, e l'Europa più grande, quella uscita da Helsinki e che ora, a Parigi, ha compiuto un vero e proprio salto di qualità. Le coordinate sono dunque evidenti, a cominciare dalla collocazione internazionale dell'Italia. L'importante è e sarà che queste coordinate evidenti lo siano sempre, nell'azione quotidiana e in quella di più lungo respiro. Una forza popolare ha bisogno di un grande respiro ideale di pace, di giustizia e di solidarietà ma ha anche bisogno, per affermarsi come forza di governo, di una rigorosa coerenza e di una seria credibilità. Le premesse esistono. Or~ si tratta di farle vivere con continuità. Riformadella Cig e politichedel lavoro di Antonio Mazzetti L a riforma della Cig è stata approvata dal Senato circa tre anni fa. Quando, a seguito di un accordo fra governo e parti sociali, la Camera dei Deputati ha ripreso l'esame di questa riforma rimasta ferma in commissione da oltre due anni, si era diffusa la speranza di una sua rapida approvazione. Questa speranza è ora messa in forse dall'intervento della Confindustria che ha l'obiettivo esplicito di impedire l'approvazione della legge. Eppure non si tratta di una legge eversiva, al contrario la riforma supera l'anarchia in cui è caduta la gestione di questo strumento di sostegno al reddito e cerca di collegarlo ad una corretta gestione del mercato del lavoro, ponendo precisi limiti temporali alla fruizione dei benefici e creando le liste di mobilità per quei lavoratori che risultavano non ricollocabili nei processi di ristrutturazione. La Confindustria ha cercato in un primo tempo di contestare nel merito singoli aspetti del provvedimento. In particolare le norme che tutelano i soggetti deboli e le norme che prevedono il controllo sindacale nelle pro13 cedure. Queste obiezioni si sono dimostrate in buona parte un pretesto. Quando il governo ha cercato di proporre una mediazione sui punti controversi la Confindustria ha fatto sapere che non è interessata alla mediazione. Come al solito ha brillato per pedissequa acquiescenza la posizione dell'lntersind, che ha coperto tutte le tesi confindustriali con uno zelo degno di migliore causa. Il Sindacato è mobilitato a difesa di questa legge, che ritiene importante soprattutto nel suo aspetto innovativo di legare la difesa del reddito alla strategia più complessiva di una politica attiva del lavoro. Il Sindacato ha sempre considerato questa legge un passo nella giusta direzione di ripensare la strumentazione nata dalle emergenze degli anni settanta ed ottanta. Il mantenimento della vecchia normativa privilegia una gestione clientelare della Cig dove prevale la discrezionalità, e la contrattazione fra le parti sociali è devitalizzata dalle alleanze trasversali politiche e di campanile. Il Parlamento, se subirà la pesante intromissione confindustriale e non saprà licenziare la riforma, avrà accentua-

,i)-lJ. BIANCO lXII.ROSSO iii•li••d Kiswah, drappo della Ka'ba con basmalah e iscrizione. to le ragioni di disagio e di scollamento con la società civile dovute da una parte alle difficoltà della finanza pubblica, alla scarsa efficienza dei servizi e al moltiplicarsi dei problemi, ma soprattutto allo scarto che esiste fra il maturare e l'affinarsi di una coscienza dei servizi e le logiche per troppi versi meramente assistenziali con cui si pensa di rispondere alla domanda sociale. La giusta esigenza di farsi carico delle compatibilità, di permettere lo sviluppo dell'efficienza dell'apparato produttivo, non può significare la cancellazione del conflitto e delle problematiche sociali in una società moderna e civile. Se abbiamo criticato la logica del salario come variabile indipendente, non è meno criticabile la stessa logica oggi quando è riproposta dall'impresa rispetto alla socialità. La sfida riformista deve sapere costruire positive risposte portando avanti una riflessione capace di non mettere in contraddizione lo sviluppo e la difesa dei soggetti più deboli. Dobbiamo fare i conti con i processi di ristrutturazione dell'apparato produttivo e dei servizi che diventeranno sempre più un aspetto fisiologico dell'economia che si avvia agli anni duemila. C'è la necessità quindi di dotarsi di idonei strumenti per affrontare questi fenomeni che non possono più essere letti come emergenze. Questa neccessità comporta sia la rilettura della vecchia strumentazione, sia l 'individuazione di una nuova. Le politiche di sostegno al reddito scaturite dalle crisi degli anni settanta avevano il limite di creare una sperequazione di trattamenti fra lavoratore e lavoratore, avevano il limite di mantenere il lavoratore in una sorta di limbo fuori dalla fabbrica ma legato alla fabbrica. Di fronte all'estendersi dei fenomeni di ristrutturazione dal settore industriale a quello dei servizi, si pone nel medio periodo il problema di omogeneizzare la tutela dei lavoratori coinvolti. Questo comporta, se non vogliamo un sostanziale abbassamento dei livelli di protezione una maggiore contribuzione attraverso lo strumento fiscale o attraverso strumenti solidaristici. Non possiamo però più considerare questo "pagamento del non lavoro" come lo strumento quasi esaustivo della problematica collegata ai processi di ristrutturazione. Il problema centrale che abbiamo e avremo davanti è quello di come nel minore tempo possibile noi riusciamo a riutilizzare la risorsa umana emarginata. In questa ottica si deve porre maggiore attenzione al funzionamento della strumentazione a partire da quelli di governo del mercato del lavoro che sono scaturiti dalla riforma della legge 56/87 che rischiano di non decollare a causa delle resistenze delle vecchie strutture del collocamento, mentre il loro corretto funzionamento è condizione per meglio programmare l'incontro fra domanda ed offerta di lavoro; la Formazione Professionale, che fino ad oggi ha prodotto più scandali che istruzione, che risulta carente proprio dove è più acuta la crisi occupazionale, deve diventare formazione permanente; non più limitata alle fasce giovanili, ma a tutte le fasce di età lavorative per accompagnare e promuovere la professionalità alle esigenze del rinnovamento tecnologico; la strumentazione per facilitare l'inserimento lavorativo oggi prevista essenzialmente per l'occupazione giovanile, dovrà essere modulata sulle effettive necessità della domanda di lavoro; il governo delle flessibilità attraverso politiche sull'orario di lavoro e delle nuove forme di lavoro atipico; le esperienze di lavoro socialmente utile collegato a momenti formativi, non come mero sostegno al reddito, ma come strumento di primo inserimento lavorativo da collegarsi alle attività delle Agenzie regionali per il lavoro ed allo sviluppo dei servizi all'occupazione. Si tratta di una strada difficile dove tutti dobbiamo imparare a lavorare meglio. La qualità e la selettività dell'intervento diventano decisive soprattutto in questa fase di difficoltà. Nessuno può permettersi la facile demagogia di promettere tutto a tutti; simile scelta rappresenta o l'incapacità a darsi priorità o la scelta di lasciare queste alla logica del più forte.

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