Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 14 - marzo 1991

i>JJ. B1.-\~CO ~ltROSSO •h•#hld Dalla ''tutela'' alla logica ''istituente'' e solidale Mantengo la logica dei quesiti, anche se ritengo di doverne modificare in parte l'ordine. Trovo le domande talora un po' contorte, un po' sibilline... 1. Se il sindacalismo non è finito, concordate nell'idea che è proprio il sindacalismo confederale ad attraversare una serie notevole di difficoltà? Lasciamo stare, per ora, la premessa ipotetica. Mi concentrerei sulle difficoltà che, appunto, il sindacalismo confederale attraversa. Che ne abbia, non avrei dubbi, e anche rilevanti: ma il problema lo sposterei su quali difficoltà, sul tentativo cioè di approfondirne la natura. Esse vengono spesso sottovalutate (tutto tornerà presto come prima) oppure foscamente sopravvalutate (è la fine, non c'è più nulla da fare, ecc.). Direi che invece si deve valutare bene il significato di una defezione e di disaffezione strisciante, per ora parziale, ma che potrebbe diventare fatto generalizzato, anche se il sindacato si colloca ormai anche nel nostro paese come una stabile istituzione, di cui non si potrà facilmente fare a meno. Il senso della disaffezione, per riassumerlo in poche parole, a me sembra consistere nella percezione, per quanto confusa, che la "tutela" non basta per un mondo del lavoro ormai mobilizzato, che il sindacato tradizionale non assicura cioè una difesa moderna e progressiva degli interessi variegati e soggettivizzati dei lavoratori. Per questo viene spesso letto e interpretato come una struttura di "mediazione" generica di interessi (alla stregua della organizzazione politiche, coinvolte in una crisi profonda), per questo si tende ad aderire a nuove formazioni (autonomi, - di Ivan Fassin Cobas) in quanto portatori di interessi immediati, settoriali e soggettivi (ma è appunto questo che attira). 2. Quali sono le origini di queste difficoltà? In parte si è già accennato, ma in gran sintesi si potrebbe dire che l'origine consiste forse in una mutata sensibilità, per cui quello che era il principale merito del sindacalismo confederale, diviene ora un demerito e una colpa. Si tratta della strutturale funzione del sindacalismo confederale di contemperare interessi categoriali diversi in una logica di "compatibilità" complessiva. C'entra sicuramente anche il fatto che questa funzione il sindacato non l'ha svolta abbastanza bene, soprattutto negli ultimi tempi, e soprattutto non al livello di qualità che sarebbe necessario nei nuovi tempi. La "nuova" sintesi delle molteplici spinte particolaristiche propria di una società complessificata e articolatissima comporterebbe infatti una capacità teorica e pratica di conciliazione e contemperamento enormemente superiore all'attuale ... 3. Quali sono gli argomenti con i quali pensate sia possibile dimostrare la "superiorità" del sindacalismo confederale? La domanda induce un vero e proprio salto logico. Siccome indirettamente si è già in parte risposto poco sopra, sposterei anche qui la questione su un'altra dimensione: quali sono le basi su cui impostare un rilancio del sindacalismo confederale, la cui funzione di "sintesi" degli interessi non può evidentemente essere svolta da altri, ecc.? lo credo che sarebbe possibile forse un rilancio, ove si assumesse una logica riformistica molto alta, una logica "isti- -U tuente'' che faccia grande attenzione agli apparati e alle strutture pubbliche nel nostro paese. Non ho mai capito come mai il sindacato confederale, pur inquadrando lavoratori dipendenti dello Stato e di altri pubblici uffici, così poca attenzione abbia prestato alla riforma di queste strutture, ovviamente non solo a parole, ma nei fatti. Peraltro l'individuazione di reali e durevoli interessi collettivi dovrebbe essere resa molto evidente a tutti i lavoratori, onde acquisire un recupero di consensi effettivo. Questo, in sostanza, mi sembra il senso attuale della "confederalità''. 4. Quali sono i cambiamenti (organizzativi, culturali, rivendicativi, "politici") necessari ad un rilancio del sindacalismo confederale? Il discorso potrebbe, ovviamente, farsi assai lungo. Dal mio punto di vista si tratta certamente non di qualche ritocco, ma di una profonda riconversione anzitutto appunto culturale e poi tutto il resto. Che occorra un cambiamento culturale, rompendo con la nostalgia di quando il sindacato era forte o con ulteriori smanie di onnipotenza (chi le conservasse!) o, ancora, con la rincorsa della cultura d'impresa, come per recuperare un tempo perduto, mi sembra evidente. Ma che cosa voglia dire dotarsi di una cultura non autarchica, ma insieme moderna, scientifica e padroneggiata, socialmente orientata anche attraverso il dibattito democratico, e così via, credo nessuno lo sappia prima di averci almeno provato. Lasciando poi gli ovvi cambiamenti strategici e politici, vorrei dire due parole sui cambiamenti organizzativi, sovente intesi come una mera conseguenza dei cambiamenti di obiettivi politici, quan-

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