Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 12/13 - gen./feb. 1991

la proposta di un patto per il Mezzogiorno che ha molte buone intenzioni ma anche due limiti fondamentali: non coinvolge i lavoratori del Sud né tanto meno quelli del Nord, laddove sonorisorse, potere, energie; di conseguenza appare tutta chiusa in una ragnatela di rapporti istituzionali destinata a degradare in pura operazione di immagine. Gli smarrimenti del sindacalismo confederale su temi così pesanti complicano la vita del Paese: appesantiscono la questione istituzionale, regalano radici infestanti alle leghe, compromettono la tenuta di organizzazioni a base nazionale. Su altri versanti si limitano a rendere illeggibile la matrice confederale. In materia di relazioni industriali, cioè di contenuti, la quantità e la qualità del conflitto, della contrattazione, della partecipazione, della democrazia economica, in definitiva della nostra collocazione nel sistema dei poteri sociali, si oscilla tra la richiesta di una semplice modernizzazione e la declamazione di un sistema compiuto di partecipazione, tra il cedimento alle suggestioni del primato dell'impresa e la pretesa di una redistribuzione radicale dei poteri imprenditoriali, tra l'esaltazione del contratto nazionale e la richiesta della sua eliminazione, tra ipotesi concertative centralizzate e rilancio della contrattazione decentrata. E intanto un sistema di relazioni industriali così poco innovato ci costringe, come nel caso dei metalmeccanici, ad una difesa intransingente di tutele minime e a conflitti duri su questioni puramente simboliche. E a quale rappresentanza sindacale aziendale va affidato un forte potere di intervento e partecipativo? È difficile pensare che siano sufficienti rappresentanze aziendali largamente informali nelle procedure elettive, indefinite nei compiti e nelle responsabilità. Com 'era prevedibile, messa in crisi l'ipotesi di riforma definita attraverso i Cars, il dibattito tra le confederazioni s'è arenato e cresce il partito di quanti, stoltamente a mio giudizio, auspicano un intervento legislativo. Fermiamoci qui. In definitiva il sindacalismo confederale non rischia la scomparsa perché estraneo ai tempi nuovi. Piuttosto il rischio è quello di una omologazione, di una lenta regressiva trasformazione da sindacali- .L>!I- BIANCO lXltllOSSO •U•ihiA Roma. Primo Maggio a piazza S. Croce in Gerusalemme 1891. smo confederale ad altro. A sindacalismo di nicchia: quello che scava nel sistema delle disuguaglianze - che non chiede di modificare - un proprio piccolo spazio pacificato; che fa del territorio, della categoria, del localismo, di una professione, di una particolare collocazione nella produzione di beni o servizi, non una risorsa ma un valore assoluto, chiuso al mondo circostante; quello che tende a trasformare i sindacalisti in un ceto professionale protetto. Oppure a sindacalismo corsaro: quello che - d'intesa con la Corona alla quale restituisce una tangente in consenso elettorale - prende come può e quanto può; quello che non ha e non vuole regole perché si sente più forte; quello che lascia vivere tutti purché non si navighino i suoi mari. Nessuna organizzazione sindacale, struttura, categoria, è esent-edai rischi del sindacalismo di nicchia o corsaro. Non c'è destra, centro o sinistra, non c'è schieramento di sorta che ne sia immune. Cosi come ogni sindacalista, oggi, è assai tentato dal centrare l'impegno sulle attività che più possono favorire i propri percorsi professionali (gestire l'informazione, curare l'immagine, sviluppare al massimo le relazioni interpersonali, ecc.) piuttosto che rischiare su progetti e strategie che, per "rendere politicamente" hanno bisogno almeno di tempi medi. Una occasione importante per dare più consistenza alla identità del sindacalismo confederale è offerta dal negoziato di giugno che coinvolgerà imprenditori e Governo. Sarebbe sciocco, in quella occasione, limitarsi ad inter-

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