L. 6.000 BIA mt·m,ilt• di dihattito politieo Spedizione in abbonamento postale - Gr.111/70% Anno II sommario marzo l(J(J] 1 3 4 6 8 11 14 17 23 EDITORIALE: Pensare alla pace, di P. Camiti ATTUALITÀ: Pds: il "nuovo" che deve crescere, di E. Mattina Pds: una possibilità al "brutto anatroccolo"?, di P. Feltrin I dilemmi del Pds, (P.C.) La Guerra del Golfo. L'intellettualee la guerra. Intervista a Edgar Morin, di G. Gennari Pace "a qualunque costo"? L'etica e la guerra, di G. Tonini Giovani e leva militare, di N. Sgaramella Il Dossier segreto. / fornitori stranieri di Saddam Husssein L'Islàm e noi. Islàm e Cristianesimo: dall'intolleranza al dialogo, di G. Gennari 28 Islàm: fede e morale, (G.G.) DOSSIER: Futuro del sindacato e futuro delle Confederazioni (II parte), Interventi di G. Benvenuto, G. Bianchi, A. Carli, E. Chioffi, S. D'Antoni, O. Del Turco, G. Epifani, I. Fassin, G. Fornari, L. Gnecchi, L. Lama, G. Liverani, P. Morelli, C. Passalacqua, G. Perego, M. Polverari, A. Restelli, G. Surrenti, A. Teutsch, F. Vigevani, L. Viviani, L.S. L'EUROPAE IL MONDO: Se i paesi baltici si "balcanizzano", di B. Amoroso Le armi e il dopoguerra, di M. Sepi DOCUMENTO: Esperienze della vita di fabbrica, di S. Weil VITADELL'ASSOCIAZIONE: ReS: identità e opere ReS sulla guerra nel Golf o ReS sulla situazione dei Paesi baltici Unafede, più politiche. Un fatto o un programma? di L. Pedrazzi Per l'alternativa: emergenza ecologica, di G. Mattioli IMMAGINI: n mondo di Anna Frank (1929-1945) 33 67 68 70 75 76 77 78 80 Pensare alla pace di Pierre Camiti L a guerra del Golfo è stata accompagnata, in Italia come altrove, da una battaglia parallela: quella tra pacifisti e realisti, per usare due termini approssimativi ma non del tutto inesatti. Tutti gli argomenti intorno alla "guerra giusta" o "ingiusta" sono stati esauriti da una parte e dall'altra. Per quanto ci riguarda restiamo convinti che nessuna guerra, con il suo carico di vittime innocenti, può mai essere "giusta". Può essere inevitabile, può essere una doverosa necessità, come in questo caso, per tagliare la corda (dissennatamente
~.U, BIANCO lXILROSSO •IU1111Aiiil fornita anche da noi) che Saddam Hussein ha stretto al collo del Kuwait e di altri Stati della Regione. Ma la guerra è sempre orribile. Questa lo è ancora più rispetto agli altri conflitti regionali che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni perché potrebbe trasformarsi nel possibile preludio di un catastrofico conflitto tra mondo occidentale e mondo mussulmano. Se una simile eventualità dovesse verificarsi sarebbe un disastro. Si tratterebbe, infatti, di un conflitto nel quale si lotterebbe solo per sopravvivere, secondo la logica del sopraffare per non essere sopraffatti. In una guerra con quasi un miliardo di giovani mussulmani in gran parte affamati ed appena usciti dalla lunga umiliazione del colonialismo, tutti combatterebbero solo per non morire. Il che è legittimo, ma accresce anche l'angoscia. Nessuno si potrebbe illudere di battersi per l'umanità e l'universalità come pensava chi ha combattutto per difendere la libertà o per instaurare la giustizia sociale. Anche se questo pericolo appare fortunatamente remoto, la guerra del Golfo angoscia pure chi ha ritenuto e ritiene di non potersi tirare indietro. Si deve perciò tentare di realizzare lo scopo della guerra, che è la liberazione del Kuwait, limitando al massimo i danni, non solo alla propria parte, ma anche ai valori per i quali si combatte: un più giusto ordine internazionale, principi di umanità e di democrazia, rispetto per la vita. Se questi valori risultassero calpestati saremmo di fronte al prevalere dei mezzi sui fini ed i fini ne risulterebbero fatalmente offuscati e sfigurati. Per scongiurare questi rischi va mantenuto vivo l'impegno verso ogni possibilità che consenta di uscire dalla guerra al più presto, non solo cercando di combatterla nel modo più efficace, ma soprattutto cogliendo ed incoraggiando tutti gli spiragli di una possibile soluzione diplomatica che possano portare al cessate il fuoco in vista della attuazione delle risoluzioni dell'Onu. Ciò che serve ora non è quindi una rinuncia unilaterale alla guerra, che non sarebbe altro che un cedimento alla sopraffazione, ma impegnarsi perché la comunità internazionale mostri eguale forza ed autorità per la costruzione della pace. Una pace che deve portare alla liberazione del Kuwait, ma anche alla soluzione delle altre crisi della Regione, a incominciare dalla questione palestinese. Una pace che deve assicurare l'indipendenza dei popoli della regione ed il loro diritto alla giustizia ed alla democrazia. Contro i despoti in divisa, ma anche contro le •. 2 ----- --- - - - - -- concezioni feudali dei sovrani e degli sceicchi del petrolio. Una pace, inoltre, che deve neutralizzare Saddam Hussein, ma non umiliare gli arabi. Le idee sulle quali costruire la pace devono, quindi, nascere nella regione per mettere radici. Una pace, infine, che dia forza ed autorità all'Onu. Per presidiare la pace mondiale dobbiamo riuscire ad attivare strumenti giuridici alternativi alla guerra. Nel quadro dell'Onu si dovrebbe perciò prevedere un trattato, sottoscritto da tutti gli Stati, che obblighi ad accettare una giurisdizione universale per la soluzione dei conflitti, a cominciare da quelli territoriali. Un trattato che di fronte a possibili violazioni affermi il principio della sanzione internazionale come è (sorprendentemente, ma anche del tutto occasionalmente) avvenuto nel caso del Kuwait. Non si tratta di immaginare, in modo utopico, un mondo senza armi che non è mai esistito e, forse, non esisterà mai. Ma bisogna almeno creare le condizioni perché le armi possano diventare, in un quadro internazionale credibile, il deterrente per garantire, nel futuro, il rispetto dei diritti reciproci dei popoli e degli Stati. Per assicurarsi questo ruolo e questa autorevolezza l'Onu ha, però, a sua volta bisogno di profonde revisioni. Dovrebbe, innanzi tutto, eliminare dai propri Statuti le differenze tra i paesi vincitori della seconda guerra mondiale che attualmente siedono in permanenza nel Consiglio di sicurezza ed hanno il diritto di veto e tutti gli altri. Ora che il bipolarismo UsaUrss è finito appare sempre più chiaro che proprio la sopravvivenza di questa diversità potrebbe addirittura accrescere la diffidenza che molti paesi, soprattutto i più poveri, mantengono nei confronti dell'organizzazione internazionale. Se i pacifisti ed i realisti incominciassero seriamente a porre mano a questi problemi potrebbero davvero dare un contributo, non retorico, alla costruzione di un ordine internazionale pacifico.
