Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 14 - marzo 1991

Amsterdam: il "nascondiglio segreto" di Anna. do invece sono con questi intrecciati e congruenti. Voglio dire che i cambiamenti organizzativi, all'insegna di maggiore democrazia, come capacità di dibattito e come creazione di strumenti antiburocratici, non sono un lusso e neanche una meccanica fase (successiva)di un processo di rinnovamento, bensi parte integrante di una autocostruzione del sindacato, di una sperimentazione su se stesso di un nuovo modo di essere, di un nuovo modo di porsi anche come "forma di società" che incarna i tratti di una società migliore... In sostanza: più capacità di analisi e maggiore responsabilità verso il sociale complessivo. 5. (Anticipo la domanda sull'unità sindacale, che trovo formulata in modo piuttosto strano. La sintetizzo) Quali prospettive per l'unità sindacale tra le vecchieConfederazioni? L'unità non può certo essere un generico embrassons nous (troppe volte ci si è provato senza esito) né men che meno uno stanco mettersi insieme per sostenersi reciprocamente nella crisi comune... Credo che si dovrebbe avere il coraggio di affrontare una fase "ricostituente" del sindacato, come strategiae come insieme di interventi orga- {)li. Bl.\~CO (X11.HOSSO 11 t®1 NiJ nizzativi per perseguire la strategia scelta nel sociale. Ma capisco che questo è molto molto difficile anche per il prevalere di logiche di organizzazione: non riesce tanto a rifondarsi neanche la Cgil che almeno ha affrontato il compito; figurarsi mettere insieme tre consolidati organigrammi e tre tradizioni: solo una catastrofe o uno slancio politico oggi inimmaginabile potrebbe tanto. Forse sarebbe già qualcosa cominciare dall'interno a cambiare: a un certo punto potrebbe nascere un "bisogno" di andare oltre ... 6. È comunque finita un'epoca ... quali valori. .. Ho volutamente lasciato per ultima questa domanda più "strategica". Mi sembra che sebbene contenga un giudizio sul passato (è finita un'epoca), in realtà essa guardi al futuro, richiamato nel documento introduttivo (È giunto il momento di ripensare al futuro ... ). L'interrogativo se la "crisi" sia un passaggio provvisorio o epocale è davanti a noi, è la domanda del momento. Anche qui non credo si possa avere la pretesa di sbrigarsi in poche battute, tuttavia cercherò di profilare una linea di approccio. Credo si debba rapidamente abbandonare una visione "naturalistica" del sociale (non trovo termine migliore di questo, mutuato dalla pubblicistica sul post-moderno). Intendo dire la fiducia che vi sia una qualche riserva di politicità, di sanità, di bontà naturale in qualche angolo del sociale, cui basterebbe attingere per ritrovare magicamente i fasti del passato. La "classe operaia" (quella "di una volta", almeno) non c'è proprio più: vi sono lavoratori differenziati in mille modi (anche soggettivi, anche volontari, che sfruttano le occasioni del "sistema"), troppi non-lavoratori (e non solo involontari), troppi immigrati, troppe differenze, troppa complessità ... Che fare dunque? Bisogna credo rinunciare alle illusioni e ricominciare da capo a studiare la realtà, a darci strumenti di analisi, a profilare strumenti inimmaginabili di intervento. Ma due cose, soprattutto, per far fronte ai mutamenti tecnologici e dell'informazione, che cambiano la realtà ad un ritmo più celere del nostro pensiero: - dotarsi di strumenti scientifici, i più raffinati possibili per dominare le trasformazioni, coniugandoli ovviamente con un punto di vista non tecnocratico, produttivistico, bensi orientato alla qualità della vita. Ciò comporta anche una linea di alleanze strategiche con l'"intellighentsia" non totalmente acquisita alle logiche di mercato; - reinventare quotidianamente la democrazia non come dato di fatto, insieme di regole costituite, ma come avventura progressiva, crescita di civiltà (di cui non ce n'è mai abbastanza). Il che vuol dire più dibattito, più negoziato di obiettivi e finalità nell'organizzazione, sperimentazione continua di formule organizzative, di procedure decisionali. L'unico valore, anch'esso non in forma di deposito e tradizione, ma di reinvenzione continua, che mi sembra assolutamente essenzialeper la sopravvivenza del sindacato è naturalmente la solidarietà. Se ne è parlato tanto, che si fa fatica a insistervi: ma nell'ottica detta forse si può ancora usare senzatimore di cadere nella retorica deteriore. Bisognerebbe provare a pensarla non come un valore "esclusivo", ad esempio, ma "inclusivo": fino a dove si allarga responsabilmente una solidarietà non egoisticamente delimitata? Cosi si capirebbe come sia poi arduo gestirla in questa sua nuova e più autentica estensione...

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