~.lLBIANCO i.xli.BOSSO •l11k1A1 liMN lità della popolazione rendendole un bene pubblico si è incominciato infatti anche a discutere il passaggio da un sistema di finanziamento fondato sui contributi in proporzione ai salari ad un metodo più simile a quello danese basato sul sistema tributario generale. Per varie difficoltà non se ne fece nulla. Qualche anno più tardi, per distribuire un po' più equamente il costo del finanziamento del sistema sanitario, è stata istituita la «tassa sulla salute» per il lavoro autonomo e per i redditi diversi da quelli da lavoro dipendente. Si deve dire, tuttavia, che non sono stati adeguatamente risolte, né le esigenze di equità, né quelle del finanziamento del sistema sanitario. Anche se in Europa il sistema contributivo è la regola ed il sistema tributario l'eccezione, nulla naturalmente impedisce che da noi siano cercate soluzioni ritenute più funzionali. La prima cosa che serve è, però, quella di avere ben chiare le conseguenze delle diverse soluzioni che si ipotizzano. Bisogna sapere quindi che con il finanziamento della sicurezza sociale attraverso la tassazione, come in Danimarca, si riduce il peso del costo sul lavoro, ma non sull'intera economia. Questo significa che per poter pagare meno contributi le imprese devono pagare più tasse. Come in Danimarca, appunto. A sua volta il finanziamento di una riduzione dei contributi con un aumento del1'I va sui consumi (soluzione caldeggiata dalla Confindustria) riduce il peso della contribuzione sul costo del lavoro e consente un vantaggio competitivo perché l'Iva è recuperata sulle esportazioni. Ma questo meccanismo innesca tensioni inflazionistiche, perché l'aumento dell'Iva si trasferisce immediatamente sui prezzi al consumo, mentre gli sgravi contributivi si trasferiscono solo con ritardo o non si trasferiscono affatto sui prezzi. Con un'inflazione doppia rispetto all'Europa dovremmo guardarci bene dall'assumere decisioni che la possano aumentare. Infine, secondo alcuni sindacalisti un'alternativa potrebbe essere quella di un finanziamento della fiscalizzazione dei contributi malattia attraverso un prelievo commisurato al valore aggiunto prodotto. Ma un'imposta sul valore aggiunto prodotto avrebbe conseguenze negative per gli investimenti. E con la disoccupazione che ci ritroviamo non sembra proprio un'idea da incoraggiare. In ogni caso ciò che non può essere offuscato è che, al punto in cui siamo, non esistono pranzi gratuiti e quindi il confuso happening previsto a giugno non può certo risol- - 3 - - - versi in una tresca con un trasferimento di oneri a carico del bilancio dello Stato. Semmai il disastro della finanza pubblica, che è divenuto un autentico nodo scorsoio per l'economia, esigerebbe, al contrario, che il confronto fosse finalizzato ad un convergente impegno di severe misure di risanamento del disavanzo ed in questo quadro di una efficace politica dei redditi. Ma a simile approdo, almeno per il momento, le parti sociali non sembrano orientate. Per la verità anche tra i responsabili del governo dell'economia c'è chi pensa che l'adozione di una drastica politica dei redditi non sia poi la cosa più urgente e che comunque essa non dipenda dal consenso delle parti sociali. Secondo questa visione delle cose, in un sistema di cambi fissi la politica dei redditi sarebbe ormai determinata dal cambio. Chi volesse infatti spingere i redditi oltre il cambio «alla fine fallisce o viene licenziato». L'argomentazione potrebbe apparire persuasiva se non fosse contraddetta dal fatto che in metà dell'economia (nel settore pubblico ed in tutti quelli non esposti alla concorrenza interna ed internazionale) non si corre il rischio né di fallire, né di essere licenziati. Del resto, fuori da un accordo e da un esplicito impegno triangolare, qual'è l'alternativa? Che siano Cirino Pomicino e Gaspari a garantire per il settore pubblico il rispetto delle compatibilità che la situazione economica del paese esige? Sarebbe, come ha osservato argutamente un sindacalista, affidare alle volpi la guardia del pollaio. Non è un pregiudizio, ma piuttosto la constatazione di ciò che è stato fatto con i contratti del pubblico impiego appena firmati e già in fase di rinnovo. Ma se la politica dei redditi non può essere affidata al volonteroso funambolismo finanziario di qualche ministro, non può nemmeno essere fatta senza una coerente azione di governo. E questo è un punto delicato. Ci si deve chiedere se si può realisticamente affrontare una questione così impegnativa con un governo traballante e quindi non in grado di assumere obbligazioni per il futuro? Poiché si deve dare ragionevolmente una risposta negativa, un chiarimento politico appare non solo necessario, ma prioritario. Il resto, comprese le divisioni, le dispute, le insicurezze del movimento sindacale si collocano soltanto nella mischia delle cose che confondono e delle quali sarebbe bene liberarsi se si vogliono scongiurare i rischi di soluzioni finte per problemi veri.
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