.P.t.l. BIANCO \Xli.ROSSO Ui•ii••ii Pds: il "nuovo" che deve crescere di Enzo Mattina N on è politicamente conveniente e non è storicamente corretto liquidare, come da più parti si è fatto, il primo congresso del Pds come episodio di modesta portata, poco influente sul destino del nostro paese. Per questa via si condanna l'Italia all'egemonia permanente della Dc e si nega alla sinistra finanche la prospettiva di una alternativa di governo. Per altro verso, non si coglie il dato della chiusura di un lungo capitolo di storia da parte di un grande partito di massa che ha avuto una influenza non secondaria, nel bene e nel male, nello sviluppo della vita democratica nazionale. Se giudichiamo con serenità dobbiamo convenire che a Rimini si è consumata una svolta, a partire dalla quale dovranno certo lavorare sodo gli ex comunisti per costruire il loro punto di approdo. Nondimeno, dovranno assumerla a riferimento le altre forze politiche, specie quelle di sinistra, se vogliono aprirsi a nuove alleanze e a nuovi programmi d'azione. Il Pds in buona sostanza, ha compiuto la scelta del ritorno nell'area del socialismo riformista; l'ha compiuta, però, per negazione del suo passato e non per precisa messa a punto del suo futuro. In ciò sta l'insufficienza più che l'ambiguità del congresso di Rimini. D'altro canto, è indubbio il fallimento dell'ipotesi che forse velleitariamente Achille Occhetto aveva coltivato di far coincidere la rifondazione del Pci con la rifondazione della sinistra e nientemeno della politica italiana. Dire che ciò è accaduto come conseguenza dell'effetto catalizzatore della guerra del Golfo sembra semplicistico e giustificativo. Nella realtà, sembra più verosimile che il gruppo dirigente che ha guidato la svolta non abbia avuto il coraggio di lanciarsi nella navigazione in mare aperto e, preoccupato di non perdere i : - - 3 contatti con i riferimenti costieri, abbia optato più o meno consapevolmente di non allontanarsene troppo. Con ciò la svolta rimane con i suoi eventi emblematici (la scissione di Cossutta, la costituzione dalle correnti, l'incidente della elezione travagliata del segretario, etc.) e con le sue ombre (la più spessa di tutte quella della mancata definizione del rapporto con il Psi). Al punto in cui sono giunte le cose, se è importante seguire e capire le mosse del gruppo dirigente dei "democratici della sinistra", non è meno rilevante seguire e capire le mosse delle altre formazioni progressiste nazionali. Non servono più gli esami al Pds; quel che serve è che, partendo da dove esso ha fallito, vale a dire dal proposito di rifondazione della sinistra per giustificare il fallimento di una parte della sua storia, si attivi uno sforzo corale che coinvolge l'insieme delle forze progressiste per individuare il che e il come della sinistra alle soglie del terzo millennio. I valori, i metodi del "socialismo liberale" sono il riferimento obbligato per il suggello vincente che hanno avuto dalla storia. Di ciò gli ex comunisti debbono prendere coscienza se non vogliono correre il rischio di avventurarsi nella ricerca di improbabili terze vie. È doveroso contemporaneamente riconoscere che chi si è ispirato al patrimonio turatiano prima e rosselliano dopo non è certo riuscito a tradurlo fino in fondo in pratica politica. La sfida non è, quindi, quella di reinventare il "socialismo democratico e liberale", ma di tradurlo in azione politica, quale che sia la collocazione al governo e all'opposizione delle forze che vi si ispirano. Settanta anni di comunismo, con le chiusure ideologiche ad esso intrinseche, hanno per un verso congelato importanti energie politiche e per un altro indebolito l'impatto innovatore
i.)JJ, BIANCO lXll,ROS.SO iii•iil•h delle forze riformiste, consentendo al conservatorismo democristiano di essere il centro motore della vita politica nazionale. Sembra giunto il momento di voltar pagina. Certo dal congresso del Pds ci attendevamo di più; qualcosa è, comunque, accaduto, che non consente ritorni indietro. Ci sono quanto meno nuove potenzialità su cui riaprire un confronto nella sinistra e avviare un ciclo nuovo del suo protagonismo nella vita politica italiana per affrontare antichi e nuovi problemi, da quello del compimento dello stato democratico a quelli dell'eguaglianza delle opportunità, della distribuzione della ricchezza, delle disparità dei diritti, della certezza delle regole di convivenza civile e politica, del contributo alla conquista della pace. Pds: una possibilità al ''brutto anatroccolo''? di Paolo Feltrin Sull'ultimo congresso comunista, una volta tanto, si può anche cercare di non essere troppo ingenerosi, provando a far valere le ragioni di un moderatis~imo ottimismo su quelle di un pur legittimo pessimismo. Come? Attraverso una lettura degli avvenimenti più recenti che dia un po' di credito alla favola del "brutto anatroccolo". I commenti prevalenti dopo Rimini sono noti e facili da riassumere: dibattito scontato e deludente; totale assenza del respiro programmatico indispensabile ad un partito di opposizione con aspirazioni di governo; dominio della tattica correntizia governata dall'apparato; reticenze e ambiguità nella definizione dei tratti costituenti della nuova formazione; uso spettacolare per certi versi ancora peggio di quello togliattiano, degli intellettuali "esterni" come fiori all'occhiello. E questo solo per limitarci ai punti più citati, lasciando invece una menzione e un rilievo speciale alla posizione sulla guerra nel Golfo che ha fatto rinverdire tutte le riserve sul mai abbastanza vituperato ''strumentalismo'' protestatario del vecchio Pci, nel quale ogni occasione era buona pur di fare propaganda (elettorale) a buon mercato. .. 4 -- - --- - - - - --- Che dire di queste osservazioni a caldo? Tutto vero, ovviamente. Ma c'è forse qualcos'altro, meno appariscente e scontato, che si può intravedere analizzando con più attenzione tre fatti che hanno caratterizzato il congresso di Rimini: il ruolo dell'ala riformista; la scissione a sinistra; i tempi e gli attori della ridefinizione dell'identità del nuovo partito. Si escluderanno invece da questa analisi altri tre fattori (pena la messa definitivamente in forse dello scenario ottimista) a cui, tuttavia, faremo un breve richiamo in sede di valutazioni conclusive: l'identità dei militanti, il ruolo dell'apparato diviso in correnti, le scelte degli altri partiti. Non c'è dubbio che in dodici mesi non si costruisce una nuova cultura politica ma ciò che più impressiona nello svolgimento e nella cristallizzazione del dibattito interno al Pci tra la fine del 1989e il congresso di Rimini è stata la completa messa a nudo dell'irrilevanza pratica di tutti i principali concetti guida della cultura politica maggioritaria nel Pci degli stessi anni '80. La cosa - come vedremo - ha effetti di non facile previsione visto lo strettissimo legame che unisce la cultura politica di un partito all'identità dei suoi militanti.
