spesso, in sé, assai leggere; se sono amare, ciò accade perché ogni volta che le si prova (e le si prova sempre), il fatto che si vorrebbe dimenticare, il fatto che in fabbrica non ci si sente a casa, che non vi si ha diritto di cittadinanza, che vi si è uno straniero ammesso come semplice intermediario fra le macchine e i pezzi forgiati, questo fatto colpisce anima e corpo; sotto questo oltraggio, carne e pensiero si contraggono. Come se qualcuno ripetesse all'orecchio, di minuto in minuto, senza che fosse possibile dare nessuna risposta: "Tu, qui, non sei nulla. Tu non conti. Tu sei qui per piegarti, subire tutto e tacere''. È quasi impossibile resistere alla ripetizione di questa frase. Si finisce con ammettere, nel più profondo di se stessi, di non contare nulla. Tutti gli operai di fabbrica, o quasi, e anche quelli che hanno il piglio più indipendente, hanno qualcosa di quasi impercettibile nei movimenti, nello sguardo, e soprattutto nella piega delle labbra, che esprime il fatto d'essere stati costretti a considerarsi nulla. Quello che ve li costringe è, soprattutto, il loro modo di subire gli ordini. Si nega spesso che gli operai soffrano della monotonia del lavoro, perché si è notato che spesso un mutamento di fabbricazione è, per loro, una contrarietà. Eppure il disgusto invade l'anima, durante un lungo periodo di.lavoro monotono. Il mutamento dà sollievo e pena insieme; pena spesso assai viva nel caso del lavoro a cottimo, perché il guadagno diminuisce e perché è una abitudine e quasi una convenzione attribuire più importanza al denaro, cosa evidente e misurabile, che ai sentiJI!enti oscuri, inafferrabili, inesprimibili, che durante il lavoro si rendono padroni dell'anima. Ma, anche se il lavoro è pagato a tariffa oraria, c'è contrarietà, irritazione per il modo con cui il mutamento viene ordinato. Il nuovo lavoro è imposto improvvisamente, senza preparazione, nella forma di un ordine al quale si deve obbedire immediatamente e senza replica. Chi obbedisce così avverte allora brutalmente che il suo tempo è sempre a disposizione di altri. Il piccolo artigiano che possiede una officina meccanica e che sa di dover fornire, entro una quindicina di giorni, tanti trapani, tanti rubinetti, tante bielle, nemmeno lui dispone arbitrariamente del suo tempo; ma alme- _p__ Jt BIANCO l.XIL llOSSO 1h1i1•UMiii no, una volta accettata l'ordinazione, sarà lui a determinare in anticipo come impiegare le sue ore o le sue giornate. Se anche il capo dicesse all'operaio una settimana o due prima: per due giorni mi farai delle bielle, e poi dei trapani e così via, bisognerebbe obbedire, ma sarebbe possibile abbracciare con il pensiero il prossimo avvenire, disegnarlo in anticipo, possederlo. Non è così in fabbrica. Dal momento che si timbra per entrare fino al momento che si timbra per uscire, si è, in ogni istante, nella condizione di poter subire un ordine. Come un oggetto inerte che ognuno può, quando voglia, mutar di luogo. Se si lavora su di una serie di pezzi che deve durare ancora due ore, non è possibile pensare a quello che si farà fra tre ore senza che il pensiero debba compiere un passaggio obbligato attraverso il superiore, senza essere costretti a ripetere a se stessi che si è sottoposti a ordini; se si fanno dieci pezzi al minuto, ciò accade già per i cinque minuti seguenti. Se si suppone che forse non verrà nessun ordine, ed essendo gli ordini il solo elemento di varietà, eliminarli con il pensiero vuol dire condannarsi ad immaginare una ripetizione ininterrotta di pezzi sempre identici, di regioni tristi e desertiche che il pensiero non può percorrere. In realtà, è vero, mille minimi incidenti popoleranno quel deserto; ma, se contano nell'ora che passa, non possono essere calcolati quando ci si rappresenta l'avvenire. Se il pensiero vuole evitare questa monotonia, immaginare qualche mutamento, e dunque un ordine improvviso, non può viaggiare dal momento presente all'avvenire senza passare attraverso un'umiliazione. Così il pensiero si rattrappisce. Questo ripiegamento sul presente produce una specie di stupore. Il solo avvenire sopportabile per il pensiero, al di là del quale non ha la forza di estendersi, è quello che, quando si è in pieno lavoro, separa l'istante nel quale ci troviamo dal compimento del pezzo in corso, se si ha la fortuna che esso sia di lavorazione un po' lunga. In certi momenti il lavoro è assorbente quanto basta perché il pensiero si mantenga automaticamente in quei limiti. Allora non si soffre. Ma, la sera, quando si è usciti; e soprattutto al mattino, quando ci si dirige verso il luogo di lavoro e l'orologio marcatempi, è duro pensare alla giornata che bisognerà percorrere. E la domenica sera, quando quel che si presenta alla mente non è una giornata bensì tutta la settimana, l'avvenire è qualcosa di troppo tetro, di troppo pesante, che fa piegare il pensiero. La monotonia d'una giornata in fabbrica, anche se nessun mutamento di lavoro viene ad interromperla, è screziata da mille piccoli incidenti che popolano ogni giornata e ne fanno una storia nuova; ma, come avviene con il mutamento del lavoro, qu~gli incidenti feriscono più di quanto confortino. Corrispondono sempre ad una diminuzione del salario, nel caso del lavoro a cottimo; di modo che non è possibile augurarseli. Ma spesso feriscono anche in sé e per sé. L'angoscia diffusa su tutti gli attimi del lavoro ci si concentra, l'angoscia di non andare abbastanza presto e quando, come spesso accade, si ha bisogno di un'altra persona per poter continuare, d'un caposquadra, d'un magazziniere, di un operatore, il sentimento di dipendenza, d'impotenza, di non contare nulla agli occhi dei superiori, può diventare doloroso fino al punto da strappare lacrime agli uomini come alle donne. La possibilità continua di questi incidenti, la macchina che si ferma, la cassa che non si trova e così via, invece di diminuire il peso della monotonia, toglie quel rimedio che in generale essa porta in se stessa, il potere di assopire e di cullare i pensieri in modo da cessare, in una certa misura, d'esser sensibile; una leggera angoscia impedisce questo effetto di assopimento e obbliga ad aver coscienza della monotonia, benché averne coscienza sia intollerabile. Non c'è nulla di peggio dell'unione della monotonia e del caso; si aggravano l'un l'altro, almeno quando il caso è angoscioso. È angoscioso nella fabbrica perché non è riconosciuto; teoricamente, benché tutti sappiano che non è affatto così, le casse dove mettere i pezzi non mancano mai, gli operatori non si fanno mai aspettare e ogni rallentamento nella produzione è colpa dell'operaio. Il pensiero deve costantemente essere pronto, tanto da seguire il corso monotono dei gesti indefinitivamente ripetuti quanto a trovare in se stesso le risorse necessarie per rimediare all'imprevisto. Obbligo contraddittorio, impossibile, sfibrante. Il corpo è talvolta sfinito, la sera, quando esce
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