.()JJ, BIANCO l.Xll,HOSSO QidOIIMl#itlit4tiMI che, a partire dagli anni '60, a Via XX Settembre entrò una squadra, la squadra della programmazione, che parlando a nome dello Stato, doveva usare questo tipo di linguaggio. E siccome fu una squadra dotata di una forte capacità dì influenza, tutti cominciarono a scrivere i documenti allo stesso modo, anche i partiti. È possibile che ci sia stato un effetto imitativo di questo genere, ma è anche possibile - anzi è certo - che c'è stato qualcosa di più. Quello che è accaduto al lessico, è accaduto alla sostanza: ci siamo persi il soggetto. Ci siamo accorti che non parlavamo più a nome di una classe, di ceti, di gruppi tutti riconducibili a un'unica matrice; ci siamo accorti che avevamo di fronte una pluralità di interessi e di segmenti sociali e che potevamo soltanto parlare in nome di una società più giusta, il che richiedeva piuttosto il "si dovrà" che non il "qualcuno dovrà". Il fenomeno è noto e studiato da più angolature: la cultura di sinistra lo studiò e lo visse come la fine della classe operaia come classe generale. La cultura non di sinistra lo spiegò in altro modo, che anche quella di sinistra fini per far suo: la società era cresciuta, era venuta meno la dicotomia tradizionale tra il mondo dei padroni e il mondo dei lavoratori in tuta blu. La tuta blu rimaneva, ma era una delle tute del mondo del lavoro; c'era stata una grande espansione del ceto medio, il ceto medio si era venuto organizzando con una pluralità di articolazioni che non permettevano più di vedere gli uni da una parte e tutti gli altri dall'altra. Insomma, c'era una discrasia tra l'evoluzione della società e la nostra cultura; il nostro linguaggio, il nostro modulo organizzativo tradizionale che presupponevano una monocorde dicotomia sociale ormai superata. 2. Dal partito di massa al partito "pigliatutto". Il cambiamento a cui fummo costretti e c-he in larga parte subimmo non si fermò - come dicevo - al lessico. Per i partiti, e soprattutto per quelli di sinistra, fu una sorta di ribaltamento che in qualche misura investì anche i sindacati. Il partito di sinistra era - per struttura e per funzione - lo strumento organizzativo attraverso il quale la classe subalterna doveva riuscire progressivamente a farsi valere e a farsi valere prima nella società e poi nello Stato; un partito, perciò, che aveva una funzione di rappresentanza, ma anche di compattamento e di direzione di questo movimento verso traguardi di maggiore progresso e di maggiore eguaglianza. Ebbene, davanti alla pluralizzazione che si viene determinando, esso perde fortemente i suoi connotati sia di monorappresentanza di una parte definita della società, sia, e ancor più, di direzione di questa parte e diventa progressivamente una macchina per coagulare consensi fra loro eterogenei, allo scopo, se non solo sempre più prioritario di metterli insieme per avere posizioni nel sistema politica e nel sistema istituzionale. In poche parole, quello che succede e che in qualche modo ci prende di sorpresa mentre noi lo facciamo succedere, è la trasformazione del vecchio partito di massa nel partito che una nomenclatura famosa chiamerà ''partito pigliatutto": dove c'è una differenza, perché il partito di massa è tendenzialmente un partito grosso che tende bensl a pigliare, ma non tutto, piglia interessi che sono fra loro omogenei e cerca di condurli in una direzione precisa. Il "partito pigliatutto" è invece un partito che piglia quel che si lascia pigliare e finisce per andare laddove gli interessi di cui ha avuto il consenso lo conducono, e rinuncia progressivamente alla funzione di direzione, perché, se si prova a esercitarla, rischia di perdere i consensi di coloro che in quella direzione non vogliono andare. Il fenomeno ci prese di sorpresa anche perché quelli di noi che queste cose le avevano studiate o le avevano echeggiate, avevano preso sul serio Duverger e la dottrina sui partiti di massa che lo rese famoso all'inizio degli anni '50, quando descrisse i partiti di massa, gli organizzatori di classe con le caratteristiche di rappresentatività e di direzione di cui prima parlavo, come un fenomeno tipico della società industriale e del suo pieno sviluppo. Si stava dimostrando invece che non era così: come giustamente altri hanno scritto, e vi ricordo Sandro Pizzorno, il partito di massa descritto da Duverger e nel quale noi avevamo creduto, era il riflesso non della società industriale, ma delle fratture e degli squilibri del processo iniziali di industrializzazione e, fra le due cose, c'è una profonda differenza. Quel tipo di tensione, dicotomica e forte, che crea un conflitto chiaro, distinto, nettamente polarizzato in una società divisa in due, non è il conflitto della società industriale nascente. È il conflitto che farà credere a Marx e ad altri che il progresso della società industriale sarà un processo di crescente depauperamento dei lavoratori dipendenti, di scomparsa del ceto me-
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