_{)_fJ, BIANCO lXII, BOSSO iii•iiliil Prima ancora della deriva ingraiana o trontian-bassoliniana, l'indicatore primo di questa strozzatura cruciale nei caratteri del nuovo partito è costituito dall'opacità della proposta politica e dai toni tutti predicatori della relazione congressuale di Occhetto: proprio in chi è stato l'indiscusso artefice della "svolta" sono infatti più evidenti i limiti intrinseci, quasi "biologici", del nuovo che vorrebbe venire alla luce. Dunque, quale cultura politica? Da dove iniziare a ricostruire la trama che unisce un programma di partito alle speranze dei militanti e al consenso degli elettori? A Rimini l'unico protagonista che sia apparso all'altezza di questi interrogativi è stato, non a caso, Giorgio Napolitano. Non a caso - ed è bene sottolinearlo: perché solo l'area riformista sembra in grado di attingere con coerenza a quel bagaglio di idee-guida, di strumenti analitici e di proposte pratiche che costituisce il retroterra culturale di tutte le varie esperienze socialdemocratiche europee. E non vi sono dubbi che la nettezza con cui questo bagaglio è stato richiamato da Napolitano, la sua indisponibilità ad un nuovo partito comunista sotto mentite spoglie, il netto rifiuto a confondersi nel pasticcio della linea di Occhetto sul Golfo hanno segnato tutto lo svolgersi successivo del congresso. Compreso !"'incidente tecnico" della mancata rielezione del segretario, ancora una volta - non a caso - risoltosi solo quando veniva riconosciuta dalla maggioranza del Pds la centralità politica dell'ala riformista, a dispetto degli esigui consensi (intorno al 15%) che essa riesce a mobilitare alla base del partito. Vale forse la pena ricordare che è da quest'area che sono pervenuti in questi anni tutti gli stimoli analitici ad un rinnovamento dell'analisi della congiuntura politica, sociale ed economica all'interno del Pci: valga per tutti, l'esempio del mensile "Politica ed Economia" e il connesso lavoro della Fondazione Cespe. Ne' va dimenticato che all'indomani di Tienna-men furono Veca e Salvati in un non dimenticato articolo di "Rinascita", intitolato Se non ora quando?, a formulare per primi la proposta di cambiare nome, sostenendo la necessità di ripudiare non solo le esperienze pratiche del comunismo storico ma anche e principalmente l'intero bagaglio teorico da cui quelle esperienze presero origine. Entrambi hanno poi pubblicato per Feltrinelli nel 1990 due volumi nei quali riassumono i loro inter- ••-■-■--- - • 5 Anna: Fototessera (1934) della polizia nazista. venti di questi anni che sono, nei fatti, una sorta di prolegomeni ad una matura definizione di una cultura politica comune alla sinistra italiana. Infine, ancora più di recente, sono stati due dirigenti di primo piano di quest'area come Ranieri e Minopoli a saldare i conti con l'esperienza della destra comunista "storica", dichiarandola oramai superata e inservibile, per richiamarsi senza riserve alla socialdemocrazia tout-court come orizzonte politico della loro azione (in "Micromega", 1/91). In tutto il congresso (e nei suoi paraggi precedenti e successivi) è emersa al contempo la sterilità della proposta politica della sinistra comunista, a cui ha senza dubbio giovato in termini tattici il continuo ricatto di scissione, ma che manca poi di mordente pratico ogni volta che abbandona il terreno dell'identità di partito. D'altro canto, il cosiddetto "centro" di Occhetto appare costituito più che altro da tradizionalissime figure di "imprenditori politici'', le cui valutazioni di merito sono alla fine tutte misurate sulle ricadute politicoorganizzative delle linee politiche intraprese. Anche solo da questa schematica sbozzatura delle forze in campo risulta quantomeno plausibile quella che abbiamo già definito la centralità politica dei riformisti - molto me-
F== -"!I .Ili AN(:() lXII.HOSSO lii•iil•il no, a onor del vero, la loro effettiva capacità di interpretare questo ruolo. La miniscissione di Cossutta e Garavini appare sotto questo profilo provvidenziale perché obbliga il Pds a marcare con decisione in tutto il prossimo futuro, specie se costellato da occasioni elettorali (a cominciare dalle amministrative parziali e dalle regionali in Sicilia di primavera), i propri confini a sinistra e a riprecisare di continuo le ragioni di fondo dell'abbandono dell'orizzonte comunista: ma non potendo valorizzare il "turiamoci il naso, ma rimaniamo nel nuovo partito" di Ingrao, la ridefinizione pratica dell'identità del nuovo partito non può - di nuovo - che fare propri motivi e temi dell'area riformista. La vicenda Bassolino è sotto questo profilo esemplare dei vicoli ciechi in cui si ritrova qualsiasi posizione di mediazione recuperante la tradizione comunista. Infine, da ultimo, lungo questa strada, prima o poi, non si può che incontrare la questione strategica del ''programma della sinistra'', dei rapporti tra vecchi e nuovi partiti del sistema politico italiano. Qui si chiude il wishful thinking del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno. Il prezzo che si paga all'esperimento di una diagnosi cautamente ottimista è il probabile irrealismo dello scenario proposto, specie perché esso programmaticamente sottovaluta - come si è detto - tre fattori cruciali: le resistenze al mutamento delle identità politiche tra i militanti di base del partito; la competizione centrifuga tra correnti fortemente ideologizzate che rischia di congelare l'apparato e il gruppo dirigente ex comunista sulle tradizionali posizioni propagandistico-agitatorie; la convenienza in questa fase per le altre forze politiche ad erodere un segmento di elettorato appetibilissimo più che a legittimare un interlocutore ancora troppo forte. In ogni caso, che si avveri lo scenario ottimista o quello pessimista, il Pds dovrebbe mettere nel conto una probabile ulteriore emorragia elettorale: la differenza sta solo - si fa per dire - se la conteggerà fin d'ora come il prezzo inevitabile di una strategia di più ampio respiro sul medio-lungo periodo, oppure la subirà sotto il peso di una mancata chiarezza sugli esiti non eludibili del percorso intrapreso. I dilemmi del Pds L a nascita del Pds costituisce una indiscutibile novità. Se non ci fosse altro (che invece c'è, a partire dal riconoscimento del fallimento dell'ideologia