F== -"!I .Ili AN(:() lXII.HOSSO lii•iil•il no, a onor del vero, la loro effettiva capacità di interpretare questo ruolo. La miniscissione di Cossutta e Garavini appare sotto questo profilo provvidenziale perché obbliga il Pds a marcare con decisione in tutto il prossimo futuro, specie se costellato da occasioni elettorali (a cominciare dalle amministrative parziali e dalle regionali in Sicilia di primavera), i propri confini a sinistra e a riprecisare di continuo le ragioni di fondo dell'abbandono dell'orizzonte comunista: ma non potendo valorizzare il "turiamoci il naso, ma rimaniamo nel nuovo partito" di Ingrao, la ridefinizione pratica dell'identità del nuovo partito non può - di nuovo - che fare propri motivi e temi dell'area riformista. La vicenda Bassolino è sotto questo profilo esemplare dei vicoli ciechi in cui si ritrova qualsiasi posizione di mediazione recuperante la tradizione comunista. Infine, da ultimo, lungo questa strada, prima o poi, non si può che incontrare la questione strategica del ''programma della sinistra'', dei rapporti tra vecchi e nuovi partiti del sistema politico italiano. Qui si chiude il wishful thinking del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno. Il prezzo che si paga all'esperimento di una diagnosi cautamente ottimista è il probabile irrealismo dello scenario proposto, specie perché esso programmaticamente sottovaluta - come si è detto - tre fattori cruciali: le resistenze al mutamento delle identità politiche tra i militanti di base del partito; la competizione centrifuga tra correnti fortemente ideologizzate che rischia di congelare l'apparato e il gruppo dirigente ex comunista sulle tradizionali posizioni propagandistico-agitatorie; la convenienza in questa fase per le altre forze politiche ad erodere un segmento di elettorato appetibilissimo più che a legittimare un interlocutore ancora troppo forte. In ogni caso, che si avveri lo scenario ottimista o quello pessimista, il Pds dovrebbe mettere nel conto una probabile ulteriore emorragia elettorale: la differenza sta solo - si fa per dire - se la conteggerà fin d'ora come il prezzo inevitabile di una strategia di più ampio respiro sul medio-lungo periodo, oppure la subirà sotto il peso di una mancata chiarezza sugli esiti non eludibili del percorso intrapreso. I dilemmi del Pds L a nascita del Pds costituisce una indiscutibile novità. Se non ci fosse altro (che invece c'è, a partire dal riconoscimento del fallimento dell'ideologia comunista, dalla fine del centralismo e dalla nascita di litigiose correnti interne) bisogna almeno riconoscere che lo scivolone di Occhetto nel vecchio Pci non sarebbe stato neanche immaginabile. Ma una "cosa" nuova non comporta, per sua natura, anche la soluzione adeguata dei problemi che l'avevano originata e delle speranze che l'avevano accompagnata. Non c'è, ovviamente, in questa considerazione alcun rimpianto per il Pci. Il quale, se ha potuto vantare una storia non priva di sacrificio, di impegni e grandi risorse di tensione morale, ha portato anche la non lieve responsabilità di avere imbalsamato la politica italiana privandola di ogni possibilità di alternativa. C'è semmai la delusione di chi, almeno finora, non è riuscito ad intravedere nitidamente la direzione del cambiamento e vorrebbe scongiurare il pericolo che la speranza dell'alternativa si risolva in una finzione. Stiamo ai fatti. Al congresso di Rimini i comunisti erano arrivati per volontà di una maggioranza che, da Occhetto a Napolitano, intendeva sciogliere il Pci e fondare il Pds. Durante il congresso, soprattutto per i disinvolti ed ìmprovvidi comportamenti di Occhetto e dei suoi luogotenenti, quella maggioranza si è persa. Quasi si è rovesciata. Ricomponendosi, in stato di necessità, durante i tempi supplementari alla Fiera di Roma. Alla fine coloro che non volevano il Pds, Ingrao in testa, si sono trovati in minoranza. Come era prima di I 6
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