Il Bianco & il Rosso - anno II - n. 12/13 - gen./feb. 1991

~-!.LUIANCO lXlt llOSSO 1811• 11 AliNI premesse per l'anno che è iniziato non sono migliori. Anzi. Il 1991 si presenta, infatti, come un anno di particolari difficoltà per il finanziamento del disavanzo, per la gestione dei tassi di interesse e quindi, in definitiva, per l'inflazione. In tutto questo la crisi del Golfo c'entra relativamente. Il rincaro del petrolio è stato finora assorbito dalla flessione del dollaro e quel poco, o quel tanto, che può aver ridotto la domanda mondiale potrebbe essere compensato dall'espansione tedesca che l'unificazione sta potenziando. Certo tutto può cambiare drammaticamente in peggio se la crisi sfociasse in una guerra. Al punto in cui siamo la possibilità concreta di scongiurare questo epilogo catastrofico sta nelle mani di Saddam Hussein. Non è facile immaginare le sue intenzioni. Certo i suoi comportamenti non inducono a valutazioni ottimistiche. Ha intrapreso una guerra contro l'Iran che doveva concludersi in due settimane e che è invece durata otto anni. Ha promosso l'invasione del Kuwait che doveva essere accettata, o perlomeno tollerata, dalla comunità internazionale, la quale invece ha mobilitato la più imponente armata dai tempi del secondo conflitto mondiale. Il meno che si possa dire è che la lungimiranza non è certo una sua virtù. Ma se, come noi continuiamo a sperare, il diritto sarà ripristinato ed il conflitto evitato dovremo fare seriamente i conti con le nostre difficoltà interne. In uno scenario di pace, agganciata alla Germania come è l'economia italiana, il quadro esterno non sarebbe poi tanto negativo, se non fosse per il fatto che essa non ha la forza per approfittarne. Al di là delle dispute se nel mondo ci sia recessione o soltanto rallentamento produttivo, se il ciclo di sviluppo sia stato arrestato da Saddam o da motivi preesistenti alla invasione del Kuwait, fatto sta che le condizioni comatose della finanza pubblica ed il collasso della pubblica amministrazione hanno un peso sempre più grave per il nostro apparato produttivo. La conseguenza è che la quota del mercato mondiale coperta dalle esportazioni italiane si va riducendo. Segno questo di una perdita di competitività del sistema produttivo. A causa della tradizionale preferenza della nostra classe dirigente a curare i sintomi anziché la malattia, si accentua l'attenzione sul costo del lavoro. Si accentuano anche di conseguenza le aspettative miracolistiche per il negoziato previsto a giugno sulla cosiddetta «ri- • ? ■ - forma della struttura del salario». Nessuno sa esattamente cosa significa questa formula magica. Per ora si deve constatare che per ciascuna delle parti in causa: governo, sindacati, Confindustria, essa ha un significato diverso. Sicché sarà difficile non solo (com'è naturale in ogni trattativa) mettersi d'accordo sul come risolvere i problemi ma, addirittura, stabilire quali dovrebbero essere i problemi da affrontare. Per il sindacato lo scopo del negoziato dovrebbe essere soprattutto una duplice razionalizzazione: del salario e delle contrattazioni. Problemi che sono sul tappeto da 20 anni e che per misteriose ragioni oggi sono considerati urgenti. Per il ministro del Bilancio Cirino Pomicino c'è invece «un problema di costo del lavoro da affrontare ... inteso nella sua globalità come questione salariale, fiscale e contributiva». Secondo le spiegazioni dello stesso ministro si dovrebbe discutere di scala mobile, di fiscal drag, di contributi sociali. A sua volta la Confindustria, per bocca del suo vice presidente Carlo Patrucco, assegna all'appuntamento di giugno non solo l'esigenza «di trovare una sostituzione alla scala mobile e disquisire di altre tecnicalità», ma soprattutto quella dovrebbe essere «l'occasione per mettere in moto una revisione complessiva della struttura del costo del lavoro intervenendo sui diversi aspetti che penalizzano le imprese italiane». Come si può vedere sull'oggetto di questo possibile confronto si fanno tante ipotesi che comunque finisca (immaginando che possa cominciare) si troverà sempre qualcuno che potrà dire: «l'avevo detto». Con opinioni così diversificate la cosa meno improbabile è che alla fine, come è già avvenuto lo scorso anno, tutto si risolva in un po' di fiscalizzazione di contributi sociali. La Confindustria, del resto, non perde occasione per lamentare che il peso dei contributi sociali sulle imprese italiane sarebbe eccessivo. Dal confronto sull'incidenza effettiva dei contributi obbligatori sul costo del lavoro risulta, in effetti, che l'Italia si colloca nella fascia alta (18,5% rispetto ad una media Cee del 16%). Ma va anche detto che è superata dai suoi più importanti partners commerciali, a incominciare dalla Francia e dalla Germania (che presentano rispettivamente incidenza del 23,6% e 20,3%). Anche se poco fondata, la querelle della fiscalizzazione è aperta da tempo. Quando, in seguito alla riforma sanitaria, si sono estese le prestazioni dai lavoratori alla genera-

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