comunista, dalla fine del centralismo e dalla nascita di litigiose correnti interne) bisogna almeno riconoscere che lo scivolone di Occhetto nel vecchio Pci non sarebbe stato neanche immaginabile. Ma una "cosa" nuova non comporta, per sua natura, anche la soluzione adeguata dei problemi che l'avevano originata e delle speranze che l'avevano accompagnata. Non c'è, ovviamente, in questa considerazione alcun rimpianto per il Pci. Il quale, se ha potuto vantare una storia non priva di sacrificio, di impegni e grandi risorse di tensione morale, ha portato anche la non lieve responsabilità di avere imbalsamato la politica italiana privandola di ogni possibilità di alternativa. C'è semmai la delusione di chi, almeno finora, non è riuscito ad intravedere nitidamente la direzione del cambiamento e vorrebbe scongiurare il pericolo che la speranza dell'alternativa si risolva in una finzione. Stiamo ai fatti. Al congresso di Rimini i comunisti erano arrivati per volontà di una maggioranza che, da Occhetto a Napolitano, intendeva sciogliere il Pci e fondare il Pds. Durante il congresso, soprattutto per i disinvolti ed ìmprovvidi comportamenti di Occhetto e dei suoi luogotenenti, quella maggioranza si è persa. Quasi si è rovesciata. Ricomponendosi, in stato di necessità, durante i tempi supplementari alla Fiera di Roma. Alla fine coloro che non volevano il Pds, Ingrao in testa, si sono trovati in minoranza. Come era prima di I 6
i)JI. BIAM:() lXn.nosso iii•ii••il Rimini. Tutto a posto allora? Neanche per sogno. Intanto perché è arduo ritenere che dalle ceneri del Pci sia nato un Pds riformista. Non solo perché c'è un terzo del partito per il quale il problema della proposta politica si risolve in suggestioni movimentiste, ma perché nel partito permane una volontà di "antagonismo" nei confronti del sistema politico e sociale ben più diffusa della pattuglia di Bassolino. C'è inoltre "diffidenza" verso le socialdemocrazie europee; soprattutto per quelle che hanno responsabilità di governo. Largamente compatta, infine, la conflittualità verso i socialisti. Nel congresso non c'è stato accordo su nulla, o quasi nulla, solo la polemica antisocialista è riuscita ad unificare largamente la platea. Napolitano ed i suoi non sono in minoranza solo quando si parla del Golfo e quando si oppongono all'incredibile (ed anche un po' risibile) richiesta del ritiro delle nostre quattro barche, ma sono in minoranza anche quando chiedono un rapporto più costruttivo con i socialisti e quando si tratta di dar corpo al riformismo. Dovendosi decidere tra una maggioranza riformista od una movimentista, Occhetto ed i suoi si erano illusi a Rimini di poter dar vita ad un centro del partito politicamente ondivago, seppure numericamente autosufficiente. Ma proprio su questo tentativo Occhetto e D' Alema hanno inciampato. Lo scivolone della mancata elezione del segretario è stato tutto meno che un incidente tecnico. Tanto è vero che se alla Fiera di Roma Occhetto ha voluto essere eletto, sia lui che D' Alema, hanno dovuto fare l'autocritica per le incaute manovre riminesi. L'idea di un "centro autosufficiente" è quindi fallita. Occhetto ed il centro, se non vogliono seguire una rotta inconcludente, devono dunque scegliere. Se si alleano con Ingrao fanno allontare il Pds dall'obiettivo della partecipazione a pieno titolo al gioco politico italiano con credibili possibilità di costruire una alternativa di governo. L'alleanza con Napolitano ottiene l'effetto contrario. Questo è il primo dato di fatto per il Pds. Piaccia o non piaccia, ad Occhetto serve un accredito riformista che soltanto Napolitano gli può dare nel partito e soltanto il Psi gli può fornire nella politica italiana e verso l'Internazionale Socialista. Se invece pensasse di barcamenarsi tra Napolitano ed Ingrao all'interno, tra il Psi e la Dc all'esterno, l'esito non potrebbe essere che assai deludente. Insomma se Occhetto non sceglie può pensare di avere qualche problema in meno all'interno del partito e sul piano elettorale, ma rischia sicuramente di non fare nessuna politica e di dover amministrare un inesorabile declino. Senza chiare scelte ed un disegno politico convincente l'influenza del Pds sulla politica italiana sarebbe, infatti, assai scarsa. Né varrebbe a riscattarla la tentazione di fare un po' di piccolo cabotaggio, come ha lasciato intendere D' Alema a Rimini, nella competizione tra Psi e Dc. In questo caso la politica italiana si avviterebbe ancora di più. Avremmo infatti maggioranze intercambiali, senza avere schieramenti alternativi. Altro che unità della sinistra. L'unica a potersi rallegrare sarebbe la Dc che potrebbe contare sulla possibilità di "servirsi di due forni" sentendosi, così, sollevata dalla scomoda necessità di fare i conti con i propri problemi. Il guaio vero è che a Rimini, per il guazzabuglio dei rapporti interni e per l'inconsistenza della proposta politica (ben al di là della questione del Golfo) è nata una "cosa" che, almeno per ora, non sembra né una forza di governo che possa rendere credibile una alternativa riformista, né una forza di opposizione. Si può, naturalmente, osservare che nemmeno il vecchio Pci, per la lunga abitudine alla prassi consociativa, non era più da decenni un partito di opposizione, anche se, da un periodo ancora più lungo, non era nemmeno un partito di governo. Ma era proprio per uscire da questo limbo, oltre che per trarre le doverose conseguenze dal crollo del comunismo nei paesi dell'Est, che alla fine del 1989 la maggioranza dei dirigenti comunisti aveva condiviso la proposta di Occhetto di chiudere con il Pci, cioè con l'ideologia e la concezione politica comunista per dare vita ad un nuovo partito. Anche per la difficoltà di realizzazione dell'impresa, tutto autorizzava a sperare che il nuovo partito si proponesse di incarnare quelle virtù della politica (a incominciare da quella della chiarezza) che altri, per avventura, avessero perduto. Lo stesso Occhetto deve essersi reso conto che ciò che era avvenuto a Rimini non corrispondeva a questa speranza. Le sue prime mosse, a incominciare dalla presa di posizione comune con il Psi sui problemi della guerra del Golfo fanno pensare, infatti, alla volontà di chiudere al più presto la parentesi di Rimini e tentare di togliere rapidamente il Pds dall'isolamento.
