Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 14 - marzo 1991

.{)!I, BI \~(:O l.XII.HOSSO iiiiiiliil 5,9). Alla nascita di Gesù, "apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama" (Luca, 2,13-14). In Cristo dunque si realizzano insieme la riconciliazione tra Dio e uomo e quella degli uomini tra loro, il peccato è vinto e la pace può trionfare. Ma ciò che è mistericamente già realizzato in Cristo potrà avverarsi in pienezza solo nel Regno di Dio: nel momento estremo della sua vita, dinanzi a Pilato che lo interroga, Gesù afferma solennemente: "Il mio regno non è di questo mondo" (Giov. 18,36). È questa "differenza" tra la storia e il Regno, che pure sono tra loro solidali, che spiega l'affermazione politica per eccellenza di Gesù Cristo: "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Marco 12,17), ovvero non confondete l'annuncio della salvezza con un progetto politico o, di converso, rispettate l'autonomia della politica, purché essa non pretenda di farsi adorare. Applicato alla questione cruciale della pace, ciò significa che essa, pur essendo dono di Dio attraverso il sacrificio di Cristo, non è di questo mondo, ma sarà realizzata compiutamente solo nel Regno. Non per questo il discepolo di Cristo può sottrarsi al dovere di costruire la pace: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Matteo 5,9). Ma cosa vuol dire, in concreto, essere "operatori di pace''? Per la Chiesa ha sempre voluto dire due cose: annunciare il Vangelo e quindi provocare la conversione dei cuori, su un piano; sostenere la ricerca dell'uomo di canali giuridici e politici che evitino l'esplosione incontrollata della violenza, su un altro. Insomma due vie, una all'insegna della speranza, l'altra improntata a grande realismo. Due vie distinte, eppure non contraddittorie, in quanto derivanti da un'unica concezione del destino dell'uomo. "Et-et" e non "Aut-aut", avrebbe detto Lazzati: l'ortodossia cattolica ha sempre tenuto ferma la complessità della rivelazione; scegliere una sola delle due vie sarebbe, su questo come su molteplici altri temi, scegliere la via dell'eresia, come spesso è accaduto nel corso dei secoli. È per questo che il papa ha potuto dire di recente che il cristiano, "operatore di pace" non è un "pacifista"; il cristiano sa infatti che, nella storia, non può darsi pace perfetta e che le speranze di avvicinarsi alla pace già in que- = 12 sto mondo sono riposte nel diritto, ossia in regole di giustizia. Il Concilio Vaticano II, al n. 79 della Costituzione "Gaudium et spes", afferma: "La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantochè esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma altra cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. Né la potenza bellica rende legittimo ogni suo uso militare e politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto". Questo brano del Concilio spiega i motivi della distanza tra il punto di vista della Chiesa e quello del pacifismo fondamentalista: quest'ultimo è incapace di distinguere tra violenza e uso legittimo della forza e dunque obbligato a stabilire una distanza incolmabile tra principi ·morali e scelte politiche. L'errore che questo tipo di pacifismo commette è quello di non comprendere l'importanza del diritto, come unico punto d'incontro, possibile e necessario, tra etica e politica. E immaginare che possa esserci pace senza diritto è colpevole illusione, così come è colpevole illusione pensare che possa esistere diritto, anche diritto internazionale, che non preveda sanzioni contro chi si renda responsabile di violazioni, cioè che non preveda la possibilità di un ricorso regolato e proporzionato alla forza, per isolare e punire i comportamenti difformi alle regole stabilite dal diritto stesso. Se tutto ciò è vero, ne consegue che l'atto di aggressione, aggravato da barbare atrocità, consumato da Saddam Hussein ai danni del Kuwait, in patente violazione delle più elementari regole del diritto internazionale, non può non provocare una legittima, regolata e proporzionata sanzione da parte della comunità mondiale. Né vale invocare, contro questa verità, l'iniquità dei rapporti tra il Nord ed il Sud del mondo, la mancanza di vera democrazia in Kuwait, la questione palestinese o

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