pubblica amministrazione e quelli che si misurano con le logiche del mercato (industria - agricoltura - commercio - terziario ecc.). Tutto ciò potrebbe minare il ruolo confederale, non certamente a favore di un sindacato più moderno e rispondente ai bisogni della società del 2000, ma per una esperienza sindacale frantumata e corporativa. Continuo a non credere possibile che l'esasperazione corporativa rappresentata dai Cobas possa riproporsi anche all'interno di settori che si misurano con il mercato perché in questi il limite al rivendicazionismo è determinato dalla capacità dell'impresa di riassorbire i maggiori oneri. È quindi un limite oggettivo, dettato anche dal mercato, che mette in gioco non solo la quantità del salario, ma, fondamentalmente, la stabilità dell'impiego. È un vincolo forte, riconosciuto da tutti i lavoratori. Sono convinto quindi che questi settori potranno, al massimo, registrare pressioni interne con fenomeni quali sono stati i Cub oppure altre forme di associazionismo di particolari specificità professionali, tutte però riconducibili ad un confronto serrato con il sindacato e la sua logica. Un pericolo vero sussiste invece nei settori pubblici dove manca sia una logica di concorrenza di mercato, sia una certezza delle dimensioni delle compatibilità, né esiste un "terreno" codificato e certo delle conquiste contrattuali. A mettere in crisi il potere contrattuale e la logica sindacale confederale sono proprio le incoerenze governative, nonché le risposte a bisogni di clientele elettorali di gruppi trasversali dei poteri politici e non certo le logiche rivendicative delle categorie del pubblico impiego. Questi sono in genere scavalcati da incoerenze altrui. In questi settori occorre, quindi, dare certezza di risultati per ottenere - in cambio - un'azione rivendicativa coerente con una politica dei redditi, dell'efficienza e della produttività; altrimenti si continua - nei fatti - ad alimentare l'insorgere di frammentazioni corporative. Se questi sono i mali e quindi le cause della crisi di un sindacalismo confederale, quali possono essere i rimedi? La storia del sindacalismo in Italia ci dimostra quale strada seguire: negli ~.ti. Bl.\~CO l.XII. HOSSO •h•#§•IA anni '50 la Cgil subi una sconfitta alla Fiat, non solo per mano del padrone ma - come riconobbe lo stesso Novella - per non aver capito il ''nuovo che veniva". Il nuovo era rappresentato dal decentramento contrattuale: contrattazione articolata e integrativa che la Cgil considerava strumento di rottura dell'unità di classe cementate - secondo, lei - dalla contrattazione centralizzata (confederale e nazionale). Oggi, se si vuole recuperare e salvaguardare l'esperienza del sindacalismo confederale italiano e non essere assorbiti nei modelli europei, che hanno solo un'espressione organizzativa confederale senza forti poteri contrattuali centrali e decentrati, occorre ridefinire ruoli politici rivendicativi dei vari livelli del sindacato italiano. Lo schema quindi va mantenuto ma ridisegnato. In quest'ambito penso ad un ruolo delle Confederazioni sempre più mirato a garantire una vera politica di tutti i redditi attraverso una battaglia sul fronte della politica fiscale, unico terreno discriminante sul quale costruire la solidarietà. In questo ambito, coerenza vuole che le dinamiche rivendicative nazionali siano definite in funzione della crescita del costo del lavoro, indicato nella politica dei redditi e da parametri di compatibilità dei vari settori. Ciò per evitare che scelte generali diventino troppo onerose per alcuni e insignificanti per altri settori. Si raggiunge quindi da un lato una garanzia minima di solidarietà per i soggetti sociali deboli e marginali, dall'altro lo spazio, nell'ambito di coerenze definite, per la contrattazione categoriale nazionale ed aziendale. Su questo schema le categorie continueranno ad avere un ruolo forte e non secondario. Anzi, proprio per evitare i rischi della frammentazione, nell'ambito delle Federazioni, occorrerà lasciare spazio - anche contrattuale - alle specificità, senza intaccare una coerenza di impostazione. Per questo non condivido la tesi di quanti, nell'ultima tornata contrattuale, giudicano eclissato il ruolo delle categorie e del contratto nazionale. La travagliata vicenda del rinnovo contrattuale dei meccanici, complicata e difficile, non può essere assunta come unico modello di una tendenza, semmai va letta come la fine, augurabile, di un modello superato di relazio- ■ 111 JO ni sindacali, sulle quali ha giocato l'ottusità di quella controparte industriale. Quale spazio per un rilancio del processo unitario? Ho apprezzato come nelle domande non ci siano riferimenti, almeno espliciti, alla caduta dei blocchi e alla fine delle ideologie come mezzo per rilanciare il processo sindacale unitario in Italia. Se anche questi aspetti sono rilevanti e importanti, essi da soli non sono sufficienti - credo - per impostare un nuovo cammino unitario. Infatti non credo molto che siano condizionanti e propulsivi, perché in tal caso varrebbe la tesi ed il presupposto che anche il pluralismo sindacale in Italia sia esclusivamente il frutto delle divisioni ideologiche del passato. Se nel momento delle scissioni (' 48 e '49) le ragioni erano certamente ideologiche, con gli anni le differenze si sono rimarcate più su ragioni politiche; il ruolo del sindacato in questa società occidentale; il suo essere soggetto politico autonomo; l'essere organizzazione volontaria con - nei fatti - potere "erga omnes". Quindi, nel momento in cui si rilancia un processo unitario, l'ipotesi si deve basare su quale sindacato in una società democratica ma capitalista. Da questo punto di vista sono molto scettico per un filo comune che vada, nel breve e medio periodo, oltre l'unità d'azione. C'è il problema di individuare il sindacato quale soggetto politico autonomo. Non tutti condividono tale entità nello stesso modo: ad esempio nell'accordo del 14 febbraio '84, tra chi l'ha fatto alcuni più che rispondere ad una propria scelta autonoma sindacale e politica hanno cercato di evitare problemi sociali, economici e politici alla allora Presidenza del Governo, così come i comunisti si comportavano durante l'unità nazionale. Il nodo della reale autonomia del sindacato diventerà sempre più un problema pressante perché la scelta di un sindacato partecipativo ci imporrà una capacità di valutazioni ed una identità propria per evitare ogni subalternità all'impresa. Questo - a mio avviso - è il terreno di confronto sul quale aprire il dibattito per avviare un nuovo processo unitario, lasciando per strada i fatti emozionali che, seppur entusiasmanti, rischiano solo di confonderci.
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