i)!), BIANCO lXll,llOSSO iii•lil•P L'augurio, naturalmente, è che questo avvenga e che nel Pds la politica possa prendere il sopravvento sulla retorica, sulle prediche, sui comizi. L'augurio è che si possa finalmente aprire la strada, anche in Italia, ad una alternativa riformista. (P.C.) L'intellettuale e la guerra di Giovanni Gennari E dgar Morin è uno dei più noti intellettuali del mondo. Sociologo, epistemologo, antropologo. Si può dire che ha passato la sua vita a studiare i comportamenti umani, con la lucidità e insieme con lapassione che le sue parole esprimono sempre. Non è mai stato "uno del coro", i suoi libri, e la sua vita intera, dicono la sua originalità e l'anticonformismo delle sue analisi. Studente, professore, militante della resistenza antinazista, comunista, espulso dal partito nel 1951 come eterodosso, nel 1957 ha fondato la rivista "Arguments", e nel 1961 l'altra, "Communications ", che sono state due punti di riferimento centrali per la cultura progressista francese ed europea. È autore di una quasi sterminata serie di opere, alcune delle quali segnaliamo in nota (*). È diventato il teorico della complessità del reale, e in particolare dell'uomo. Secondo lui compito della scienza, e in particolare delle scienze dell'uomo, è più formulare interrogativi e esprimere analisi che dare risposte e abbozzare sintesi. La modernità, ha scritto, è venuta nel momento in cui "il problema della totalità si è trasformato in quello della complessità", e "il problema della dialettica, tipico anche del marxismo rigido che ha fatto tanti danni, in quello della dialogica". "Il Bianco e il Rosso" /o ha intervistato sul problema della guerra nel Golfo. In un momento in cui gli intellettuali, e in particolare quelli italiani, si sono divisi rigidamente in due schiere semplicistiche, pro o contro - o hanno taciuto, come per non compromettersi -, la sua voce risuona, come sempre, originale e rispettosa della complessità delle cose. Professor Morin, qual'è oggi il compito degli intellettuali, di fronte a questa guerra? "In questo momento c'è un grande bisogno di capire. E occorre concentrare l'attenzione sull'uomo, sugli uomini. A fare la guerra non sono solo le armi, ma anche la barbarie delle idee, le idee chiuse, che non accettano per principio gli argomenti di chi non la pensa come loro. Occorre capire, perché è vero che una grande quantità di informazioni ha accompagnato lo sviluppo degli eventi bellici, ma non si riesce a comprendere il senso complessivo, il senso vero di quanto sta accadendo. Non sappiamo quante vittime, realmente, siano già state fatte, non sappiamo dove e come siano avvenuti, con precisione, i bombardamenti e gli attacchi. Ci potremmo trovare d'improvviso di fronte a sconvolgenti rivelazioni di centinaia di migliaia di vittime, per la stragrande mag-
~-t-1,BIANCO \Xll,BOSSO iiikliliii La famiglia dei nonni (1900 ca.) gioranza innocenti, o colpevoli solo del fatto di essere iracheni, e di abitare nelle città oggetto dei bombardamenti. Siamo sommersi di immagini, ma non sappiamo collocarle in un contesto credibile e completo. Le illusioni di una guerra "chirurgica", rapida, da cui risvegliarsi dopo una breve "anestesia", sono svanite presto. Sentiamo ripetere, e probabilmente è vero, che l'esito è scontato, ma occorre ricordare che l'esercito iracheno si è preparato a questa guerra con anni di pratica contro l'Iran. È anche vero, però, che proprio per questo è un esercito stanco, e che l'economia del paese è prostrata, soprattutto dopo le decine di migliaia di raids aerei delle prime due settimane di guerra. E insieme va tenuto presente che le forze degli alleati combattono a decine di migliaia di chilometri da casa, e che gli ambienti in cui operano non sono loro familiari... Si parla di attacco terrestre che risolva tutto, ma le certezze operative sono ben poche ... Un intellettuale deve cercare di capire, e allora deve analizzare, non deve essere semplificativo, non deve, se vuole restare tale, operare scelte ideologiche, e affrettate ... ''. Capire dunque. Va bene. E capire perché questa guerra è cominciata. Anche questo? "Certo. Ma anche qui non è facile. A dir la verità si era iniziato bene, subito dopo l'invasione del Kuwait, con quella grande coalizione, all'Onu, dei paesi favorevoli all'embargo. Nessuno, allora, aveva motivo di pensare che da una parte ci fossero i paesi ricchi dell'occidente, e del Nord del mondo, e dall'altra i paesi del sottosviluppo. E invece dalla fine di novembre le cose hanno preso una piega diversa, e catastrofica, nel senso che non poteva che portare alla guerra. Abbandonata la strada dell'embargo, e con la direzione delle cose che in realtà non è stata più dell'Onu, si è puntato tutto sull'ultimatum. Questo ha semplificato ingiustamente tutta la realtà, perché si è focalizzata tutta l'attenzione sul destino del Kuwait, e si sono dimenticati, di fatto, tutti gli altri problemi del Medio Oriente. E l'Onu non ha voluto, o potuto, fare abbastanza da costringere gli Stati Uniti a collegare, come mi pare giusto, il problema specifico del Kuwait con la Conferenza di pace, che potesse essere una via d'uscita accettabile per tutti, e ragionevole. Occorreva insistere su una soluzione di forza politica, e non bellica, mantenendo con rigore l'embargo e proponendo la Conferenza globale. Si sarebbe impedito, così, ogni alibi a Saddam Hussein, che oggi può presentarsi alle masse arabe come aggredito: la guerra l'hanno iniziata gli americani, i popoli del Medio Oriente non hanno la stessa nozione del diritto internazionale che abbiamo noi. Ai loro occhi l'invasione del Kuwait non è di tale gravità da giustificare una guerra così devastante da parte di tanti paesi contro uno solo". Di questo approfitta la propaganda irakena, e Saddam Hussein si presenta come leader della fede musulmana aggredita. "Questo è, in realtà, e in prospettiva mondiale, il grande pericolo di questa situazione. Guai se questa guerra si trasformasse in "guerra santa". E invece è ciò che accade se noi continuiamo a vedere solo il problema dell'invasione del Kuwait, e a non aprire un orizzonte più vasto. Così la guerra diventa la lotta dell'occidente egoista che tutela i suoi interessi, e il petrolio prima di tutto. --- • () I
