Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 14 - marzo 1991

_{)_fJ, BIANCO lXII, BOSSO iii•iiliil Prima ancora della deriva ingraiana o trontian-bassoliniana, l'indicatore primo di questa strozzatura cruciale nei caratteri del nuovo partito è costituito dall'opacità della proposta politica e dai toni tutti predicatori della relazione congressuale di Occhetto: proprio in chi è stato l'indiscusso artefice della "svolta" sono infatti più evidenti i limiti intrinseci, quasi "biologici", del nuovo che vorrebbe venire alla luce. Dunque, quale cultura politica? Da dove iniziare a ricostruire la trama che unisce un programma di partito alle speranze dei militanti e al consenso degli elettori? A Rimini l'unico protagonista che sia apparso all'altezza di questi interrogativi è stato, non a caso, Giorgio Napolitano. Non a caso - ed è bene sottolinearlo: perché solo l'area riformista sembra in grado di attingere con coerenza a quel bagaglio di idee-guida, di strumenti analitici e di proposte pratiche che costituisce il retroterra culturale di tutte le varie esperienze socialdemocratiche europee. E non vi sono dubbi che la nettezza con cui questo bagaglio è stato richiamato da Napolitano, la sua indisponibilità ad un nuovo partito comunista sotto mentite spoglie, il netto rifiuto a confondersi nel pasticcio della linea di Occhetto sul Golfo hanno segnato tutto lo svolgersi successivo del congresso. Compreso !"'incidente tecnico" della mancata rielezione del segretario, ancora una volta - non a caso - risoltosi solo quando veniva riconosciuta dalla maggioranza del Pds la centralità politica dell'ala riformista, a dispetto degli esigui consensi (intorno al 15%) che essa riesce a mobilitare alla base del partito. Vale forse la pena ricordare che è da quest'area che sono pervenuti in questi anni tutti gli stimoli analitici ad un rinnovamento dell'analisi della congiuntura politica, sociale ed economica all'interno del Pci: valga per tutti, l'esempio del mensile "Politica ed Economia" e il connesso lavoro della Fondazione Cespe. Ne' va dimenticato che all'indomani di Tienna-men furono Veca e Salvati in un non dimenticato articolo di "Rinascita", intitolato Se non ora quando?, a formulare per primi la proposta di cambiare nome, sostenendo la necessità di ripudiare non solo le esperienze pratiche del comunismo storico ma anche e principalmente l'intero bagaglio teorico da cui quelle esperienze presero origine. Entrambi hanno poi pubblicato per Feltrinelli nel 1990 due volumi nei quali riassumono i loro inter- ••-■-■--- - • 5 Anna: Fototessera (1934) della polizia nazista. venti di questi anni che sono, nei fatti, una sorta di prolegomeni ad una matura definizione di una cultura politica comune alla sinistra italiana. Infine, ancora più di recente, sono stati due dirigenti di primo piano di quest'area come Ranieri e Minopoli a saldare i conti con l'esperienza della destra comunista "storica", dichiarandola oramai superata e inservibile, per richiamarsi senza riserve alla socialdemocrazia tout-court come orizzonte politico della loro azione (in "Micromega", 1/91). In tutto il congresso (e nei suoi paraggi precedenti e successivi) è emersa al contempo la sterilità della proposta politica della sinistra comunista, a cui ha senza dubbio giovato in termini tattici il continuo ricatto di scissione, ma che manca poi di mordente pratico ogni volta che abbandona il terreno dell'identità di partito. D'altro canto, il cosiddetto "centro" di Occhetto appare costituito più che altro da tradizionalissime figure di "imprenditori politici'', le cui valutazioni di merito sono alla fine tutte misurate sulle ricadute politicoorganizzative delle linee politiche intraprese. Anche solo da questa schematica sbozzatura delle forze in campo risulta quantomeno plausibile quella che abbiamo già definito la centralità politica dei riformisti - molto me-

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