Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 14 - marzo 1991

~li.BIANCO llL1t nosso Uiiti ih i~• iii Esperienzedella vita di fabbrica di Simone Weil Di origine ebrea, Simone Weil è una delle più singolari e straordinarie donne di questo secolo. Nata a Parigi nel 1909, è stata studentessa della Scuola Normale Superiore ed ha insegnato filosofia in vari licei. Lasciato volontariamente l'insegnamento ha lavorato per un anno come fresatrice nelle Officine Renault nascondendo la propria identità e vivendo del salario operaiofinché una grave malattia la costrinse a lasciare lafabbrica. È stata volontaria in Spagna con i Repubblicani; un incidente la costrinse però a tornare in Francia dove riprese i suoi studi e dove l'evoluzione del suo pensiero la portò a considerarsi cristiana (anche se non ha mai ricevuto il battesimo). Dopo la sconfitta francese, esclusa dall'attività pubblica a seguito delle persecuzioni razziali, ha vissuto qualche tempo nel sud della Francia lavorando come contadina fino a quando, nel maggio del '42, ha potuto emigrare da Marsiglia negli Stati Uniti insieme ai propri genitori. Tuttavia, nella speranza di poter essere utile agli ebrei ed ai propri connazionali, ritornò quasi subito in Europa stabilendosi a Londra. È morta nel sanatorio di Ashford, nel 1943, a soli 34 anni, sfinita dagli stenti ai quali si era sottoposta per partecipare alle sofferenze altrui. Il testo che segue è stato scritto a Marsiglia nel 1941 e pubblicato con lo pseudonimo di Emi/e Novis su "Economie et Humanisme". [... ] La fabbrica potrebbe riempire l'anima con il potente senso della vita collettiva - si potrebbe dire: unanime - che è data dalla partecipazione al lavoro di un grande organismo. Tutti i rumori vi hanno un significato, tutti sono ritmati, e si fondono in una specie di grande respirazione del lavoro in comune cui inebria partecipare. Ciò è tanto più inebriante in quanto il sentimento della solutidine è inalterato. Ci sono solo rumori metallici, ruote che girano, morsi nel metallo; rumori che non parlano della natura né della vita bensì dell'attività seria, continua, ininterrotta dell'uomo sulle cose. Si è perduti in quel grande fragore, ma, contemporaneamente, lo si domina, perché su quel basso continuo, permanente e sempre mutevole, quel che risalta, pur fondendosi al resto, è il rumore della macchina che noi stessi stiamo impiegando. [... ] Se fosse questo, la vita di fabbrica, sarebbe troppo bello. Ma non è questo. Quelle gioie sono gioie di uomini liberi; coloro che popolano le officine non l'avvertono se non in brevi e rari istanti, perché non sono uomini liberi. Possono sentirle solo quando dimenticano di non essere liberi; ma possono dimenticarlo di raro, perché la loro condizione subordinata è resa sensibile attraverso i sensi, il corpo, i mille particolari che riempiono i minuti di cui è fatta una vita. Il primo particolare che, nella giornata, rende sensibile la schiavitù, è l'orologio marcatempi. La strada che va da casa propria alla fabbrica è dominata dalla necessità d'esser là prima di un dato secondo meccanicamente determinato. È inutile esser cinque o dieci minuti in anticipo: lo scorrere del tempo appare per questo come qualcosa di spietato che non lascia alcun margine al caso. È, nella giornata operaia, il primo colpo di una regola la cui brutalità domina tutta quella parte dell'esistenza che viene trascorsa fra le macchine; il caso non ha diritto di cittadinanza in fabbrica. Esiste, beninteso, come dovunque; ma non è riconosciuto. Quel che è ammesso, spesso con gran detrimento della produzione, è il principio della caserma: "Non voglio saperlo". Le finzioni, in fabbrica, sono potentissime. Ci sono regole che non sono mai osservate ma che sono perpetuamente in vigore. Gli ordini in sé contradditori non però lo sono secondo la logica della fabbrica. Attraverso tutto ciò, il lavoro dev'essere compiuto. Tocca all'operaio arrangiarsi, sotto pena di licenziamento. E si arrangia. Le grandi e le piccole miserie continuamente imposte in fabbrica all'organismo umano, o, come dice Jules Romains, "quell'assorbimento di minute pene fisiche che il lavoro non richiede e che non vanno a suo beneficio" contribuiscono in egual parte a rendere sensibile la schiavitù. Non le sofferenze congiunte alle necessità del lavoro; quelle, si può esser fieri di sopportarle; bensì quelle che sono inutili. Feriscono l'anima perché generalmente non passa per la mente di andare a lamentarsene; e si sa che non passa per la mente. Si sa in anticipo che si sarebbe rimproverati e che si incasserebbe il rimprovero senza fiatare. Parlare vorrebbe dire andare in cerca di un'umiliazione. Spesso, se c'è qualcosa che un operaio non possa sopportare, preferirà tacere e andarsene. Sofferenze simili sono

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==