.{)!I, Bl.\:\(:O lXII.HOSSO iii•iilid Allo stesso modo: guai se si insiste a collocare la realtà nell'ottica dell'odio e ·della demonizzazione reciproca. Da questo punto di vista è davvero paradossale che Saddam Hussein, considerato fino a ieri il difensore della laicità occidentale contro il fondamentalismo sciita, e perciò armato fino ai denti, assolto per anni da crimini come la guerra chimica e la feroce repressione degli avversari politici e del popolo curdo, venga ora demonizzato. Nel momento in cui europei e americani lo trattano come Hitler, agli occhi delle masse arabe, che spesso sanno solo che Hitler è stato un grande personaggio del passato, corrono il rischio di divinizzarlo, e di trasformarlo in un simbolo. Lo stesso Irak, paese certamente non povero, e con una struttura industriale ed economica non certo da Terzo mondo, diventa il simbolo del Terzo mondo schiavizzato che lotta contro gli oppressori''. Ma allora hanno ragione i pacifisti, e coloro che dicono sempre e comunque no alla guerra, ad ogni guerra? "No. Capire è anche il dovere dei pacifisti, e di coloro che in questa vicenda riescono a vedere solo petrolio, capitalismo e americani. Occorre proporre, certo, la pace, ma senza assumere posizioni assolute e irreali, come la pretesa di presentare la guerra come male assoluto, o quella di chi non accetta la guerra in nessun caso. Nella storia, qualche guerra è sta- (*) Ecco alcune delle opere principali di Edgar Morin, con l'anno di pubblicazione in lingua francese. Quasi tutte sono tradotte anche in italiano. 1946: L'anno zero della Germania 1951: L'uomo e la morte 1956: li cinema, o dell'immaginario. Saggio di antropologia sociale 1957: l divi 1960: L'uomo problema. Frammenti di una antropologia 1962: L'industria culturale 1965: Introduzione ad una politica dell'uomo 1969: Medioevo moderno ad Orléans 1969: li vivo del soggetto 1973: li paradigma perduto. Cos'è la natura umana? 1976: Lo spirito del tempo. La nevrosi. La necrosi 1977: li metodo. La natura della natura (in italiano tradotto in due parti: La vita della vita; La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, 1983 e 1989) 1981: Per uscire dal XX secolo (in italiano Ed. Lubrina, 1989) 1982: Scienza come coscienza 1984: Sociologia del presente 1984: li rosa e il nero 1987: Pensare l'Europa 1---- ---- - IO ta davvero una necessità. Del resto questa idea, che la guerra è sempre e comunque una cosa mostruosa e da evitare, non è una posizione politica e forse non è neppure davvero morale. Essa infatti dissolve l'orrore di tutte le guerre in un fumo indistinto, e non consente più di giudicare neppure una guerra come questa, che può anche essere una guerra sbagliata, ma ha aspetti che la giustificano. Occorre giudicare tutto, anche la guerra, tenendo conto della complessa realtà di tutte le circostanze. Considerando tutto, allora il giudizio diventa razionale, pur restando sempre opinabile. Nessuno è la verità assoluta. Per me questa è una guerra sbagliata, nei suoi aspetti bellici, perché non risolve davvero i problemi che ci stanno davanti. Occorreva una reazione politica, forte, energica, tenuta con rigore e con tenacia. Con le armi che distruggono si caccia Saddam dal Kuwait e magari lo si toglie di mezzo, ma i problemi del Medio Oriente restano tutti lì". E allora che fare? "Continuare a gridare forte l'esigenza della pace, anzi della pacificazione. Occorre fare al più presto ciò che bisognava fare da tempo, e cioè affrontare congiuntamente tutti i problemi di quella regione del mondo. Il Medio Oriente è, oggi, una sintesi esemplare di tutti i problemi dell'umanità alla fine di questo millennio. Qui si scontrano, o si incontrano, Oriente e Occidente, Nord e Sud, modernizzazione e fondamentalismo, religione e laicità, lslàm, Ebraismo e Cristianesimo ... Qui c'è anche, certo, una grande quantità di petrolio, con ciò che significa per il mondo del futuro. Qui il mondo sviluppato ha concentrato per anni la sua capacità di armamenti, i suoi esplosivi. Occorre restituire il suo spazio alla ragione, al dialogo, alla forza politica e diplomatica di una Onu non più paralizzata da veti incrociati, e da interessi particolari che ostacolano l'interesse di tutti, che è certo quello della pace con la giustizia per tutti, anche e innanzitutto per Israele, che dovrà pur capire che l'unico modo per essere davvero sicuri è garantire la sicurezza per tutti, palestinesi compresi, che a loro volta debbono capire che se vogliono vivere in pace debbono assicurare la pace agli altri, anche ad Israele. È un compito che ci sta davanti. E l'intellettuale deve parlare smontando i meccanismi delle opposte semplificazioni. Non è comodo, certo, ma è così".
i)JI, BIAl\CO '-Xn.nosso lii•li••il Pace "a qualunquecosto"? !!etica e la guerra di Giorgio Tonini I 1 riaffacciarsi, in queste settimane, dell'esperienza della guerra ha messo a dura prova le coscienze cristiane: da quella del papa, fino a quella dei più semplici tra i credenti. Non c'è nulla di cui stupirsi. La coscienza cristiana ha infatti riscoperto, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, una forte avversione alla violenza: il concetto stesso di peccato è stato sostanzialmente identificato con quello di violenza, intesa come frutto ed espressione massima dell'ingiustizia, superando anguste riduzioni del peccato stesso alla sfera delle cosiddette "impurità" sessuali, o comunque a quella delle microtrasgressioni dell'ordine costituito. La violenza, per il cristiano di oggi, è il peccato più grave, non solo in quanto essa è una delle cause principali di quello spaventoso abisso di inspiegabile dolore che affligge la vita individuale e collettiva dell'uomo, ma anche e soprattutto in quanto essa appare frutto del libero volere umano e non di forze naturali avverse: un libero volere che si traduce in morte e dolore, anziché in vita e amore. Si tratta di un'acquisizione importante della coscienza cristiana contemporanea, tanto più importante in quanto essa produce o accompagna, talvolta segue, un'analoga, più generale acquisizione da parte della cultura occidentale contemporanea, la quale nel suo insieme, tolte poche frange non significative, teme la violenza, la considera qualcosa di subumano e spera, o si illude, che tutti i problemi siano risolvibili per via pacifica. Questa acquisizione, assolutamente positiva, non è tuttavia, a mio modo di vedere, priva di rischi. Se assorbita e utilizzata con disinvoltura, essa può togliere profondità alla meditazione cristiana sul male e sulla violenza e alla speranza cristiana sulla pace, identificando la coscienza cristiana con un superficiale irenismo. ; - 11 ''Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise" (Gen. 4,8). Così, secondo la Bibbia, la violenza, frutto del peccato, entra nella storia dell'uomo. Adamo volle dare all'uomo un'altra discendenza, che non fosse quella di Caino e generò Set. Ma dopo molteplici generazioni, "il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo" (Gen. 6,5-6). Diò mandò quindi sulla terra il diluvio, dal quale salvò l'unico giusto, Noè, con la sua discendenza. La quale a sua volta volle sfidare Dio costruendo una torre che le consentisse di conquistare il cielo. Allora, "il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra" (Gen. 11,8). La Bibbia vede dunque la causa della violenza nel peccato, inteso come rifiuto da parte dell'uomo dell'amore di Dio. Il germe di questo rifiuto è profondamente radicato nel cuore dell'uomo: cosicché la violenza non è estirpabile, non è eliminabile con un po' di buona volontà. "Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra": questa è la speranza di pace che grida Isaia (Is. 2,4), la promessa che, attraverso il profeta, Dio stesso ripete all'uomo. Ma Isaia precisa qualcosa che troppo spesso si omette: ciò avverrà "alla fine dei giorni", quando il peccato sarà definitivamente vinto e la riconciliazione tra Dio e uomo sarà compiuta. Cristo è autore di questa riconciliazione: "siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo", dice Paolo (Rom.
