Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 14 - marzo 1991

dalla fabbrica; ma il pensiero lo è sempre e lo è di più. Chiunque abbia provato quello sfinimento e non l'abbia dimenticato può leggerlo negli occhi di quasi tutti gli operai che la sera escono da una fabbrica. Come si vorrebbe poter deporre la propria anima, entrando, insieme al proprio cartellino, e riprenderla intatta all'uscita! E invece accade il contrario. La si porta con sé in fabbrica, dove patisce; e la sera, quello sfinimento l'ha come annientata e le ore di libertà sono vane. Certi incidenti, durante il lavoro, procurano, è vero, gioia, anche se diminuiscono il salario. Anzitutto il caso, che è raro, in cui si riceva da un'altra persona una preziosa prova di cameratismo; poi tutte quelle situazioni nelle quali riusciamo a cavarcela da soli. Mentre ci si ingegna, ci si sforza, si giuoca d'astuzia con l'ostacolo, l'anima è occupata da un avvenire che dipende solo da noi. Più un lavoro è suscettibile di comportare simili difficoltà, più spesso solleva l'animo. Ma questa gioia è incompleta per mancanza d'uomini, di compagni o di capi che giudichino o apprezzino il valore di quel che è riuscito. Quasi sempre tanto i capi come i compagni incaricati d'altre operazioni sui medesimi pezzi si preoccupano esclusivamente dei pezzi e non delle difficoltà vinte. Questa indifferenza priva del calore umano di cui si ha sempre un po' di bisogno. Anche l'uomo che meno -:desiderasoddisfazioni di amor proprio si sente troppo solo in un luogo dove si è convenuto di interessarsi esclusivamente a quel che ha fatto, mai al modo seguito per farlo; per questo le gioie del lavoro si trovano relegate al rango delle impressioni non formulate, fuggitive, scomparse non appena nate; il cameratismo dei lavoratori non riuscendo a prender corpo, rimane una velleità informe; e i capi non sono uomini che guidano e sorvegliano altri uomini bensì gli organi d'una subordinazione impersonale, rozza e fredda come il ferro. È vero, in questo rapporto di subordinazione, la persona del capo interviene, ma capricciosamente; la rozzezza impersonale e il capriccio, invece di temperarsi, si aggravano reciprocamente, come la monotonia e il caso. [... ] Le cose fanno la parte degli uomini, e gli uomini quella delle cose; questa è la radice del male. Vi sono molte situazioni differenti in una fabbrica: l'aggiustatore che in un'officina .P-ll BIAl\CO '-XltllOSSO •hitlii•Mkii attrezzaggio fabbrica, ad esempio, delle matrici di pressa, meraviglie di ingegnosità, lunghe a lavorarsi, sempre diverse, costui non perde nulla entrando in una fabbrica; ma questo caso è raro. Molti invece nelle grandi fabbriche ed anche in molte delle piccole sono quelli o quelle che eseguono a gran velocità, ordinatamente, cinque o sei gesti semplici indefinitivamente ripetuti, uno circa al secondo, senz'altra possibilità di riprendere fiato eccetto in qualche corsa ansiosa per cercare una cassa, un operatore, o altri pezzi fino all'istante preciso in cui un capo viene a prelevarli, come se fossero oggetti, per metterli La prima edizione olandese del diario. davanti a un'altra macchina; dove resteranno finché non saranno messi altrove. Costoro sono cose quanto può esserlo un essere umano, ma cose che non sono autorizzate a perdere coscienza, perché bisogna sempre poter fare fronte all'imprevisto. La successione dei loro gesti non è chiamata, nel linguaggio di fabbrica, con il nome di ritmo, ma con quello di cadenza; ed è esatto, perché questa successione è il contrario di un ritmo. Tutte le serie di movimenti che partecipano della bellezza e che vengono compiuti senza degradare chi li compie racchiudono attimi di sosta brevi come i lampi, che fondano il segreto del ritmo e danno allo spettatore, anche attraverso l'estrema rapidità, l'impressione della lentezza. Il podista, nel momento in cui batte un record mondiale, sembra scivolare lentamente, mentre si vedono i mediocri corridori affannarsi alle sue spalle. Più un contadino falcia presto e bene, più coloro che lo guardano sentono che, come si dice così giustamente, egli "prende il tempo che ci vuole". Lo spettacolo, invece, degli operai alle macchine è quasi sempre quello di una misera fretta dalla quale è assente ogni grazia ed ogni dignità. È naturale per l'uomo, e gli si addice, fermarsi quando ha fatto qualcosa, foss'anche lo spazio d'un attimo, per prenderne coscienza, come lddio nella Genesi; questo lampo di pensiero, di immobilità e di equilibrio, è quel che bisogna proprio imparare a sopprimere completamente, quando si lavora in una fabbrica. Gli operai alle macchine raggiungono la cadenza voluta solo se i gesti di un secondo si succedono in modo ininterrotto quasi come il tic-tac di un orologio senza che mai nulla indichi che qualcosa è finito e che qualcos'altro comincia. Quel tic-tac del quale non è possibile sopportare a lungo la tetra monotonia, essi devono quasi riprodurlo con i propri corpi. Questo ininterrotto concatenamento tende a far discendere in una sorta di sonno, ma bisogna sopportarlo senza dormire. Non è solo un supplizio; se ne venisse solo sofferenza, il male sarebbe minore di quel che è. Ogni azione umana esige un movente che fornisca l'energia necessaria per compierla ed essa è buona o cattiva a seconda che il movente sia elevato o basso. Per piegarsi alla sfibrante passività che l'officina pretende, bisogna cercare in se stessi dei moventi, perché non ci sono fruste né catene; fruste o catene renderebbero forse più facile la trasformazione. Le condizioni stesse del lavoro impediscono la possibilità d'intervento di altri moventi che non siano la paura dei rimproveri e del licenziamento, l'avido desiderio di guadagnare quattrini, e, in una certa misura, il piacere dei record di velocità. Tutto concorre a richiamare al pensiero questi moventi e a trasformarli in ossessione; non si fa mai appello a qualcosa di più elevato; e poi, per essere sufficientemente efficaci, devono diventare ossessivi. Mentre

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