.{)!I, BI \~(:O l.XII.HOSSO iiiiiiliil 5,9). Alla nascita di Gesù, "apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama" (Luca, 2,13-14). In Cristo dunque si realizzano insieme la riconciliazione tra Dio e uomo e quella degli uomini tra loro, il peccato è vinto e la pace può trionfare. Ma ciò che è mistericamente già realizzato in Cristo potrà avverarsi in pienezza solo nel Regno di Dio: nel momento estremo della sua vita, dinanzi a Pilato che lo interroga, Gesù afferma solennemente: "Il mio regno non è di questo mondo" (Giov. 18,36). È questa "differenza" tra la storia e il Regno, che pure sono tra loro solidali, che spiega l'affermazione politica per eccellenza di Gesù Cristo: "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Marco 12,17), ovvero non confondete l'annuncio della salvezza con un progetto politico o, di converso, rispettate l'autonomia della politica, purché essa non pretenda di farsi adorare. Applicato alla questione cruciale della pace, ciò significa che essa, pur essendo dono di Dio attraverso il sacrificio di Cristo, non è di questo mondo, ma sarà realizzata compiutamente solo nel Regno. Non per questo il discepolo di Cristo può sottrarsi al dovere di costruire la pace: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Matteo 5,9). Ma cosa vuol dire, in concreto, essere "operatori di pace''? Per la Chiesa ha sempre voluto dire due cose: annunciare il Vangelo e quindi provocare la conversione dei cuori, su un piano; sostenere la ricerca dell'uomo di canali giuridici e politici che evitino l'esplosione incontrollata della violenza, su un altro. Insomma due vie, una all'insegna della speranza, l'altra improntata a grande realismo. Due vie distinte, eppure non contraddittorie, in quanto derivanti da un'unica concezione del destino dell'uomo. "Et-et" e non "Aut-aut", avrebbe detto Lazzati: l'ortodossia cattolica ha sempre tenuto ferma la complessità della rivelazione; scegliere una sola delle due vie sarebbe, su questo come su molteplici altri temi, scegliere la via dell'eresia, come spesso è accaduto nel corso dei secoli. È per questo che il papa ha potuto dire di recente che il cristiano, "operatore di pace" non è un "pacifista"; il cristiano sa infatti che, nella storia, non può darsi pace perfetta e che le speranze di avvicinarsi alla pace già in que- = 12 sto mondo sono riposte nel diritto, ossia in regole di giustizia. Il Concilio Vaticano II, al n. 79 della Costituzione "Gaudium et spes", afferma: "La guerra non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantochè esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di legittima difesa. I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza. Ma altra cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. Né la potenza bellica rende legittimo ogni suo uso militare e politico. Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto". Questo brano del Concilio spiega i motivi della distanza tra il punto di vista della Chiesa e quello del pacifismo fondamentalista: quest'ultimo è incapace di distinguere tra violenza e uso legittimo della forza e dunque obbligato a stabilire una distanza incolmabile tra principi ·morali e scelte politiche. L'errore che questo tipo di pacifismo commette è quello di non comprendere l'importanza del diritto, come unico punto d'incontro, possibile e necessario, tra etica e politica. E immaginare che possa esserci pace senza diritto è colpevole illusione, così come è colpevole illusione pensare che possa esistere diritto, anche diritto internazionale, che non preveda sanzioni contro chi si renda responsabile di violazioni, cioè che non preveda la possibilità di un ricorso regolato e proporzionato alla forza, per isolare e punire i comportamenti difformi alle regole stabilite dal diritto stesso. Se tutto ciò è vero, ne consegue che l'atto di aggressione, aggravato da barbare atrocità, consumato da Saddam Hussein ai danni del Kuwait, in patente violazione delle più elementari regole del diritto internazionale, non può non provocare una legittima, regolata e proporzionata sanzione da parte della comunità mondiale. Né vale invocare, contro questa verità, l'iniquità dei rapporti tra il Nord ed il Sud del mondo, la mancanza di vera democrazia in Kuwait, la questione palestinese o
--- _l)-lJ. BIANCO u_u.nosso Mi•iil•ii JUDENTRANSPOARUTSDENNIEDERLANDE-NLAGERWESTERBOU Raeftling!, 301 .IIEngers Isidor - ✓;0.4. 93- Kau.fmann 302 Il Engers Leonard 15.6. 20• Lamdarbeiter }03Y Franco Ma.nfred • V1. 5. 05- Verleger 304. Frank Arthur 22.a. a1 Kaufmann 30 • Frank X Isa.a.e ✓ 2 • 11 .a Installateur ran Margot 2 ohne ;07. Frank: v Otto 89 Kaufmann }08 .v Frank-Hollaender Edith 00 oh.n.-e 309. Frank Anneliese 2 ohne • v. re.no ara - 02- Typietin 311. Fra.nken Rozanne. 16. 5. 96- Landarbeiter 312 •., Franken-Weyand Johanna 24.12.96 .. Landbauer 313. Franken Rermann- ~12. 5. 34 ohne Una lista degli ebrei deportati ad Auschwitz con l'ultimo treno partito da Westerbork. quant'altro. Per quanto simili argomenti possano risultare in sè fondati, in alcun modo essi possono rendere meno colpevole il gesto dell'Irak. E se - come è del tutto evidente - altre violazioni del diritto internazionale sono state commesse o sono ancora in atto, si dovrà chiedere contro di esse la medesima capacità di condanna che si deve chiedere contro l'Irak, mentre non si potrà utilizzarle, come ha fatto Saddam Hussein, a propria discolpa. Resta peraltro da stabilire se il ricorso alla guerra sia la legittima, regolata e proporzionata sanzione che la comunità mondiale deve irrogare all'Irak. Su questo versante la discussione è aperta ed è difficile produrre certezze. Almeno due appaiono essere i punti deboli, sul piano della legittimità, della posizione alleata nel Golfo Persico. Il primo concerne la titolarità dell'atto di forza, che non dovrebbe essere di una sola o di un gruppo di nazioni, ma della comunità internazionale in quanto tale: e tutti sappiamo che gli eserciti e le flotte che bombardano l'lrak battono bandiere nazionali e non quella delleNazioni Unite. D'altro canto, è anche vero che le nazioni alleate contro l'lrak hanno ottenuto dall'Onu una sorta di mandato ad assistere il Kuwait in quella che è certamente un'operazione di legittima difesa. Non siamo quindi ancora in presenza di quella "autorità internazionale competente, munita di forze efficaci", che il Concilio auspica, anche se qualche passo in avanti in questa direzione la gestione di questa crisi l'ha fatto registrare. Ma in ogni caso, l'azione di guerra rientra certa13 mente in quella ipotesi subordinata di legittimità che pure il documento conciliare riconosce. È tuttavia soprattutto un secondo aspetto che appare problematico, quello della proporzionalità dell'intervento sanzionatorio alla gravità del danno arrecato dal colpevole: una guerra che infligga pesanti perdite alla popolazione irachena può ancora ritenersi un atto di legittima difesa, o non rischia di sconfinare in quella indiscriminata "distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti" che sempre la "Gaudium et spes", al n. 80, definisce un "delitto contro Dio e contro la stessa umanità"? In altri termini, l'uso della forza contro un aggressore, per essere legittimo deve anche essere proporzionato: la legittimità di un atto di forza non può infatti stabilirsi solo a partire dall'etica dei principi e delle intenzioni, ma anche tenendo conto dell'etica dei risultati: sarebbe infatti mostruoso per punire un crimine commetterne uno peggiore. Su questo aspetto non solo si può discutere, ma si deve soprattutto vigilare. Chi ha in mano le sorti della guerra deve infatti avvertire la presenza di un'opinione pubblica adulta, che non può tollerare che un'azione legittima si rovesci in una criminosa. Essere "operatori di pace'' può insomma voler dire anche fare qualche petizione di principio (sbagliata e superficiale) in meno e qualche buona battaglia concreta in più, per il diritto all'informazione, contro gli abusi di guerra, a favore dell'utilizzo indefesso di tutte le vie diplomatiche per risolvere la questione evitando il prolungarsi della guerra.
,P-lJ. BIANCO lXII.HOSSO iii•iiM•il Giovani e leva militare di Nadia Sgaramella La sentenza n. 470/1989 della Corte Costituzionale che, nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 15 dicembre 1972, n. 772 (Norme per il riconoscimento dell'obiezione di coscienza) equipara il periodo di durata del servizio militare non armato e del servizio sostitutivo civile a quello del servizio di leva, pone su un piano di pari dignità questi servizi configurandoli come "modi" di soddisfare l'obbligo costituzionale di difesa della patria. Questa sentenza, nell'accogliere una concezione così moderna e ampia dell'obbligo posto ai giovani dalla nostra carta costituzionale ha avviato un articolato dibattito sulle forme e gli ambiti attraverso i quali concorre alla realizzazione delle più importanti finalità dello Stato e, nel contempo, sulla funzione svolta oggi dal servizio militare di leva. Ci si chiede cioè se sia ancora utile per la difesa della patria e giustificabile sul piano dei principi costituzionali un servizio di leva come quello previsto all'attuale legislazione. L'esigenza di approfondire questi temi, al fine prioritario di comprendere valori ed orientamenti dei giovani e di fornire risposte adeguate in termini di riforma dell'attuale ordinamento, è stata raccolta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione giovanile che ha indirizzato i suoi lavori di indagine essenzialmente in due direzioni: da un lato una indagine approfondita sulla condizione dei giovani nell'ambito del servizio militare, dall'altro una ricognizione, attraverso una serie di audizioni, delle opinioni dei principali movimenti giovanili. Abbiamo utilizzato il ricco ed interessante materiale raccolto dalla Commissione per delineare in queste pagine, in maniera necessariamente sintetica, le opinioni dei giovani rispetto al servizio militare. Il servizio di leva, definito come un diritto- : 14 dovere del cittadino, nel rispetto dell'art. 52 della Costituzione, pesa oggi sulla condizione giovanile come un vincolo vessatorio. Da parte dei giovani giungono messaggi di dissenso verso il servizio militare così come concepito e organizzato da leggi e regolamenti distanti dalla .realtà moderna, lontani dalla sensibilità e dalle capacità culturali e professionali delle nuove generazioni. Ai loro occhi il mondo militare appare una realtà in cui la capacità del singolo ed il diritto individuale sono mortificati dal tipo di vita che si conduce in caserma (v. Audizione del Cocer - organismo di rappresentanza dei militari - del 29 giugno 1989). I maggiori disagi sono da ricondurre "alla disciplina ferrea, all'allontamento dalla propria casa, alla cattiva qualità del vitto e dell'alloggio" e così via (v. Audizione Ces - il Cesc è il coordinamento degli enti di servizio civile che comprende 80 enti pubblici e privati convenzionati con il Ministero della Difesa per lo svolgimento del servizio civile degli obiettori di coscienza - del 19 settembre 1989). Si tratta di una critica pressoché unanime, che si affianca comunque ad un generale riconoscimento dell'importanza del tema. È rispetto alle interpretazioni ed alle prospettive che si ritrovano invece posizioni diversificate. A giudizio del Movimento giovanile democristiano, quello della leva è un tema che si inserisce in un percorso formativo di crescita dei giovani e rappresenta un momento vissuto in modo contraddittorio: "a qualcuno potrà sembrare una fase poco importante, da vivere con una certa superficialità ma per altri esso potrà rappresentare un'esperienza capace di lasciare ricordi anche drammatici". È pertanto necessario - per il Movimento giovanile democristiano - riqualificare il servizio di leva, "non facendolo diventare un momento di grandi prestazioni fisico-sportive, ma certa-
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